Ogni tanto, da questo studio di 13 mq che è il mio pensatoio attuale, rifletto sulle differenze evidenti tra il mio lavoro di ieri e quello di oggi; e la cravatta è una sorta di spartiacque. Ripenso a tutto il tempo in cui la cravatta è stata tutti i giorni la mia divisa: così era, e non poteva essere diversamente, perché io ero un giovane uomo “in carriera”, e quello era un segno dinnanzi a me e dinnanzi al mondo di come io vedevo me stesso, di come volevo essere visto e di come venivo percepito. Ricordo con quanta cura facevo e disfacevo il nodo, l’importanza degli abbinamenti, le paranoie davanti agli specchi (vanitoso già allora!) se il nodo non era assolutamente perfetto.
E ora che sono un ragazzo (fortunato, peraltro), cerco di ricordarmi l’ultima volta in cui ne ho indossata una. E non mi riesce.
Probabilmente ad un certo punto il nodo è diventato un cappio, e forse non me ne sono neanche accorto. Prigione dorata? Ma insomma da un certo momento in poi ho avvertito l’esigenza di uscire da quel me stesso che non sentivo più mio. Ora viaggio con bagaglio molto leggero (e devo ancora semplificare molto). Mi viene in mente un passo di Shel Silvertsein (L’albero):
“Non ho bisogno di molto ora” disse il ragazzo, “mi basta un posto tranquillo per sedermi a riposare. Sono molto stanco”.
“Bene” disse l’albero, cercando di raddrizzarsi più che poteva, “un vecchio ceppo è perfetto per sedersi a riposare. Vieni ragazzo, siediti. Siediti e riposati”.
Mi sovviene anche Montale:
Il mio [viaggio] dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Viaggio con bagaglio molto leggero. Ogni tanto mi siedo e mi riposo. E la cravatta è un lieto ricordo.
Commenti
Gianni, uno studio diversi anni fa negli Stati Uniti spiegava la nervosità dei candidati per un posto di lavoro/borsa di studio ecc. suggerendo che la cravatta troppo stretta riduceva il flusso di ossigeno al cervello. Evidentemente i ricercatori abitualmente indossavano 2 o 3 cravatte ben strette.
e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
Si chiama maturità, o vecchiaia, oltre una certa soglia. È quell’età nella quale si fanno bilanci, ci si accorge magari di aver inseguito obiettivi fasulli e si cercano pretesti per riproporsi. Come ti ho detto altrove, la saggezza sta nel riuscire ad accettarla senza opporvisi, adeguandosi e adattandovisi. Io che saggio non sono e non pretendo di aver niente da insegnare, ancorché insegni, rilevo come sia triste vedere quanti, raggiunti quell’età, smanino (smaniamo) dall’ansia di profondere consigli e insegnamenti, spesso più adatti ai coetanei che ai giovani cui sarebbero rivolti.
Curioso come la cravatta, da simbolo di protesta sia divenuta simbolo di conformismo…
Mmmm… Io non pretendo di insegnare alcunché a chicchessia, perché penso che al massimo si possa imparare – ma insegnare non sia possibile. Allora descrivo quel che mi succede e chi vuole può farne uso, se crede; ma se non succede nulla io non mi offendo.
La cravatta, nel mio vedere, è una semplice metafora del fatto che viaggio con troppo bagaglio superfluo, oggetti e pensieri di cui non ho davvero bisogno.
Obiettivi fasulli? Ho cercato di capire, ho detto la mia; tutto qui. Il mio mestiere reale sarebbe stato l’editor, ma sono stato troppo timoroso e così non è andata. Pazienza, ho fatto altre cose, ho messo la cravatta e poi l’ho tolta. Non lo considero un fallimento, ma un semplice percorso.