Ecco un libro che fornisce degli spunti di riflessione interessanti sul successo e sull’eccellenza.
Si chiede Malcolm Gladwell: in che cosa consiste esattamente il successo? C’è il talento, ovvio; ma il mito del self made man è solo una mezza verità. C’è infatti dell’altro:
Le spiegazioni del successo in termini prettamente individuali non reggono. Le persone non vengono dal nulla. Dobbiamo sempre qualcosa ai nostri genitori e a chi ci ha favorito. […] La cultura a cui apparteniamo e l’eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati plasmano i risultati che sapremo conseguire come neppure immaginiamo. In poche parole, non basta chiedersi come sono fatte le persone di successo. Per chiarire quale sia la logica per cui ottengono il successo che sfugge ad altri, dobbiamo chiederci da dove vengono (p. 16).
Gli esempi si sprecano. Per citarne uno solo: Bill Gates possedeva talento e ambizione sconfinati, ma se nel 1968 – quando lui era in seconda media – l’associazione delle mamme non avesse investito tremila dollari nel terminale di un computer (in un periodo in cui molte università non ne disponevano nemmeno), lui non avrebbe potuto cominciare a programmare in maniera intensiva, né avrebbe potuto proseguire poi, quando il caso gli offrì altre opportunità (nel 1971 Gates e il suo gruppo accumularono 1575 ore di programmazione in soli sette mesi).
Questo punto allarga il discorso ad un concetto che trovo affascinante. Per dirla con le parole del neurologo Daniel Levitin, citato nel libro:
Ci vogliono diecimila ore di esercizio per raggiungere il livello di padronanza associato all’essere un esperto di caratura mondiale, in qualsiasi campo (pp. 32-33).
Diecimila ore, oltre che essere una sorta di numero magico, sono un tempo enorme:
È assolutamente impossibile diventare adulti ed essersi esercitati per tutto quel tempo contando solo sulle proprie forze. I tuoi genitori devono averti incoraggiato e mantenuto. Non puoi essere povero, perché se devi tenerti un lavoro part time per contribuire a far quadrare il bilancio familiare, durante il giorno non ti rimarrà il tempo per esercitarti a sufficienza (p. 34).
Questa non è ovviamente una giustificazione per chi non arriva ai massimi livelli in un determinato campo, ma solo una spiegazione del fatto che per arrivarci devono allinearsi un numero di fattori non indifferenti. È, insomma, il classico Cigno nero: al punto che trovo assolutamente strano il fatto che il libro di Taleb non si citato nemmeno una volta in questo volume.
Altro argomento rilevante: l’intelligenza analitica. Gladwell dimostra come, superata una certa soglia di QI (intorno a 120), l’aggiunta di altri punti non porta ad alcun vantaggio misurabile nel mondo reale. E qui vedo un chiaro parallelo possibile con la ricchezza: oltre un dato livello, il denaro non porta più felicità e benessere (inteso come stato positivo della persona). Mentre l’intelligenza pratica, quella sì, può fare la differenza – ma qui il parallelo è decisamente da scoprire.
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[…] parole giuste? Da una parte rimando a Fuoriclasse, il libro di Malcolm Gladwell di cui ho parlato qui; e dall’altro lo si può dire con le parole di Bob […]
[…] letture nuove (Talent Is Overrated innanzitutto, ma altre seguiranno in questi mesi) e anche riletture. Il che, di conseguenza, porta rinnovato vigore al mio progetto, per quanto ruspante e casalingo […]