Sono stato nel mio rifugio tra i monti, qualche giorno fa. Una toccata e fuga – di fatto una notte –, ma significativa per più d’un motivo.
L’occasione l’hanno fatta due conferenze – questa e questa –, e mi è venuto bene unirci una notte a casa mia.
Sono state ore molto intense, dentro di me (e rasserenanti, ça va sans dire), a partire dalla vista della linea delle Alpi Marittime che incorona la piana di Cuneo. Sia detto incidentalmente, per parte di mamma provengo da una famiglia povera di pianura, fatta di terra e nebbia e fango, ma la mia natura mi porta inevitabilmente verso quelle montagne – povere anche loro: quindi andare verso le montagne, in un pomeriggio di un giovedì qualunque, è stato come tornare a casa dopo un lungo viaggio in luoghi stranieri.
È stato particolare vedere la Bisalta “ingrossata” e pienotta per la neve, mentre l’immagine che ne ho è di montagna snella e verdissima. Correre (ma tanto sono allenato, non è un problema) per arrivare in tempo alla prima conferenza. Arrivarci. Trovare – con piacere – la sala piena.
Di questa prima conferenza, tenuta dal professor Alessandro Vitale Brovarone, mi ha colpito una frase in particolare: “Non credo ai confini linguistici”, che è una bella dichiarazione di pace tra le lingue; e in ciò ho trovato conferma della mia idea, a riguardo dell’isoglossa che dovrebbe passare per San Damiano Macra a dividere il piemontese dal provenzale alpino; ma che di fatto non esiste, poiché due persone abitanti in due paesi confinanti, anche se le carte dovessero dire che hanno parlate differenti, si comprenderanno sempre. Il professore parlava della società transmontana – semplificando, quella delle nostre Alpi – che può non avere avuto interesse ad andare verso la pianura: il che può contribuire a spiegare da un lato l’unità di una lingua attraverso le montagne (queste Alpi, è importante che sia chiaro, sono sempre state un passaggio piuttosto che una barriera per le popolazioni che le hanno abitate, e di conseguenza il provenzale si estende in maniera naturale fin quasi alla pianura), dall’altra le differenze verso il piemontese della pianura; anche perché, per citare ancora il professore, “normalmente a fondo valle cambia musica”.
Il secondo incontro cui ho partecipato raccontava di un fatto minimo successo nel mio comune d’adozione tanti secoli fa. Il fatto in sé non è importante, è importante aver visto una piccola comunità riunita in una moderna vijà; e mi ha colpito il fatto che tale intervento sia stato condotto in piemontese. Mi ha colpito solo fino a un certo punto però: il piemontese – ël montomalèis, per essere precisi – è l’idioma del luogo, in quale altra lingua vorresti parlare?
Poi, finita la conferenza e le parole con gli amici (incluso l’abbozzo di un corso di grafia piemontese da tenersi quest’estate: pare incredibile, ma scrivere in piemontese per un piemontofono analfabeta in questa lingua – absit iniuria verbo, ma questa è la normalità per il 98% almeno dei parlanti – è di una facilità che fa impressione, come sono sicuro potrò dimostrare nei fatti da qui a pochi mesi), è stata la volta di andare a casa. Casa mia. Per la prima volta in tanti decenni di frequentazione ci andavo da solo, e mi è parsa un’anticipazione della mia vita futura, difficile e bellissima. Difficile perché isolata, bellissima perché vera, piena, viva.
Ho dormito al freddo, e mi è sembrata una cosa sana.
Mi sono svegliato e ho fatto colazione col caldo buono della stufa. Il caffè e il latte li ho scaldati col fuoco della stufa – poteva essere diversamente?
Fuori c’era la neve. Poco più in là sentivo il latrare – ij giap – dei cani del nostro padrone di casa, e a catena di altri cani di altre case più lontane. Le cose familiari erano ammantate di neve. Certe sensazioni sono minime, ma bastano a farti sentire in pace con te.
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[…] son ëstàit a na cita conferensa al mè pais, quàich di fà. I l’hai parlane ambelessì; adess am anteressa conté quàich sensassion gropà a la lenga e relativa a cola […]