Sono partito per un giro in bicicletta, ieri verso fine pomeriggio. La bici distende i pensieri, per così dire, li sistema, li mette in fila. In più pioveva. Da sempre adoro la pioggia. La pioggia è mia amica.
Pensavo alle costrizioni delle nostre vite, alle cose che facciamo perché dobbiamo farle, o anche (e forse soprattutto) perché “così si fa”, perché così fan tutti. Quando non posso scappare la mia reazione è estraniarmi (l’estraniamento è anche una fuga, dopotutto). E in bici ci sono solo io con i miei pensieri, null’altro.
Poi il cerchio si è allargato alle cose belle che avrei potuto fare e non ho fatto. C’era un po’ di malinconia, insomma, mista all’accettazione che è la consapevolezza dell’età di mezzo.
Erano dunque pensieri un po’ scomposti, forse un poco più sistemati dopo il giro ma sempre posticci, sempre appiccicati, provvisori. Accettare il guado a volte non è facile. Mi accompagnava Umberto Saba, soprattutto, e le varie “creature della vita / e del dolore” (Città vecchia); e pensavo, col poeta, che
s’agita in esse, come in me, il Signore.
E c’era anche un poco di Montale (Mediterraneo):
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine.
Pensieri che giravano, mezzi pensati e mezzi informi, e non sapevano prendere una piega decisa. Già, perché certi pensieri in file ordinate non ci vogliono stare, in nessuna maniera. Ma almeno la bici serve a metterli un pochino in fila, a dargli un minimo di direzione – e se non vogliono stare in fila stiano così, io li registro lo stesso.
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