Pavese traduttore, ovvero: per una lettura metrica del “Moby Dick”

dittatore editoriale
Questo è un articolo datato, ma ne sono venuto a conoscenza qualche settimana fa grazie a Facebook e vorrei spenderci due parole.

L’idea centrale dell’articolo – che non posso condividere – è che traduttori come Pavese, Vittorini e Pivano non fossero all’altezza del compito. Capisco il punto di vista di chi scrive, ma se i “nuovi” (absit iniuria verbis) traduttori riusciranno a fare la metà della metà della metà di quanto hanno fatto quei “mostri sacri” (così li definisce l’articolista) per la diffusione della letteratura americana in Italia potranno dire di aver avuto un successone.

Mi limito ad un caso che conosco bene, la traduzione di Moby Dick di Cesare Pavese. È vero che quella traduzione, letta oggi, può far sorridere in diversi punti; è vero che contiene errori veri e propri, libere interpretazioni eccetera. Ma c’è un errore di fondo in questa posizione: considerare quella traduzione come se fosse stata fatta oggi, con i mezzi e le conoscenze di oggi, che non sono in alcuna misura paragonabili a quelle degli anni Trenta (la prima edizione è del 1932, ripubblicata poi nel 1941 con leggere varianti).

Va inoltre detto che il Pavese di quegli anni era tutto preso dal ritmo ternario. Per dirla con le sue parole (Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca), in: Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1973, p. 128 – il grassetto è mio):

Mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud e per parecchie altre poesie fu solo istintivo (restano tracce di questa incoscienza in qualche verso dei primi, che non esce dall’endecasillabo tradizionale). Ritmavo le mie poesie mugolando.

Insomma Pavese giovane leggeva – o cercava di leggere, ove ciò era possibile – i romanzi segnandoli mentalmente secondo una “certa tiritera”, che suppongo (vorrei dare le prove ma “suppongo” soltanto – e suppongo perché da giovane laureato avrei dovuto seguire le indicazioni che mi avevano dato Einaudi e Bobbio e proseguire gli studi su Pavese, ma litterae non dant panem e non lo feci) non possa essere che l’antesignana del ritmo ternario di Lavorare stanca – per stessa ammissione del poeta, un metro nato spontaneamente.

La traduzione inizia con una copia perfetta di settenari:

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa…

Ed ecco qualche esempio del ritmo ternario (sono tutti presi dalle prime tre pagine della traduzione):

Allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Il commercio la cinge con la sua risacca. A destra e a sinistra le vie vi conducono al mare. Il suo punto [più] centrale è il Bastione, dove quella mole illustre è ventilata dalle brezze [ho posto tra parentesi quadre una sillaba soprannumeraria rispetto al nostro computo].

Ancora. Voi siete in campagna, su qualche altopiano lacustre. Prendete qualsiasi sentiero vi piaccia […]. C’è del magico in questo.

Qual è l’elemento essenziale che adopera?

Gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro.

Ma anche questo col tempo dà giù.

Che cosa importa se qualche spilorcio di un capitano mi comanda di andare a prendere la scopa e strofinare i ponti?

Sono solo esempi. Tanti anni fa iniziai la stesura di un articolo critico sul tema, che però poi rimase nel cassetto delle cose belle che non faremo mai. Ma il punto centrale rimane: una pera più una mela farà sempre una pera più una mela – giù le mani da Pavese! Quegli autori, ai loro tempi, hanno fatto tantissimo per la diffusione della cultura letteraria americana in Italia, e noi – che siamo nani sulle spalle dei giganti, come direbbe Bernardo di Chartres – non possiamo che toglierci il cappello dinnanzi a loro.

Commenti

Elisabetta ha detto:

ciao! vorrei saperne di più su questi errori di cui parli. Potresti essere più specifico? 🙂
Grazie mille!
Elisabetta

giannidavico ha detto:

Guarda, la mia conoscenza su Pavese è purtroppo mitigata dai tanti anni che sono passati dalla laurea a oggi. Hai ragione a chiedere una risposta precisa, ma per fornirla dovrei studiare settimane!

L’idea centrale però è chiara: la conoscenza dell’inglese (parlo in generale) negli anni Trenta in Italia era certamente molto più limitata rispetto a oggi, e Pavese è stato fondamentalmente un narratore (il traduttore essendo un’occupazione laterale, abbandonata negli anni). Né fu mai in paesi anglosassoni.

La conseguenza – magari non condivisibile, ma logica – è che quella traduzione fu in tanti punti un’interpretazione. Di questo sono sicuro; anche se, ripeto, non sono in grado di fare esempi specifici.

Ma aggiungerò che una parte della risposta di trova nella “Prefazione” di Pavese alla stessa traduzione: “Avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla”. E Pavese ha contribuito a creare la tradizione di Moby Dick in Italia (essendo la sua la prima traduzione in italiano); il resto tocca a noi.

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