Non è vero che non c’è lavoro.
Il problema principale rimane quello di aiutare le imprese a sviluppare e rendere disponibili quei posti di lavoro latenti, che per un motivo o per l’altro rimangono lì, come frutti ormai maturi su un albero, e che se non colti per tempo finiscono irrimediabilmente per andare sprecati.
Non dispongo di una formazione specifica in economia, né mi intendo in modo particolare di mercato del lavoro. Mi limito a filtrare quello che vedo e sento attraverso la mia personale sensibilità e quella briciola di esperienza che mi viene da otto anni di attività nel settore dei servizi linguistici in qualità di traduttore di testi tecnici.
E mi rendo conto di certi asfissianti colli di bottiglia, che impediscono alle piccole attività di diventare un po’ meno piccole e – magari – consentire a qualcuna di queste di assumere dimensioni di medio calibro o – addirittura – diventare grande impresa.
Dal mio punto di vista, un sistema economico sano e fertile dovrebbe consentire anche a chi non ha particolari capitali a disposizione di far nascere e far crescere un’attività imprenditoriale.
Forse altrove questo discorso è possibile, oltre che incentivato. Sempre più spesso, invece, ho l’impressione che da noi si faccia di tutto per evitare che il piccolo diventi grande; oppure che non si faccia nulla, ottenendo gli stessi effetti.
Un esempio è l’enorme disparità delle aliquote contributive, del cui innalzamento si parla in queste settimane, tra chi opera come lavoratore autonomo (33% di contributi) e chi invece riesce ad operare come società (tra il 20% e il 24%). Ripeto, non ho particolare esperienza di come funzionino questi aspetti economici in altri paesi, ma l’impressione che ho del sistema italiano è che si faccia di tutto per non promuovere la formazione e la crescita delle micro imprese o del lavoro autonomo, affinché queste quote di mercato si liberino a vantaggio degli attori economici maggiori. Non sempre, però, il salto di categoria è possibile, e anche chi ci prova non sempre riesce a svilupparsi come vorrebbe e potrebbe, ma deve accontentarsi della sopravvivenza della propria attività.
Si tratta forse di un tentativo di creare forzatamente un modello composto da un numero ridotto di grandi imprese ed eliminare il modello all’italiana caratterizzato da un enorme numero di piccole attività a conduzione singola o familiare?
A questo si aggiunge il problema del costo, di questo lavoro rimasto inutilizzato. Per esperienza diretta, sono a conoscenza di almeno tre piccole attività commerciali e una artigianale i cui titolari avrebbero bisogno di un aiutante, talvolta part-time, in altri casi a tempo pieno.
In due casi si è scelto di cercare stagisti, per i costi inferiori. Negli altri, semplicemente, non si cerca nessuno, per il fatto che, fra costi del dipendente, inasprimento dei parametri degli studi di settore eccetera, il titolare non “ci starebbe dentro”.
Se il lavoro costasse meno alle imprese, avremmo quattro occupati in più, con contratti e tutele di buon livello. Invece, così abbiamo (forse) due stagisti che si uniranno al calderone degli sfruttati e alimenteranno i discorsi sull’imprenditore profittatore, e due posti di lavoro inutilizzati con due disoccupati in più.
Discorsi che ormai non servono più a nulla, vuoti, come le parolacce ripetute in sketch e gag da cabaret, il cui canovaccio è ormai trito e ritrito. Non fanno più ridere, non suscitano emozioni. Solo abitudine, prevedibilità, rassegnazione.
Un altro modo per tarpare le ali alla voglia di crescere. Per quel che mi riguarda, serve un’inversione di rotta. Il prima possibile.
Commenti
Oggi ho scoperto che esiste anche un sindacato dei traduttori editoriali. Se ne sentiva proprio la mancanza. Giorni fa, su Facebook, alcuni dinosauri, abbacinati dal miraggio del sempre invocato ordine professionale, hanno celebrato l’avvio della discussione parlamentare su un progetto di legge di riconoscimento delle professioni non riconosciute destinato a finire nel nulla, se non altro a causa dell’avvicinarsi della fine (anticipata) della legislatura.
La tua impressione non è peregrina. Alle micro imprese e al lavoro autonomo, in effetti, si dovrebbe porre un freno, se non altro perché sono sacche enormi di evasione. Peccato ci rientrino anche i traduttori, ma fa parte del gioco.
Se invece di dividersi, come testimoniano gli esempi appena citati, i traduttori si compattassero, formassero imprese e si riunissero in associazioni realmente rappresentative, non avrebbero da temere. Così sono preda di golem che se li mangiano in un sol boccone, ma ne trovi sempre qualcuno che in pubblico piagnucola, con i colleghi fa la voce grossa e nel privato abbozza e accetta l’inaccettabile.
L’inversione di rotta, deve partire da noi. Non per niente, siamo in mano a un governo non eletto, di “tecnici”: perché fin qui siamo stati incapaci di agire. La storia è la stessa, in grande come in piccolo.
Luigi, grazie mille per il tuo commento alle mie riflessioni.
Il discorso di porre un freno al lavoro autonomo e alle micro imprese mi trova solo parzialmente d’accordo. Riconosco che avere un sistema economico formato da attori di dimensioni maggiori possa dare al sistema stesso una maggiore stabilità, ma è proprio la difficoltà a operare il salto di categoria che mi lascia basito. Oltre ai motivi già esposti (costo del lavoro, burocrazia, difficoltà di finanziamento e auto-finanziamento, se durante la fase di start-up il fisco drena una tale quantità di risorse), trovo molto limitante anche l’aspetto dei tempi della giustizia. In molti casi, ho sentito lamentare da chi avrebbe avuto intenzione di fondare una società la paura di trovarsi un domani a litigare con l’eventuale socio, e, considerando i tempi biblici della giustizia civile nel nostro paese, esprimere l’intenzione a non proseguire sul percorso, con la classica scusa del “chi me lo fa fare”. Qui rientra sicuramente anche un eccessivo timore a mettersi in gioco, ma tutto fa.
L’aspetto dell’evasione fiscale, che si anniderebbe in un panorama economico composto da attività di dimensioni eccessivamente piccole, mi porta ad altre considerazioni e questioni: abbiamo leggi e ordinamenti in abbondanza e ridondanza che prevedono pene per chi evade le tasse. Che si sia piccoli o grandi, non sarebbe compito dello Stato, oltre che della società civile, assicurarsi che tutti le paghino? Visto che non siamo capaci di controllare un fenomeno, preferiamo annientare coloro che lo causano, anziché tentare di ricondurli sulla retta via a vantaggio di tutti? Le grandi aziende non evadono e non commettono frodi fiscali? Altroché, e quando lo fanno le somme sono enormi.
Scendendo al livello del settore delle traduzioni dei traduttori freelance, trovo opportuna l’idea di unirsi in associazioni di categoria ben organizzate e influenti, ma soprattutto l’idea che, per crescere, sarebbe il caso di associarsi più spesso in studi di traduzione con altri colleghi, magari che lavorino in combinazioni linguistiche diverse dalle proprie, un po’ per evitare accavallamenti e rischi di concorrenza interna (con ulteriori problemi di fiducia reciproca, visto gli italiani non fidano l’uno dall’altro). Qualche collega l’ha fatto, e sarebbe bello leggerne le impressioni e le esperienze su qualche blog (anche questo; Gianni, c’è nessuno fra i tuoi venticinque lettori?) o forum, al di là dei soliti eterni piagnistei.
Grazie ancora per aver prestato attenzione alle mie sconsiderate considerazioni.
Fabio
Scrive Fabio: “Trovo opportuna […] l’idea che, per crescere, sarebbe il caso di associarsi più spesso in studi di traduzione con altri colleghi, magari che lavorino in combinazioni linguistiche diverse dalle proprie […] Qualche collega l’ha fatto, e sarebbe bello leggerne le impressioni e le esperienze su qualche blog (anche questo; Gianni, c’è nessuno fra i tuoi venticinque lettori?)”.
Questo è uno spazio aperto alla discussione: chi vuol raccontare la propria esperienza in tema di studio associato si faccia avanti!