Precisazioni a margine di un convegno

[litra scrita da Sergi Girardin a Enrico Eandi për s-ciarì ij but dël Rëscontr antërnassional an sla grafìa dla lenga piemontèisa ant ij sécoj]

Sancto Lucìo de Coumboscuro (Cuneo), giovedì, 30 marzo 2011.

Caro Eandi,

Ho ricevuto con vivo piacere e letto con attenzione la Sua gradita proposta di intervento al convegno internazionale sulla grafia della lingua piemontese attraverso i secoli.

Lei è stato il primo e il più sollecito tra i nostri interlocutori e gliene siamo francamente grati.

Se ho ben interpretato il Suo scritto, Lei si propone di illustrare il Suo correttore ortografico, che contiene diecine di migliaia di termini: un vero patrimonio lessicale, che saremmo ben lieti di condividere con Lei.

Il nostro, tuttavia, non è un convegno espositivo, in cui ciascun convegnista presenta la propria grafia (solo nel novarese se ne annoverano una diecina, come ci segnala gentilmente l’Academia dël Rison), ma un convegno scientifico in cui ciascun studioso – sull’ineludibile base di documenti storici – illustra come si scriveva il piemontese in quel determinato scorcio di tempo.

Un documento storico è pertanto il requisito imprescindibile per partecipare a questo convegno.

Sia ben chiaro, questo convegno non è la consacrazione del fatto già scontato che il piemontese, in diversi luoghi e tempi, si è sempre scritto allo stesso modo. Nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, prosatori, giornalisti, poeti, hanno utilizzato diverse grafie. Al contempo però si profila pure una tradizione che fa sì che autori di secoli diversi abbiano utilizzato più o meno la stessa grafia.

Il nostro scopo, con l’indizione di questo convegno, è proprio quello di verificare, caso per caso, la concrezione di questa grafia attraverso mille anni di prassi grafica.

Lei – non ne dubito – sarà senz’altro d’accordo con me che mille anni di storia documentaria hanno il loro valore, e che l’autorità di tanti classici, dall’Alione ai lirici del Novecento, abbia peso preponderante nel determinare la vera e autonoma fisionomia grafica del Piemontese.

Videre licet, se Dante non avesse scritto la Divina Commedia, Petrarca il Canzoniere e Boccaccio il Decameron noi oggi, con ogni probabilità, non scriveremmo l’italiano come lo scriviamo.

Bisogna quindi concedere ai grandi scrittori quel che loro spetta di diritto: determinare come compitare la propria lingua e assegnare di buon grado a questa auctoritas il merito che le compete.

Pertanto il convegno non si prefigge di accertare come Lei, o io, o altri, scriveremmo il piemontese se fossimo liberi di farlo a nostro arbitrio, ma come è stato effettivamente scritto nei secoli, tanto da grandi autori, quando da vari scriventi, in diverse circostanze.

Io sono certo che Lei, quanto io, quanto tanti altri amici ed amiche piemontesi, lavoriamo tutti con tenacia ed amore ad un fine comune: quello di preservare la lingua piemontese nell’autonoma e dignitosa forma che la sua storia millenaria le ha conferito.

Misconoscere questa storia o traviarne volontariamente i lasciti equivarrebbe a sfregiare i reperti d’arte del nostro passato: e sono sicuro che Lei condivide il principio che nessuna ragion pratica potrebbe mai giustificare un gesto simile.

Così come studiosi del francese, dell’inglese, o di qualsiasi altra lingua, non accetterebbero mai interventi arbitrari che privassero queste lingue della morfologia e dell’ortografia che esse hanno a poco a poco assunto nei secoli, noi pure, altrettanto fieri e gelosi della nostra, vogliamo lavorare per conservarle quelle caratteristiche storiche e formali che ne fanno una lingua autonoma e chiaramente distinta da tutte le altre.

Le ricordo, a questo proposito, uno studio fondamentale del linguista Bruno Villata il quale, dopo aver foneticamente isolato la lingua dei Sermoni, le ha assegnato il nome di lingua d’oè, per distinguerla dalle consorelle lingua d’oc e lingua d’oïl. A mio parere è uno studio di grande valore e ingiustamente sottovalutato, perché dimostra inoppugnabilmente l’autonomia del piemontese rispetto alle lingue transalpine.

Considerando poi che il piemontese è una lingua ancestrale, la sua precipua raison d’être è proprio quella di custodire ed avallare il nostro passato: la sua storia è la nostra storia, i suoi suoni ed i suoi segni sono la nostra identità nel tempo. Non solo non vogliamo umiliarla, snaturandone le forme od assoggettandola servilmente alla grafia di altre lingue, ma vogliamo appurare quali sono stati gli sviluppi grafici che, a poco a poco, hanno portato il piemontese ad essere quello che esso è oggigiorno.

La prassi grafica che ne emergerà sarà oggetto del nostro più scrupoloso rispetto.

Certo, se io mi ponessi davanti ai suoni di una lingua (circa 30 per l’italiano e 42 per il piemontese) e, freddamente, mi chiedessi quale sarebbe il modo più razionale per scriverla, senza alcuna considerazione per il suo passato, sceglierei invariabilmente una K per tutte le gutturali sorde, una G per tutte le gutturali sonore, e via di questo passo, fino a giungere ad un codice grafico molto, ma molto più semplice di quello che la storia ci ha tramandato. E, mi creda, non occorrerebbe neppure un piemontesista per fare ciò: un qualsiasi studente di linguistica, confrontato con certi suoni, risponderebbe con certi segni grafici.

Non c’è bisogno di grandi studiosi per snaturare una lingua, ma occorrono popoli e secoli per farla com’essa è.

Né vi è neppure bisogno di linguisti per scrivere il piemontese come lo scriverebbe qualcuno che non sa come si scrive: in tutti i tempi i piemontesi, per scrivere insegne e brevi messaggi, hanno scritto la loro lingua con il codice grafico dell’italiano, l’unico di cui disponevano. Per scrivere come loro non occorrono riforme o correttori: lo fanno già da soli.

Questo però non è storia del piemontese, così come quello che avviene dell’italiano sulle labbra dei figli e dei nipoti degli italiani emigrati all’estero non fa parte della storia della lingua italiana. Nell’uno, come nell’altro caso, fa parte della storia dell’analfabetismo, uno dei capitoli più tristi nella storia dell’umanità.

Una lingua, caro Eandi, non è un sistema logico e simmetrico, sul quale si può intervenire a capriccio, ma un codice idiomatico e storico, che va rispettato per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse.

Così come non costruirei mai una soprelevata autostradale al di sopra del Colosseo per risolvere i problemi di traffico dell’Urbe, o non sposterei mai l’ubicazione dei palazzi in Piazza della Signoria per ricavarne una prospettiva ideale, parimenti non sostituirei mai a mio capriccio i grafemi storici del francese, o dell’inglese, solo perché a me, italiano, risulta più comodo leggerli e scriverli in quel modo anziché seguire la norma plurisecolare degli scrittori di queste lingue.

Le lingue vanno studiate e rispettate.

Anzi, vanno seriamente studiate e scrupolosamente rispettate.

In nessun caso la loro storia va ignorata.

Se noi piemontesi ignoriamo la nostra storia, chi la rispetterà?

È per questo preciso motivo, storico e scientifico, che il convegno è stato indetto.

E, d’altra parte, VercelliViva, adusa ad organizzare convegni scientifici, storici, artistici di ineccepibile concepimento, non avrebbe mai accettato di organizzare questo convegno se non fosse stata convinta della sua impostazione scrupolosamente scientifica.

Se il fine del convegno è chiaro (e sono certo che Lei ne condivide l’importanza per noi tutti piemontesisti), io Le rinnovo l’invito a presentare uno o più documenti storici, dai quali si possa evincere, in modo inoppugnabile, quale è stata la grafia del piemontese nel corso dei secoli.

Sperando di non averLa subissata con l’eccessiva, ma tanto emotivamente sentita argomentazione a proposito della vera, autentica e storica personalità della nostra lingua piemontese, La ringrazio ancora vivamente per il Suo interesse e Le porgo cordialissimi saluti.

Sergio Maria Gilardino
Circolo filologico di Coumboscuro
Sala Redazione Dizionario Storico della Lingua Provenzale

Commenti

Enric Eandi ha detto:

Me car Gianni, cunsiderà el prof. Gilardin a l’ha pensà bin ed rende püblic ne scrit indirissà a mi, a me smijerìa giüst pübliché la mia risposta.
Ma a la fin, fa ti lon ch’it pense a sìa méj.
Salüt
Enric Eandi

Torino, 9 aprile 2011

Egr. prof. Gilardino,

come lei ben sa, uno dei principali effetti della indeterminatezza delle regole ortografiche piemontesi è questo: chi non vuole cercarsi rogne, passa a scrivere in italiano. Co perché a l’é pi bel fe.
Prima di tutto una precisazione: la mia proposta di intervento al convegno di Vercelli non ha per oggetto una particolare grafia, ma uno strumento di fondamenta le importanza per scrivere correttamente qualsiasi lingua, qualunque siano le regole ortografiche.
Questo vorrebbe essere il senso della presentazione della logica con cui un correttore ortografico si costruisce e soprattutto i vantaggi che se ne possono avere nell’usarlo.
Vantaggi tanto maggiori quando si tratti di una lingua, com’è il caso della lingua piemontese, che non essendo oggetto di insegnamento e uso obbligatori, non può che avere difficoltà a raggiungere una normalizzazione ortografica.
Quindi, il mio non vuole essere un intervento di tipo scientifico, per il quale non avrei alcun titolo, ma una presentazione di uno strumento tecnologico essenziale per dare stabilità e coerenza al lessico di una lingua, di qualsiasi lingua.
Naturalmente, lo strumento correttore, come tutti gli strumenti tecnici, può essere usato per diverse finalità; nel nostro caso, il correttore ortografico piemontese non impone delle regole ortografiche, ma date delle regole, qualunque esse siano, ne favorisce la corretta e coerente applicazione.
Naturalmente, il correttore ortografico diventa uno strumento indispensabile nella misura in cui si ritiene che sia un valore la normalizzazione ortografica dalle forme lessicali di una lingua; diventa uno strumento inutile, se si ritiene che sia bene invece che ognuno scriva a suo modo.

Come già ebbi occasione di dirle, io credo che sia un’iniziativa molto apprezzabile quella promossa dall’associazione Vervelliviva, da lei curata sotto il profilo scientifico.
In qualche modo, la storia della grafia piemontese può costituire un filo conduttore per seguire l’evolversi dell’identità del popolo piemontese, con gli effetti che ne sono derivati per il contrapporsi prima e il succedersi poi di diverse influenze linguistiche , sempre preponderanti, come quella francese e italiana.
Se la variabilità della grafia piemontese, comunque limitata a quei cinque o sei segni che assumono valori fonetici diversi nelle due lingue dominanti, può essere vista come parte della nostra storia e quindi comunque patrimonio da non disprezzare, resta da definire come immaginiamo il futuro della lingua piemontese, ammesso che un futuro lo vogliamo e quindi lo promuoviamo.

Ragionando di un possibile futuro per la lingua piemontese, la prima domanda che dobbiamo porci è la seguente: la normalizzazione ortografica è un bene per la lingua piemontese? Oppure è meglio se ognuno scrive a suo modo, come già lamentava Morissi Pipin?

Se l’uniformità della grafia non è un valore, allora abbiamo solo da andare avanti come adesso, lasciando che ognuno scriva a modo sua per sua intima soddisfazione, trascurando il fatto che in piemontese si scrive sempre meno, e sempre meno si legge, per cui, come osserva il prof. Villata, la lingua piemontese “va a fesse benedì”.

Se invece pensiamo che, senza rinnegare nulla del nostro passato, ma cercando di analizzarne le cause, sia opportuno lavorare per una normalizzazione delle regole ortografiche piemontesi, qualunque esse siano, allora il correttore ortografico diventa uno strumento indispensabile per la lingua piemontese, come lo è per tutte le altre lingue.
In altri termini, si può affermare che ciò che distingue una lingua da un dialetto, è proprio la disponibilità di un correttore ortografico, che poi vuol dire disporre di una base lessicale costruita secondo le regole grammaticali che costituiscono l’essenza della lingua stessa.
Perché, come scrive il prof. Villata nella prefazione a “La lingua piemontese – Savej 2010): la lingua piemontese ha una sola grammatica, anche se non tutti la scrivono allo stesso modo.

Quindi, se è vero che l’essenza della lingua piemontese non sta nella grafia, ma nelle regole che la definiscono, reso il dovuto omaggio alla storia passata e preso atto che anche il presente è fatto di grafie parzialmente diverse, resta da domandarsi se non sia opportuno lavorare per una normalizzazione della grafia che consolidi il molto che unisce e indichi una soluzione per il poco che divide.
Tutto questo è fattibile, se si parte dal principio che la grafia non è un dogma, ma una convenzione, importante per chi legge più ancora di quanto lo sia per chi scrive, quindi da adattare, quando è necessario, all’evoluzione del contesto culturale e linguistico in cui si vive.
Due sono gli elementi di cui tenere conto per un’ipotesi di normalizzazione della grafia piemontese:
• Il passaggio del Piemonte dall’area linguistica francese a quella italiana, con quello che ne consegue in termini di notazione grafica di alcuni suoni caratteristici della lingua piemontese (o, ö, u, ü);
• La mancanza di una diffusa tradizione scritta in lingua piemontese, con la conseguente tendenza a fonetizzare la grafia (trascrivere il parlato), avendo oggi come naturale riferimento le regole ortografiche della lingua italiana, da cui deriva l’instabilità e la complessità della forma scritta.

Questi, a mio parere sono questi i due principali elementi da cui partire per avviare un’azione di normalizzazione della grafia piemontese, anche sulla base dell’analisi storica che emergerà dal convegno di Vercelli.
In questa prospettiva, per chi dal passato vuole trarre indicazioni per progettare il futuro, potrebbe essere utile conoscere per sommi capi il supporto che la tecnologia informatica può fornire.
Questo vorrebbe essere l’oggetto del mio intervento: il correttore ortografico, come strumento operativo indispensabile; non le regole ortografiche che ne costituiscono la base, in quanto inevitabilmente opinabili.

Quindi non un intervento scientifico, ma una parentesi tecnologica; ammesso che la cosa possa interessare a qualcuno.

Tanti bej salüt
Enric Eandi

Paolo ha detto:

A me pare che dibatti del genere, che seguo da un po’ di tempo su questo blog grazie a Gianni, rendano vitale la nostra lingua piemontese. Ce ne fossero cento! Di blog così. Ci fosse la gara del correttore più ben fatto! (che girino anche su Open Office, per piasì) Certo una grammatica standard è necessario stabilirla, in nome del dare un futuro ad una lingua che se lo merita. E allora invece di remare uno conto l’altro, mettete i remi in barca e tirate fuori una grammatica bellissima, per un piemontese 2.0 🙂

giannidavico ha detto:

Mi i farai mai bastansa compliment al “Coretor ortogràfich” d’Enrico Eandi. Im arcòrd perfetament ël dòp-mesdì ‘d tanti agn fà (a j’era ‘l 1999 anviron) quand che chiel e Albina Malerba a son vnù personalment a portemlo.

Monsù Eandi a l’ha instalalo ansima a mé computer, e da col moment lì scrive an piemontèis për mi a l’é pì nen stàita la midema ròba: motobin pì sempi, tant pì amusant. A l’é servime mila, mila e ancora mila vire.

Peui, quàich mèis fà i son passà da Word 2000 a Word 2003, e purtròp col coretor a l’ha chità ‘d fonsion-é. As capiss, a l’é nen stàit agiornà. A më smija un pòch na metàfora dël piemontèis che, ëdcò chiel, a ven nen (o pòch) agiornà.

É, am piasrìa tant avèj torna un coretor come col-lì. A capiterà? I lo sai nen. Ma i peuss testimonié an manera fòrta e precisa che a l’é stàit n’utiss bon ben ùtil. E për sòn i dirai mai a basta mersì a monsù Eandi.

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