Feb 22

È stato un concatenarsi di cause, ma è un fatto che negli ultimi due-tre mesi ho sia allungato sia raddrizzato il driver.

Prima il mio volo di palla era un fade che tendeva troppo spesso allo slice, e dunque puntavo (anche inconsciamente) a sinistra per sperare di rimanere in pista, mentre ora i colpi sono molto più dritti e, cosa che non fa male, più lunghi. Forse una decina di metri o poco più, nulla di inaudito o fenomenale; ma se metti insieme i due fattori ottieni un risultato che ti porta a un bel sorriso.

Come ho fatto?

Io racconto qui la mia esperienza, che non intende essere una maniera di segnare la strada, ma è soprattutto un segnale di speranza: tirare driver più diritti e più lunghi è possibile. Anche se hai più di cinquant’anni. Anche se giochi da tanto tempo.

Però, certo, non capita per magia da un giorno all’altro. Richiede pensiero e lavoro.

Concause, dicevo. Io ne ho individuate quattro.

1. Il gatto e la volpe, di cui ho parlato qui. Ovvero ho cambiato il driver. E quello nuovo non è nuovo, è un modello di qualche anno fa che si adatta come un guanto alle mie caratteristiche. Non ha la canna stiff, per dirne una. Magari mi darò meno arie, ma i colpi parlano già per me.

2. Il fitting, che comunque ha confermato ciò che mi era stato fatto intuire. Avere la consapevolezza del fatto che l’attrezzatura che usi è quella corretta per te è importante. Suggerimento per il navigante: non dimenticare il fitting nei tuoi prossimi acquisti di attrezzatura. Con la tecnologia che abbiamo a disposizione oggi sarebbe come lasciare del denaro sul tavolo.

3. L’esercizio fisico specifico, seguendo i dettami e l’app del buon Mike Carroll. A dire il vero tra le quattro cause che ho individuato, e che si intersecano, non credo che questa sia fondamentale. O almeno questa è la mia impressione, perché dopo tanti mesi non era cambiato praticamente nulla, mentre molto è cambiato con nuovo driver e col punto di cui dirò di qui a poco. O forse il cambiamento aveva solo bisogno di tempo per diventare realtà. E in ogni caso il fitness dovrebbe rientrare di diritto tra le buone pratiche di un buon golfista.

Infine…

4. Mezz’ora di lezione con un nuovo maestro. Hai letto bene: mezz’ora. Ed era la prima (e per ora unica) mezz’ora fatta con lui. È stato bravissimo, dicendomi poche cose ma di sostanza. Forse io ci ho messo del mio; forse sono venuti a maturazione concetti per anni pensati e di cui ho scritto nel mio privatissimo diario di bordo: il fatto è comunque che è avvenuto in me uno scatto paragonabile a quello che nella linguistica si chiama déclic, ovvero quel momento in cui la persona inizia a vivere veramente una lingua straniera, a sentirla come sua. Ecco, il driver è stato spesso una langue inconnue per me, mentre ora comincio a sentirlo mio. A scanso di equivoci preciso che non credo ai quick fix, né li desidero (figurati!), ed ero – e sono – infatti pronto ad un ciclo di lezioni; ma le sue indicazioni sono state importantissime, e hanno portato risultati in cui non speravo, una sorta di low hanging fruit.

Poi, ovviamente, si sa che se sposti qualcosa nel movimento ne risentirai probabilmente da un’altra parte. Ora infatti tendo ad agganciare gli ibridi, e questa sarà la prossima sfida. Però il fatto rimane: nel mio cinquantacinquesimo anno di età, all’inizio del mio diciannovesimo anno di golf mi sono allungato col driver.

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Gen 24

Fonte: https://www.sanremonews.it/mobile/leggi-notizia/argomenti/dallalbum-di-alfredo/articolo/bozza.html


Il Trofeo Sanremo è da sempre, per me, di tutte le possibili la gara più bella. Questo mio diario pubblico è pieno di racconti e note relativi a questo evento. E quest’anno, finalmente, dopo un numero quasi eterno di anni in cui per ragioni di classifica non mi è stato possibile partecipare, complice il Covid sono finalmente riuscito a tornare in quello che, per me, è una sorta di tempio del golf italiano. Mi si dirà, ed è certamente vero, che per i criteri di oggi è un campo superato; ma l’atmosfera quella no, quella non è superabile.

Il mio gioco è stato zoppicante, ma non importa: mi sono goduto comunque un’infinità di piccoli particolari che rendono il luogo di grande significato.

Salutare persone che non vedevo da anni, ed essere da loro riconosciuto.

Fonte: https://www.facebook.com/Funivia.Sanremo.Mnte.Bignone


Il garrito dei gabbiani di prima mattina, sopra il putting green. (Il putting green stesso è già magico.)

L’atmosfera rarefatta e silenziosa propria di queste gare.

Ricordare Marco Mascardi, e i suoi racconti elargiti in pranzi memorabili.

Aldo Casera, naturalmente.

Essere ancora qui dopo tanti anni. Ecco, con i miei capelli grigi e il corpo che invecchia questo è stato notevole.

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Nov 15

Nota di avvertenza per il lettore: la traduzione di questo volume è a mia cura, e Yuri Garrett, il deus ex machina di Caissa Italia, mi ha anche accollato l’onore di scriverne la Prefazione. Potrebbe intendersi dunque che in questo caso me la canto e me la suono; cionondimeno qui intendo unicamente parlare delle qualità del libro di per sé.

Paul Runyan aveva un problema. Basso di statura (un metro e settanta), era nella parte inferiore delle distanze rispetto ai colleghi; ma aveva un gioco corto micidiale, demolente per gli avversari. (Del resto il suo soprannome Little Poison, letteralmente “piccolo veleno”, dice già moltissimo.) Questo anche perché fin da ragazzo vi aveva lavorato in maniera instancabile, dal momento che aveva capito molto presto che se voleva avere qualche successo nel golf sarebbe stata quella l’unica maniera per compensare la mancanza di lunghezza.

E proprio i segreti del gioco corto sono l’oggetto del libro. Little Poison propone la sua tecnica per il putt, il chip, gli approcci e i colpi dal bunker; ci spiega il perché delle cose e ci guida alla risoluzione dei problemi (che tutti abbiamo) relativi al gioco corto.

E tuttavia c’è in questo volume molto di più: perché Runyan è sì un ragionatore brillante, ma si rende conto in maniera lucida che la logica non è sufficiente. Dal momento che il golf è tanto scienza quanto arte, sa bene che noi possiamo misurare fino alla nausea, però senza la parte artistica – che è poi la magia assoluta dello sport più bello del mondo – non andremmo molto lontani. Runyan ci guida anche in questo, accompagnandoci così verso un gioco completo e dunque più godibile.

Questo libro è l’ideale completamento delle inarrivabili Cinque lezioni di Ben Hogan: perché Mr Hogan ci ha spiegato tutto dello swing pieno, tanto che ancora oggi, a quasi settant’anni dalla pubblicazione, quel libro viene citato da maestri illustri ai quattro cantoni del globo; e Paul Runyan ci dice tutto, ma proprio tutto, quello che vorremmo sapere di quella parte del gioco che troppo spesso viene trascurata, ovvero il gioco dai sessanta metri in giù. Che è quella parte di gioco di fondamentale importanza per la stragrande maggioranza dei golfisti, ovvero per tutti coloro che non sono all’inizio né hanno un handicap a una cifra bassa (perché in entrambi questi casi il gioco lungo ha certamente più peso).

I due libri, poi, sono legati a filo doppio dalle illustrazioni di Anthony Ravielli, maestro nel tradurre in immagini le parole.

In poche parole: il lettore ricaverà da queste lezioni innumerevoli spunti pratici per il suo gioco corto. Questo è un libro che non ha tempo, non ha scadenza e non invecchia: perché cambiano i sistemi, il gioco evolve e muta anche la maniera in cui il golf viene insegnato e quindi giocato, ma i principi rimangono saldi e immutabili come una roccia dolomitica.

Nov 02

È uscito il numero 8 di “Golf Italia”. Contiene le mie recensioni:

Steve Scott con Tripp Bowden, Hey, Tiger—You Need to Move Your Mark Back. 9 Simple Words that Changed the Game of Golf Forever (la storia di un marchino);
Ian Renshaw, Peter Arnott, Graeme McDowall, A Constraints-Led Approach to Golf Coaching (spunti per maestri).

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Ott 25


Dopo tanti anni mi sono deciso a rifare il fitting e a svecchiare la mia attrezzatura. (È un po’ come questo blog: a volte vado a riprendere vecchi post ma ci trovo la polvere sopra e sento che devo fare qualcosa.)

Gli aiutanti magici sono stati due: Stefano e Armando. In un pomeriggio di qualche settimana fa, dopo una gara che avevamo fatto assieme e dove io avevo fatto qualche sciocchezza di troppo, di loro iniziativa e con santa pazienza hanno analizzato il mio gioco, i motivi per cui non funzionava e così via. Io, novello Pinocchio, ascoltavo quel gatto e quella volpe e capivo che esprimevano concetti corretti: al di là dei trecento difetti del mio swing, su cui posso intervenire sempre molto lentamente, l’idea era che l’attrezzatura non fosse più adeguata al Gianni di oggi.

Sì, perché dentro di me mi sono sempre dato arie da mizunista, con quegli MP – prima 57, poi 58 e infine 54 – bellissimi ma troppo, decisamente troppo difficili. E il driver, poi! Insomma: l’indiano, certo, ma a volte la colpa è della freccia.

Con Stefano siamo andati in campo pratica a provare un suo driver, e percepivo nette le differenze. La settimana dopo, in solitaria, ho fatto questa prova: tiravo in maniera alternata una palla col mio vecchio driver, una col suo. E dopo la quarta o la quinta avevo già capito: capito che aveva – avevano – ragione, che dovevo assolutamente fare qualcosa. (La stavo già facendo, in realtà.)

Nei giorni successivi mi consulto sia con uno dei miei esperti di golf preferiti sia col mio omonimo alla Marghe, colui che in tema di golf la sa mooolto lunga, esponendo loro i miei dubbi; ed entrambi mi propongono delle idee. Faccio un po’ di ricerca di mercato, abbozzo varie soluzioni e alla fine decido: tramite Lorenzo Guanti arrivo al fitter Corrado De Stefani.

Con lui mi trovo subito molto bene: è preparatissimo, cordiale, amichevole e professionale. Non si risparmia, fa per me più di quanto sarebbe tenuto a fare, e alla fine il responso è questo: occorre cambiare il driver (e quello di Stefano è perfetto, non c’è che dire) e occorre cambiare i ferri (scelgo questi). Il driver è già qui, per i ferri ci vorrà un po’ di tempo.

Lezioni apprese, almeno quattro.

  1. Far passare sette anni tra un fitting e l’altro è un po’ troppo.

In sette anni il corpo cambia, lo swing cambia, alcune cose le impari e altre le dimentichi. Avere l’attrezzatura adatta è oltremodo importante. Stefano dice che il golf è troppo bello per essere giocato con una pallaccia; ma la stessa cosa vale per un bastone non adatto a te.

  1. Posso darmi arie giocando stiff, ma se poi la palla curva a destra sarà il caso di trovare un rimedio (che c’è).

Per dire, il nuovo set non avrà nemmeno il ferro 5, però i numeri dicono che va bene così. (Qui c’entra anche il marketing, perché quello che nel mio prossimo set si chiama pitch ha un loft di 43°, e dunque non basta più un gap wedge a colmare il divario tra il pitch e il sand ma ne occorrono addirittura due. Mia considerazione generale: forse i nomi dei bastoni dovranno cambiare, negli anni a venire.)

  1. Va bene l’attrezzatura “perfetta”, ma non bisogna dimenticare la tecnica.

Perché anche il bastone perfetto, ammesso che esista, farà una sorta di maquillage ma non potrà eliminare i difetti del tuo swing. E quindi sì, dà soddisfazione guardare i numeri dei bastoni nuovi, la palla che vola più lunga e più dritta, ma non posso dimenticare che in campo ci sarà comunque il golfista di prima.

  1. Avere amici pazienti e informati è importante.

Perché a me pare di avere letto ogni libro di golf esistente sulla terra, ma poi a volte mi ritrovo a fare i conti con le troppe cose che non so; e anche se queste mie manchevolezze (soprattutto quell’arrivare chilometri dall’esterno, che nel driver e nei legni sono veleno allo stato puro) potrebbero infastidirmi, in realtà mi segnalano che c’è ancora molto mare da navigare davanti a me.

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Set 06

Irons are control clubs. How far you hit a particular iron is irrelevant.
Philip Moore, The Mad Science of Golf

La versione breve di questo post è questa: i ferri sono strumenti di precisione, dove conta molto di più sapere la distanza che ciascun ferro ci permette di fare che non aggiungere qualche metro ai singoli ferri. Mooolto di più.

Per scendere nel dettaglio, dirò che sabato ne ho avuta la prova reale; ma per spiegarmi devo partire da lontano, ovvero da una decina di anni fa, quando il mio handicap e il mio gioco si erano sufficientemente stabilizzati e io avevo in testa dei numeri ben precisi per la distanza fatta per singolo ferro: 110 metri per il pitch, e da lì a salire di 10 metri per ferro, quindi fino ai 160 per il ferro 5. Qualche anno dopo, ovvero qualche anno fa, mi sono probabilmente allungato ancora un pochino e dunque partivo da 115. Per me questi erano numeri reali, gli stessi che ho usato in Campo pratica per illustrare come misurare la distanza effettiva con i ferri (e i legni).

Però… però la realtà, sempre molto prosaica e sempre poco disposta a negoziare, mi è venuta incontro. Nelle ultime settimane mi ero reso conto che quelle distanze non erano reali – rimanevo troppo spesso corto nei colpi al green –, e che ragionare sulla base di quelle mi avrebbe portato (mi portava, a dirla tutta) più danno che altro.

Allora venerdì scorso, il giorno prima della gara, ho fatto qualche buca per conto mio, con lo scopo specifico di misurare le distanze effettive che i miei ferri facevano. Mi stavo creando nella testa dei numeri nuovi, più bassi rispetto a quelli detti prima. Alla buca 14 mi sono messo a 110 metri esatti dalla bandiera, ho tirato un ottimo pitch che ha colpito l’asta ed è entrato. Al di là della sensazione magnifica della palla che incoccia il metallo, quello è stato il punto di svolta, perché mettendo insieme tutto quello che sapevo ho “deciso” che le mie distanze attuali con i ferri sono di 108 metri con il pitch e poi salgono di 9 metri per ferro (117 ferro 9, 126 ferro 8 fino ai 153 del ferro 5; a loft più bassi anche la dispersione cresce, ma per ora ho scelto di ignorare questo fatto per non complicarmi troppo la vita). Di fatto si tratta di parecchi metri in meno rispetto ai numeri che avevo in testa prima, ma sono distanze reali.

A corollario, sabato prima della gara in campo pratica prendevo un ferro e prima di tirarlo ripetevo a voce alta (fatto del tutto insolito per me) i metri che avrei fatto. Sono convinto di aver trovato una risposta efficace al mio gioco attuale. (Forse come conseguenza, il mio handicap attuale è il più basso di sempre, 2.0).

Ora, se penso che quando sono a 135 metri il bastone ideale è un ferro 7, mentre prima lo ritenevo un 8, certo il mio ego ne esce un pochino bastonato; ma la sicurezza che deriva dal fatto di prendere più green più che compensa quel danno.

Quindi il suggerimento è quello di predisporre una sessione in campo (non in campo pratica, perché le palline devono essere il più possibile simili a quelle che usiamo di solito; ovviamente con tutte le cautele del caso, sia per non creare intoppi nel gioco e badando a riparare tutti i pitch mark provocati) per misurare le distanze effettive che facciamo con i ferri. Il nostro gioco ringrazierà.

Ago 16

È uscito il numero 7 di “Golf Italia”. Contiene le mie recensioni:

Bob Rotella con Bob Cullen, Il putt vincente è questione di testa (la mente guida il corpo nel tirare i putt);
Michael Calvin – Thomas Bjørn, Mind Game. The Secrets of Golf’s Winners (che cosa occorre per primeggiare a livelli altissimi?).

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Giu 23

Roberto Guarnieri mi segnala questo articolo. È una lettura lunga, ma per il golfista seriamente intenzionato a migliorare il proprio gioco – che presumo essere il lettore “ideale” di questo blog – ne vale decisamente la pena, perché offre molti spunti. Ne consiglio dunque caldamente la lettura. (Chi non dovesse conoscere a fondo l’inglese potrebbe avvalersi di strumenti come DeepL, che restituiscono un testo ovviamente non perfetto ma comprensibile.)

Espongo il mio pensiero a seguire, sperando che sia fruttifero per chi legge e – perché no? – ne nasca una discussione.

Innanzitutto, perché è così importante il livello zero di handicap? Perché qualunque golfista che diventi un po’ bravino vorrebbe arrivare a zero? Che cos’è, esattamente, questo zero? Per come la vedo io, è la rosa del Piccolo principe, è la balena bianca di Moby Dick, è l’obiettivo ultimo, il sogno di qualunque golfista, quel sogno quasi impossibile – e in quel quasi c’è tutto il suo fascino – di giocare ad un livello che in qualche maniera sia paragonabile a quello di un professionista. Che poi il fatto che il gioco di un handicap zero non sia paragonabile a quello di un professionista è un altro paio di maniche, ed è un argomento che mi propongo di sviluppare in un successivo post (farò ricerche approfondite, ma grossomodo un handicap zero degli anni Settanta, allorché il concetto di scratch fu sviluppato, corrisponde ad un +3 di oggi: che è il livello minimo di gioco per poter aspirare ad una carriera da giocatore), ma comunque potremmo considerarlo una sorta di “dilettante professionista”.

Leggendo l’articolo non è stato possibile per me evitare il paragone con me stesso, la mia strategia delle 10mila ore di pratica concentrata e tutto il resto ampiamente documentata in questi dodici anni di blog, negli articoli, nel libro eccetera; e anche se ora sono molto meno talebano nel mio praticare e giocare, di fatto non ho mai avuto un handicap così basso. (Ci sono vari motivi: il campo, il maggior numero di giri, il fatto che ora mi importi di meno e così via.) E poi l’altro paragone forte è con The Dan Plan, di cui ho dato ampiamente conto qui negli anni passati, anche se quello è un progetto differente e comunque defunto da tempo (ma c’è la possibilità che diventi film).

In ogni caso Mike Carroll (di cui si veda qui la mia recensione al suo ebook Fit For Golf, anch’esso strumento molto utile), l’autore dell’articolo citato, si era dato un anno fa l’obiettivo di arrivare a zero partendo da un handicap di 5,1. Che è, di per sé, un obiettivo molto ambizioso.

Nei primi mesi del progetto la stragrande maggioranza del tempo è stata dedicata alla pratica di driver e wedge (l’importanza del putt è venuta fuori dopo): questo perché lui è decisamente lungo col driver, e nella maggior parte dei par 4 è in grado di raggiungere il green con un wedge; copre circa 125 metri con il pitching wedge (anche se sul fatto che il pitch sia un wedge potremmo discutere: a mio modo di vedere un wedge ha un loft almeno pari a 50°, e il pitch – che è intorno ai 46° – è un ferro a tutti gli effetti. Ma questo è un parere personale). Ovviamente è stato inondato di consigli sulla pratica di putt e gioco corto, anche se lui dice che il punto non è quello, quanto piuttosto fare meno colpi orribili e prendere più green in regulation (e non si può non essere d’accordo).

Che cosa penso io (thank you for asking): una volta che il gioco è ragionevolmente a posto, ovvero diciamo con un handicap intorno al 15-25, allora la maniera più efficace e veloce per scendere è proprio il gioco corto, unito al putt. Però, una volta che l’handicap arriva ad un livello basso (per me è stato 4), allora gioco corto e putt non bastano più, ovvero non ti potranno dare risultati di grande rilievo, e diventa fondamentale il driver. In seguito, quando (e se) riesci a superare quella barriera, allora gioco corto e putt ritornano in primo piano per andare oltre. Sono sicuro che ci sono fior di dati a confermare quanto dico in maniera sperimentale, anche se non ne ho contezza.

Sempre all’interno della pratica, Mike dice di aver speso molto tempo in due aree specifiche:

  • a provare colpi al rallentatore;
  • a ricercare la sensazione.

Il primo concetto è decisamente hoganiano; e quanto al secondo, questo blog è pieno di descrizioni di sensazioni. Nel golf tout se tient. Ma soprattutto ritengo importante sottolineare il fatto che la pratica efficace non è colpire un numero infinito di palline, ma consiste nel colpirne poche e ragionare molto su di esse. Questo è.

Inoltre, dice che in quel periodo il suo chipping è migliorato tantissimo; ma non per via della pratica, quanto per averlo praticato molto nel gioco regolare e averci riflettuto a lungo. (Parentesi: negli Stati Uniti il chip, che io personalmente adoro, è fondamentale, mentre da noi pare non abbia quasi cittadinanza.)

Molto ha imparato da un giro in cui, stando a -5 dopo 13 buche, ha finito in par. Nel leggere il racconto delle ultime buche di quel giro non puoi non soffrire con lui, perché non puoi non immedesimarti in giri simili che ti sono capitati; ma il punto importante è la lezione imparata, che è quella – vecchia, ritrita e sempre validissima – di vedere il giro come una serie di colpi da affrontare uno per volta. Cosa che appare semplice ma richiede grande applicazione mentale: non pensare al colpo precedente, non pensare al colpo successivo, non pensare allo score e così via ma pensare solamente al colpo da affrontare ora, fino a che le buche non saranno finite. Grande lezione.

A un certo punto, good for him, tutti i pezzi sono andati a posto e finire un giro sotto par è diventata la sua nuova comfort zone. Il che non vuol dire che ora giri sempre sotto par: vuol dire semplicemente che non è più spaventato, che è consapevole del fatto che è una cosa normale – tant’è vero che accade.

Una sua nota finale: “I don’t have any kids”. Ecco, anche questo va tenuto a mente…
Ma in ogni caso bravo lui, che ha raggiunto la sua balena bianca.
Cosa ne pensi?

Giu 22

È uscito il sesto numero di “Golf Italia”. Contiene le mie recensioni:

Natasha Solomons, Un perfetto gentiluomo (che cosa manca ad un ebreo tedesco immigrato in Gran Bretagna per essere considerato veramente un gentiluomo?);
Tom Coyne, A Course Called America. Fifty States, Five Thousand Fairways, and the Search for the Great American Golf Course (cercare l’essenza del golf nei campi d’America).

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Giu 14

Ho fatto una bella gara, in questi giorni. Una tipica gara di circolo, nulla di importante, ma un 73 che mi ha dato molte soddisfazioni.
E, al di là di quello che posso avere fatto o non fatto io, che può interessare sì e no a tre persone, ho ripensato all’esperienza di sabato e cercato di trarne delle indicazioni di valenza più o meno generale.

Innanzitutto, il mio handicap è sceso al livello più basso di sempre (2,4), il che è una soddisfazione autotelica che non ha bisogno di ulteriori rinforzi o commenti. Come credo sia per quasi qualunque golfista, quel numerino è pari alla stella da sceriffo che da piccoli ci attaccavamo alla camicia a quadrettoni, o – nella versione femminile – qualcosa come il cerchietto da principessa che conteneva mondi interi.

In secondo luogo, questo handicap è venuto a fronte di un “impegno” in campo pratica molto ridotto rispetto agli anni passati (chiedo scusa, ma per me imparare a giocare a golf è sempre stato assimilabile non dico ad un lavoro, ma comunque ad un’attività con regole precise e scandite), e invece a molto più tempo dedicato – in proporzione – al campo. (Perché alla Margherita ci sono delle regole non scritte, ma non per questo meno efficaci, e rimanere in campo pratica quando i tuoi amici vanno in campo è un’offesa decisamente grave.) Con un’eccezione significativa: quello che non è eliminabile è il tempo dedicato al putt e soprattutto al gioco corto: fatto 100 il tempo dedicato alla pratica, al momento 60 è il tempo dedicato al gioco corto, 30 al putt e lo scarno resto al gioco lungo.

In terzo luogo, sabato ho di sicuro fatto un giro brillante, ma con dei punti di debolezza che sono tipici miei, il più immediatamente evidente essendo la lunghezza col drive. Il mio drive non è certamente lungo, e questo è un limite col quale mi scontro e dove non posso fare molto, ma la sicurezza che ricavo dal legno 3, dagli ibridi e dai ferri è grande, e soprattutto più mi avvicino alla buca e più mi sento in controllo della situazione. Questo per dire che anche chi non è lungo dal tee ha ancora speranza, e come!

In quarto luogo, ora sono molto meno ossessionato di un tempo da numeri e statistiche. Anzi, devo dire che non le tengo nemmeno più: ho amato il tanto tempo che per lunghi anni ho dedicato alle statistiche, ma ora mi piace pensare in termini di risultato (nel golf you are your numbers, si sa), unitamente alla cara, vecchia analisi del giro. Quella sì non mi pare eliminabile: quindi trovo fondamentale rivedere nella mente tutti i colpi, ripensare allo stato d’animo avuto durante la preparazione e l’esecuzione del colpo, col risultato di avere alla fine delle 18 buche un’idea chiara su cosa ha funzionato benissimo e su che cosa invece è da rivedere.

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