Una lingua e io

Mi sono interrogato su che cosa significhi, per me, il mio bilinguismo. (Forse è un pensiero che mi torna spesso, ma non credo in maniera molto conscia.) L’occasione mi è venuta da un commento casuale sulla mia pagina Facebook. Io avevo citato qualche brano di una splendida traduzione del Piccolo principe, e mi si è fatto notare che i piemontesi sono “proprio convinti”, dal momento che abbiamo due diverse traduzioni di quel libro.

Ora, la storia di quella doppia traduzione non è importante qui. Ma il mio bilinguismo è qualcosa che non serve a nessuno se non alla mia identità, a vivere una vita mentale più ricca. Apparentemente, non farebbe nessuna differenza se non parlassi e scrivessi piemontese: questa lingua non serve a nulla, per così dire. Ma il pericolo – parlo per me – è di trovarmi senza lingua materna e non voglio che accada, tutto qui. Il pericolo è per esempio di colui che è emigrato e ha perso la sua lingua senza trovare davvero la lingua del paese che l’ha accolto, e ad un certo punto si è trovato senza identità.

(Prescindo qui da tutte le opportunità che mi provengono dal conoscere altre lingue oltre alla prima e alla seconda, parlo solo delle mie lingue materne.)

Chi sei tu, veramente, senza una lingua tua, quale che sia? Una lingua ti definisce, è il tuo paese, sei tu. Quando penso alle parole che vivranno almeno fino a che vivrò io mi sembra un bel posto, il mondo. E mi sovviene GianRenzo Clivio:

Mia part i l’hai fala, ij mè cit a parlo piemontèis e fin ch’i vivo i l’avrai da parleje piemontèis a quaidun.

Parole, parole, parole. Parole inutili, parole incantevoli. Pavese:

Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro.

Queste due lingue in cui mi sono rimescolato e mi sono conosciuto mi definiscono, qualunque cosa accada; sono una compagnia e una difesa, una consolazione e un mezzo. Le parole.

Commenti

enrica martinengo ha detto:

si è svolto recentemente un congresso di scrittori – o che si credono tali – guidato da una cultrice dell’universo piemontese, certa Candida Rabbia – provi a digitare in research e avrà un immediato riscontro dell’esplosiva vitalità delle piccole patrie, il video della specialista che intona l’inno piemontese durante un convegno è una sprangata notevole – che dirige antologie, seminari e presto canali televisivi in piemontese. perdoni lo scetticismo, ma mi pare che nel 2012 gli interrogativi sull’identità linguistica o culturale siano un po’ anacronistici, forse sarebbe più utile assimilare qualche rudimento di lingua araba. dubito che una full immersion nella tradizione dialettale possa aprire la mente, non so se ha fruito dei concerti o dei vinili della corale la Baita, hanno frenato lo sviluppo cognitivo a molte generazioni, sonetti del tipo la cioca d’la valada a ciama i muntagnin nel migliore dei casi possono convincere chi li ascolta che la terra sia quadrata

giannidavico ha detto:

Cara Enrica, non ti conosco ma non capisco questo discorso. Io ho detto – lo dico sempre – che il mio piemontese vale assolutamente solo per me, non devo convincere nessuno.

Che sia utile l’arabo sono d’accordo, ma la mia madrelingua è un’altra – una pera più una mela farà sempre e comunque una pera più una mela.

Comunque sul fatto che un concerto freni lo sviluppo cognitivo di una generazione intera… permettimi di dubitare.

Forse bisognerebbe semplicemente informarsi un po’ prima di parlare. O forse studiare alte lingue, non lo so. Il mio piemontese è per me il mio paese, come lo è il mio italiano e – ripeto – non ho nessuno da convincere.

enrica martinengo ha detto:

Ho inserito il commento perché Lei compare ogni settimana nel mio profilo Linkedin – sono traduttore e purtroppo anche editor – e immaginavo che le Sue considerazioni fossero meno suscettibili. Sulla natura dell’informazione, mi pare di capire che la rete dimostri l’inesauribile varietà di punti di vista e di conseguenti abbagli, se ci si dovesse informare l’utenza sarebbe davvero rara. Su una pera e una mela, forse è un modo per dire che ciò che ho inserito è per Lei completamente assurdo, bastava dire vade retro, ma si rassereni, e sappia che mi asterrò saggiamente da futuri interventi. Quanto al piemontese, è magma policromo, e se è vero che la comunicazione fa la civiltà, la cultrice e i cori a cui mi riferivo forniscono un esempio davvero increscioso di come la creatività di un dialetto possa essere completamente spolpata. Se poi la lingua diventa motivo di interrogativi, provi a rileggere Canetti…

silvia giancola ha detto:

Io invece apprezzo molto questo post, forse perché sono tristemente monolingue. I miei genitori avevano provenienze regionali diverse (laziale mia madre e molisano mio padre). Mio padre non ha imparato il dialetto dei genitori perché in famiglia parlavano più o meno italiano. Mia madre invece aveva il pieno controllo del dialetto ciociaro (della provincia di Frosinone) con cui parlava correntemente con i miei nonni e con gli altri parenti, ma ovviamente non con mio padre e purtroppo neanche con noi figli. Poi il trasferimento e in Piemonte ha definitivamente cancellato la possibilità di apprendere una seconda lingua naturale. Con mio grande cruccio, perché i dialetti mi piacciono molto, tutti e darei qualsiasi cosa per saperne parlare almeno uno. Con il girovagare e la contaminazione linguistica alla quale nel corso degli anni sono stata esposta (e forse un po’ di orecchio per le lingue che mi accompagna da parecchio) e la grande curiosità per le realtà regionali ho imparato ad ascoltare e decifrare parecchio di molti dialetti. E sicuramente si tratta di un arricchimento, per nulla anacronistico e non solo linguistico, ma culturale nel suo senso più ampio. Fortunato Gianni!

giannidavico ha detto:

Sì, io sono molto fortunato, da questo punto di vista: mi sono trovato una lingua in più senza doverla cercare, ed è come avere un altro paio di occhiali per vedere le stesse cose.

Piemontese o qualunque altra lingua del mondo, per me non fa differenza: per avventura sono nato qui, se fossi nato altrove sarebbe differente e andrebbe bene comunque.

E quel che dici tu, Silvia, è in effetti un fenomeno che si nota spesso ultimamente, l’idea che osservare una lingua regionale senza poterla parlare sia come una mancanza che abbiamo. È un fenomeno certamente in espansione, che contrasta l’estinzione veloce cui vanno incontro lingue come il piemontese e altre.

Non lo so, sono concetti talmente affascinanti che io faccio fatica a capirli, a digerirli. Però essere bilingui sì, questa è secondo me una gran fortuna!

Giorgia ha detto:

Negli anni settanta insegnavano il dialetto nelle scuole elementari, come contraccolpo al rigidismo linguistico dei decenni precedenti nei quali si tentava, per ragioni ormai incomprensibili, di cancellare tutti i dialetti. Non so se oggi è ancora così. Io sarei d’accordo, ogni bambino italiano sarebbe più ricco, avrebbe maggiori possibilità di comunicare con le proprie radici, conoscere i nomi delle piante e degli uccellini locali. (Ho osservato che spesso gli italiani sono in imbarazzo per la mancanza di queste conoscenze, o forse perchè conoscono solo il nome in dialetto e credono di doversene vergognare.)
Forse anche la tua lettrice critica fa parte di coloro ai quali è stato insegnato che il dialetto è qualcosa di obsoleto e retrogrado. Non so dove mettiamo allora i poeti o i cantautori, forse sono obsoleti anche loro.
Io, da traduttrice, vorrei conoscere tutti i dialetti d’Italia. Le vostre lingue comprendono la vostra storia ma anche la vostra essenza intima e sottile che si perde nella traduzione. Secondo me il dialetto è la lingua del cuore. Quando mio marito mi ha detto “ti voglio bene” in dialetto ho capito che la pensava sul serio.

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