Non è che ho l’impressione che non ci capiamo, è che proprio non parliamo la medesima lingua e non c’è speranza di comunicare.
Leggo questo articolo, che è fuorviante già dal titolo e dalla foto (oltre che per i ragionamenti che vi si fanno) e capisco alcune cose.
Prima di tutto, capisco che il sistema socio-economico di cui facciamo parte esige che i lettori (in questo caso, ma le persone in generale) siano innanzitutto consumatori. Devi consumare o sei out. (Sentita ieri sera, Elisa scusami se cito le tue parole: i genitori di un ragazzo di diciott’anni si sono sentiti chiedere dall’assistente sociale se il figlio aveva dei problemi, essendo l’unico in classe a non avere un telefonino.)
Poi capisco che per troppe persone la felicità è commisurata in maniera più o meno diretta al denaro, mentre sia varie ricerche (alcune anche citate nell’articolo) che, soprattutto, un po’ di buon senso dicono che la felicità è da cercare dentro di sé, e non certamente nel possesso dell’ultimo telefonino, TV al plasma eccetera.
Misuriamo il denaro perché è più semplice da quantificare rispetto alla felicità: ma quanto a importanza come stiamo? Non sarebbe il caso piuttosto di far luce sulla chiave là dove la chiave si trova?
Quindi il punto è chiaro, ma nello stesso tempo è un paradosso: la felicità è commisurabile alla felicità, ma far luce sulla questione è complicato, richiede che ci si metta in gioco: e allora si ricorre al denaro. Pecunia non olet, è un termine di paragone immediato e comprensibile a chiunque. Peccato che non significhi nulla; eppure periodicamente arriva qualcuno a spiegarci che con tot euro saremo felici.
Tutto questo non vuol dire, naturalmente, che il denaro non sia funzionale alla nostra felicità; ma solo nella misura in cui migliora il nostro stato interno, il nostro benessere percepito. Quindi il punto non è preoccuparsi di come fare a guadagnare tot soldi, ma cercare di scoprire come rendere più armoniosa e soddisfacente la nostra vita quotidiana, l’adessoqui, e ottenere così in maniera diretta ciò che non può essere raggiunto attraverso il perseguimento di obiettivi simbolici.
Commenti
Senza denaro non si gioca a golf, e non si va nemmeno sott’acqua. Se la felicità è anche, se non innanzitutto, funzione del benessere, ecco che anche il denaro porta alla felicità.
Per inciso, la citazione di Vespasiano, qui, è impropria. L’imperatore voleva tassare i bagni perché i romani usavano le terme e i colpire specialmente i fullones, non per arricchirsi direttamente.
Infine, forse varrebbe ricordare che l’argomento della modesta importanza del denaro è sempre stato portato da coloro per cui il denaro non è un problema.
Questo è un argomento scontato e facilmente smontabile. Io non sostengo che il denaro non è importante, solo che oltre ad una certa misura non contribuisce alla felicità. Anzi, come dimostrano molti studi, da una certa soglia in poi addirittura accade il contrario!
Sul fatto che il denaro non sia un problema: sono stato uno studente squattrinato anch’io, e poi un sedicente professionista squattrinato e – tanto per dirne una – quest’anno, alla tenera età di 45 anni, fino all’ultimo non sapevo se sarei risucito a portare la famiglia in vacanza. Ma questo non mi impedisce di essere felice dentro di me, che poi alla fine mi pare la cosa più importante.
E sulla citazione: il punto non è Vespasiano, è il fatto che è troppo comodo misurare con il denaro grandezze che con il denaro non hanno nulla a che fare. La scienza triste (l’economia) non riesce a misurare la felicità, tutto qui.
Bene: chiediamo a quelli che non arrivano a fine mese, non che non sanno se potranno portare la famiglia in vacanza, se il denaro non contribuisca alla felicità.
Sono quasi sicuro che anche il 99,99% di quell’1% che detiene il 45% della ricchezza non esiterebbe a dirsi felice e a rifiutarsi di cedere anche solo lo 0,001% del proprio patrimonio.
Essere felici dentro suona più come un ritornello da “mille lire al mese”. Quando i sacrifici superano di gran lunga i benefici, diventa anche offensivo. Senza dire che anche sbandierare questa “felicità” potrebbe suonare offensivo per molti, magari privi degli strumenti per cogliere argomenti così sottili.
Su Vespasiano, il punto è proprio che il denaro, specie per quelli che ne hanno a iosa, dovrebbe servire a rendere migliore la vita di coloro che ne hanno meno, senza imporre inutili sacrifici. Tito rimproverò al padre la volgarità della decisione e lo provocò gettando delle monete in un orinatoio; Vespasiano le raccolse per dimostrare al figlio che non c’era niente di cui vergognarsi e che, appunto, il denaro non ha odore, per chi ne ha come, soprattutto, per chi non ne ha.
Quanto all’economia, chiamarla scienza è come voler chiamare scienza la traduzione. Lo fosse davvero non staremmo così, mentre spiegazioni e misure riesce a darne, anche della felicità, benché a posteriori. Sono i filosofi, specie quelli “spicci” (copyright giannidavico) a pretendere di poterlo fare: “Life can only be understood backwards, but it must be lived forwards”. (Sören Kierkegaard)
Mah, se seguissimo la tua logica fino in fondo allora nessuno dovrebbe più giocare a golf, andare a mangiare la pizza (figuriamoci osare dichiarare di essere felice) eccetera.
Mi sovviene Rita Levi-Montalcini: tanto di cappello per tutto quello che ha fatto e pensato, ma quando dice che la felicità è cosa da sciocchi (o da bambini, è lo stesso) ne capisco il ragionamento ma non lo condivido.
Io sì, io pretendo – per me – di poter dare spiegazioni, regole eccetera. Ma lo faccio innanzitutto (appunto) per me, che di quelle regole sono la prova provata: se qualcuno vuole ascoltare, correggere, controbattere eccetera è il benvenuto, se non è d’accordo o rimane indifferente a me va ugualmente bene.
Aggiungo un punto che era rimasto implicito nel mio post: i 3.500 euro di cui parla l’autore dell’articolo non sono *in alcuna maniera* correlati alla felicità (comunque la si voglia definire), ma sono semplicemente il livello di reddito “necessario” per non avere difficoltà economiche.
La felicità è una pizza.