Daje (mach)

daje
Ho passato recentissimamente e in sequenza due giornate con due persone che hanno significato e significano tantissimo per me. La prima con uno scrittore che con i suoi libri mi ha insegnato una parte molto significativa di quello che so sul come si fa a scrivere bene; l’altra con un amico – probabilmente il mio più caro. Mi è venuto allora da fare qualche considerazione. (Non mi aspettavo certo che due giornate così “pesanti” passassero come acqua fresca su di me.)

Fondamentalmente mi accorgo che in tante cose non sono all’altezza. Per carattere o per altro, i motivi non li so: ma mi accorgo che sono tanto bravo con la parola scritta perché faccio tanta fatica con la parola parlata (o viceversa, è lo stesso); e se non dici le parole giuste al momento giusto rimani indietro, è matematico. E questo è un mio limite che mi è evidente e con cui devo comunque fare i conti.

O, per dirla con Giovanni Giudici:

Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.

Queste due giornate mi hanno per forza costretto a fare i conti con quello che ero io quando ho conosciuto queste persone, o direttamente o per mezzo delle loro opere – il tempo non passa invano, anche se così potrebbe sembrare al suo scorrere –, e mi rendo conto che io sono cambiato molto; probabilmente sono cresciuto ma non è importante, ci sono delle cose che non riesco a fare, dei miei limiti di cui devo prendere atto e basta.

Passare del tempo con loro, oltre alla naturale gioia che ne ho ricavata, mi è servito a capire che ci sono dei punti e dei luoghi dove io non arrivo e comunque non potrò arrivare perché – in parole povere – non sono nelle mie corde. Devo prenderne atto, tutto qui.

In maniera più generale vedo anche che in questa vita, come dice l’amico, chi cazzo a sa lòn ch’a l’é giust. Questo mi porta a pensare che è tutto inutile quel che facciamo, o più precisamente buona parte di quel che facciamo. Ma almeno una risposta possibile c’è: “daje”, per dirla alla Zeman; o “daje mach”, per dirla in piemontese. Ovvero: tieni duro, qualcosa succede.

Anche qui Giovanni Giudici (Con tutta semplicità) ha una risposta interessante:

Con tutta semplicità devo dire
che un tempo sembrava lontano
il tempo in cui morire.

Ora non è più un pensiero strano.
Ora è sempre lontano (almeno spero) ma
posso già prefigurarmelo. Ho l’età

in cui dovrei fare ciò che volevo
fare da grande e ancora non l’ho deciso.
Faccio quel che faccio, altra scelta non ci sarà:

leggo di miei coetanei che muoiono all’improvviso.

(Era uno dei miei poeti preferiti quand’ero al liceo, ho scoperto stamattina che si è spento da due anni. In questi casi penso sempre alle parole che non ho detto.)

E non possiamo nemmeno dimenticare Goethe:

Fino a che uno non si compromette c’è esitazione, possibilità di tornare indietro, e sempre inefficacia. Rispetto ad ogni atto di iniziativa c’è solo una verità elementare, l’ignorarla uccide innumerevoli idee e splendidi piani. Nel momento in cui uno si compromette definitivamente anche la provvidenza si muove. Ogni sorta di cose accade per aiutare cose che altrimenti non sarebbero mai accadute. Una corrente di eventi ha inizio dalla decisione, facendo sorgere a nostro favore ogni tipo di incidenti imprevedibili, incontri e assistenza materiale, che nessuno avrebbe sognato potessero venire in questo modo. Tutto quello che puoi fare, o sognare di poter fare, incomincialo. Il coraggio ha in sé genio, potere e magia. Incomincia adesso.

Insomma daje (mach): ciascuno ha i propri limiti ma la nostra volontà è qui con noi, adesso, è qui per aiutarci a superarli.

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