La formazione è un tema fondamentale per un professionista. Ovviamente presta il fianco a critiche, perché come si dice “chi fa sa e non chi non sa insegna”. C’è del vero in questo, è ovvio. (A volte si passa il segno e si rischia di mancare completamente il punto, come in questo caso, ma insomma le cose possono migliorare.)
Ho avuto al riguardo una conversazione con Marco Cevoli, fondatore di Qabiria. Abbiamo iniziato da una sua considerazione: secondo Marco non sono molti coloro che si dedicano al settore. E questo, a suo parere, per almeno quattro motivi.
Il primo è la scarsa propensione all’investimento in formazione da parte dei freelance, che preferiscono imparare da soli, senza comprendere che il costo delle ore spese in autoapprendimento spesso (per non dire sempre) supera di molto il costo di un corso. Lo stesso vale per le micro e piccole imprese.
È difficile dire da che cosa derivi questa scarsa propensione: io penso che, a differenza di altri collettivi, quello dei traduttori soffra dell’isolamento in cui si svolge la professione, i cui effetti si vedono anche nel tipo di atteggiamento retrivo, autoreferenziale e vittimistico che emerge in molti forum, su Facebook o nei gruppi di discussione.
Il secondo motivo riguarda le piccole imprese (10-20 dipendenti), che condividono molto spesso la mentalità dei freelance e – nei pochi casi in cui prendono la decisione di investire in formazione – preferiscono appoggiarsi a professionisti o aziende consolidati o ad assumere profili che riuniscono queste competenze, per poi trasferirle internamente al resto del team. E le aziende più grandi (quelle con più di 20 dipendenti) dispongono quasi sempre di risorse interne e di know-how utili a coprire tutte le esigenze di formazione tecnica, e nei rari casi in cui acquistano formazione tecnica lo fanno con aziende di pari spessore.
Il terzo motivo: il mercato, apparentemente vastissimo in termini assoluti, in realtà si riduce di molto se si considera che un professionista tende ad acquistare formazione principalmente nella propria lingua nativa. I formatori sono dunque obbligati a rivolgersi a un solo segmento nazionale o ad allestire la loro formazione in varie lingue, con il conseguente aumento dei costi di preparazione. Se poi si rapporta il valore potenziale all’importo unitario stimato che ciascun utente sarebbe disposto a spendere (anche un semplice sondaggio informale fra i propri contatti è sufficiente per farsi un’idea), ci si accorge che il fatturato che ne consegue difficilmente compensa lo sforzo organizzativo.
L’ultimo scoglio è rappresentato dal fattore online vs in aula. Dopo 8-10 ore giornaliere di lavoro in solitario dinanzi al computer, molti (per non dire tutti) i traduttori con cui ho parlato preferiscono formarsi in aula con altri colleghi, limitando quindi, di fatto, ulteriormente l’offerta che un’azienda può allestire.
La formazione online, già: un’attività che – in un mondo digitale – ha a mio parere possibilità immense. Gli ho chiesto come la vede.
La formazione online è un’enorme opportunità per tutti i creatori di contenuti, perché permette di raggiungere un pubblico vastissimo con un’infrastruttura minima. È tuttavia necessario conoscere a fondo gli strumenti, per essere in grado di allestire piattaforme appetibili e user-friendly, ma soprattutto c’è bisogno di conoscere le metodologie adeguate. Creare un corso non vuol dire soltanto offrire dei contenuti strutturati agli studenti. Ci sono molti altri aspetti di cui tener conto: l’interazione, il tutoraggio, il controllo dei risultati ottenuti eccetera. D’altro canto, bisogna riconoscere che l’interazione e il confronto in aula arricchiscono molto di più gli studenti. Spesso i professionisti che vogliono tenersi aggiornati scelgono soluzioni in aula o almeno miste, proprio per poter aver un contatto diretto con i docenti e con i compagni.
Nel futuro (ma anche oggi, volendo) questo tipo di interazione sarà sempre più replicabile online, grazie alle innovazioni nel campo dell’audiovisivo. Strumenti gratuiti come Google+ Hangouts consentono dinamiche di gruppo fino a pochi anni fa riservate soltanto a chi poteva permettersi hardware e software di fascia alta. Se a questo uniamo la decisione, adottata da sempre più numerosi centri universitari, di mettere a disposizione gratuitamente contenuti didattici di altissimo livello, vediamo che il futuro della formazione online è veramente roseo.
È probabile che a un certo punto questa ipertrofia dell’offerta porti alla nascita di figure intermedie: non veri professori, ma figure nuove che potremmo chiamare facilitatori, che avranno il compito di costruire percorsi su misura dei discenti e di guidarli attraverso di essi.
Come vedi il mercato della formazione per traduttori, sia in generale sia nel vostro specifico?
Oltre a quanto ho già detto sopra, aggiungo che secondo me è emblematico che le aziende che si dedicano esclusivamente a questo si possano contare sulla dita di una mano (mettiamo due, se allarghiamo il contesto a un ambito europeo). Spesso ho provato a ribaltare la questione: assodato che il traduttore medio ha bisogno di imparare ad utilizzare gli strumenti tecnici (parlo sempre infatti di formazione extra-linguistica, cioè non “come si fa a tradurre”, ma “come tradurre nel modo più produttivo usando la tecnologia”), perché l’attuale offerta formativa non fa breccia nei professionisti? Dove stiamo sbagliando? Ti pongo un esempio tratto da una realtà vicina, quella francese: com’è possibile che un corso in aula di 8 ore su OmegaT, il noto CAT tool gratuito e open source, impartito dal capo programmatore del progetto (ovvero la persona che più ne sa sull’argomento), offerto a Lione (500 mila abitanti, 1,4 milioni compreso l’hinterland) per circa 200 euro (sovvenzionabili o comunque scaricabili ai fini fiscali) non raccolga nemmeno le otto iscrizioni necessarie per il suo svolgimento? È segno che il messaggio non arriva, o fisicamente (nel senso che la promozione non raggiunge il target), o metaforicamente, nel senso che i traduttori non ne comprendono i vantaggi.
Che cosa fare per cambiare questa situazione? Non lo so. C’è da lavorare sulla comunicazione, prendendo spunto da altri settori, ma – come dicevo prima – se il target è il traduttore libero professionista, ho paura che il discorso sia molto più vasto e che ci scontriamo contro un certo tipo di mentalità che cambierà soltanto con il naturale ricambio generazionale.
Commenti
In verità i traduttori hanno, innanzitutto, troppo spesso, il braccino corto, e investono “oculatamente”. A riprova è sufficiente proprio l’argomento addotto dall’anonimo e pavido autore del post che hai citato riguardo al costo della formazione. Ma il suo blog è seguitissimo e apprezzatissimo, per i temi che tratta e soprattutto per come li tratta, e questo la dice lunga anche sul tenore di certi “professionisti”, non solo italiani.
Il fatto poi che si considerino “grandi” le aziende con più di 20 dipendenti dà l’idea della situazione in cui versa il settore e invito a leggere quanto ho appena scritto sul mio blog (http://www.s-quid.it/le-cose-cambiano/).
Quanto alla formazione online, basterebbe ricordare l’esperimento condotto con il barcamp di un paio di anni fa alla LUSPIO. Negli anni in cui mi sono prestato alla docenza ho capito che, se i traduttori disponessero di autentiche fondamenta di “tecnica della traduzione” (che, per inciso, ho proposto come tema del primo numero del 2013 di “The Big Wave”), potrebbero imparare molto più rapidamente a servirsi degli strumenti, e il fatto che ci si concentri su questi è indice di una spaventosa assenza di idee in ambito didattico.
Un commento, infine, su OmegaT. L’open source soffre, in generale, di una visione complessiva distorta, da parte di coloro che vi si dedicano e dei potenziali utenti. Nei primi mancano la necessaria considerazione e il dovuto rispetto per gli utilizzatori, ancora troppo spesso trattati da “utonti”; nei secondi permane la non del tutto ingiustificata sensazione che i prodotti open source o addirittura free siano poco amichevoli, se non ostici, e mal supportati. Un esempio per tutti? Famelix, una gran promessa rimasta tale. Se poi gli “imprenditori” preferiscono appecoronarsi sulle soluzioni imposte loro dai clienti per i quali si offrono come puri reseller, anziché stimolare la professionalità dei loro collaboratori, si torna ai commenti al post precedente. Che, però, non ti sono piaciuti…
A coloro cui interessa l’argomento formazione rivolgo l’invito di leggere il prossimo numero di The Big Wave che si preannuncia ricco di contributi interessanti.
Scusa Luigi, solo una precisazione: nel mio intervento parlo di aziende “più grandi”, non “grandi” in assoluto. È chiaro che in termini assoluti un’azienda con 20 dipendenti è considerata una piccola impresa (e piccola fra le piccole). D’altronde il fatturato stimato del settore dei servizi linguistici, circa 30 miliardi di dollari è una sciocchezza se lo si confronta con il fatturato di un qualsiasi altro settore commerciale. Per rimanere nell’ambito dei servizi, la sola Accenture (dati della Wikipedia) ha fatturato 25.5 miliardi nel 2011. Andremmo fuori tema, ma la scarsa rilevanza del lavoro del traduttore secondo me è anche legata alla scarsa rilevanza macroeconomica dell’intero settore. In ogni caso, ne so veramente poco di economia e finanza: sarebbe azzardato da parte mia lanciarmi in analisi al di là della presentazione di queste semplici cifre. Prendetele per quello che è: uno spunto di riflessione.
Il fatturato del settore è pari, secondo stime recenti di Common Sense Advisory, a quello dell’industria della bicicletta. Quando mi capita di tenere interventi in conferenze o qualche seminario chiedo sempre ai presenti se sanno dirmi cinque marchi internazionali di biciclette; raramente capita che ne citino uno e più spesso si limitano a indicarne un paio del loro paese. Ecco, questo credo dica di più del fatturato di Accenture. 🙂
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