Cos’è la norma grafica

[a va anans la discussion an tra Enrico Eandi e Sergi Girardin an sla question dij doi andrit dla grafìa: ambelessì a-i é la pontà antecedenta]

Sancto Lucìo de Coumboscuro (Cuneo), domenica, 8 maggio 2011.

Gentile Signor Eandi,

Mi scuso per non aver potuto rispondere più tempestivamente alla Sua lettera.
Contrariamente alle mie inclinazioni personali, che mi sospingerebbero assai di più all’usufruizione della ricca produzione letteraria in piemontese che non alle imprese linguistiche, mi vedo costretto mio malgrado ad occuparmi giornalmente di ben due squadre di lavoro. Questo rallenta non poco i tempi con cui auspicherei rispondere ai miei corrispondenti.
L’unico vantaggio di questa mia occupazione è di dover riflettere sulle lingue.

Ho letto con attenzione la Sua lettera.
È con notevole disappunto che constato come Lei scavalchi a pie’ pari tutte le osservazioni sulla natura scientifica del convegno, auspicando ciò nonostante di poter presentare il Suo correttore grafico.
Mi dispiace di non essere stato sufficientemente chiaro.
Mi ci riproverò ora.

La mia osservazione preliminare riguarda i grafemi che Lei propone nella Sua lettera: ö, ü, ecc.

Posso anticiparLe già sin d’ora, ancora prima della tenuta del convegno, che tra le tante soluzioni grafiche adottate via via sull’arco dei secoli, quei segni non hanno mai fatto parte del patrimonio storico della lingua piemontese.
Né, ad onor del vero, io li ho mai visti utilizzati in alcuna lingua romanza.
Da dove Lei li abbia desunti rimane per me un mistero: se Lei mi volesse cortesemente indicare un documento storico in cui tali grafemi ricorrono, io gliene sarei molto grato.

Vede, caro Eandi, se si conoscono a fondo i popoli, si sa che essi tengono alle loro tradizioni fin nei minimi dettagli.
I Walser, ad esempio, non usano un solo chiodo nella costruzione delle loro case di larice.
Gli ebrei non mescolano due fibre nella tessitura dei loro vestimenti.
Arabi ed ebrei, nei loro rispettivi alfabeti, non indicano le vocali.
I popoli slavi cristiano-cattolici non tollerano l’alfabeto cirillico, gli ortodossi quello latino.
I popoli orientali occidentofili hanno adottato l’alfabeto latino, quelli culturalmente autoctoni gli ideogrammi.
Le lingue germaniche non hanno accenti: le parole sono invariabilmente prototoniche.
Sulle parole del francese l’accento cade invariabilmente sull’ultima sillaba. Non si indica.
Sulle quelle russe, spesso plurisillabiche, l’accento non si indica mai, anche se spesso trasmigra in seno alla stessa parola, da un caso all’altro.
Su quelle greco-moderne (monotonikò) e su quelle spagnole si indica solo se non sono piane.

Certo, per amor di facilità, si potrebbero usare chiodi per fare case di legno, mescolare fibre per ottenere tessuti più elastici, compitare lingue slave con l’alfabeto latino, indicare le vocali nelle parole semitiche, translitterare tutti gli ideogrammi, e via di seguito.
Più facile, ma contrario alla norma.

È la storia che stabilisce la norma, non il capriccio o l’arbitrio personali.
Per conoscere la norma bisogna studiare la storia, non agire di testa propria.
Anche perché chi non rispetta la norma, non rispetta i popoli.

Mi consenta di dirLe in tutta franchezza che la grafia da Lei proposta non è “normalizzata”, in quanto non risponde a nessuna norma. Essa è in verità “anormaliz¬zata”, cioè decurtata delle norme più elementari delle grafie romanze.
Quando ne parla o ne scrive, la presenti con il nome giusto.

Se come unica attenuante della Sua defezione dalla norma storica Lei adduce la semplificazione della grafia, mi faccia sapere come scriverebbe la “u” finale di “forcù”, come ne Ël diauleri dij pé forcù (nota lirica di Luigi Olivero): sormontata simultaneamente da una dieresi e da un accento grave?
Io, che uso programmi di elaborazione testuale aggiornatissimi, non trovo una “u” sormontata simultaneamente da un accento grave e da una dieresi né tra i simboli speciali, né tra i simboli dell’IPA (International Phonetic Alphabet).
Ma, anche concesso che vi fosse, una “u” così scritta faciliterebbe la lettura a bambini e adulti? E quelli che scrivono il piemontese con un computer, dove vanno a reperire quella lettera?

Dov’è la Sua opera di semplificazione?
A cosa vale la Sua apostasia della storia di una lingua se poi fallisce anche il fine Suo precipuo, quello di semplificarne la grafia?

I giovani che nel 1930 – secondo la testimonianza scritta di Luigi Olivero (cfr. l’apposito sito su internet, apprestato da Giovanni Delfino) – si sono riuniti attorno alle figure di Pinin Pacòt e di Andrea Viglongo per riportare la grafia alle norme sei-settecentesche, non hanno agito ignorando i testi secolari della civiltà letteraria piemontese, ma con piena conoscenza di essa e con il lodevole scopo di porre fine alle oscillazioni grafiche proprio sul nascere di una grande, nuova stagione creativa.
Con il loro studio e le loro edizioni dei testi settecenteschi (Pacòt per Ventura e Balbis e Olivero per Isler) si sono rivelati non solo ottimi poeti, ma anche filologi affidabili. Dei frutti del loro lavoro hanno beneficiato tre generazioni di poeti, scrittori, studiosi, editori.
La loro non è stata una creazione ex nihilo, ma un ripristino sulla scorta di regole trisecolari.

Qui a Coumboscuro la grafia della lingua provenzale alpina non è stata elaborata pensando all’italiano o al francese, ma studiando molto attentamente l’eredità trobadorica e la compitazione mistraliana, non senza prendere in considerazione anche le leggere apografie della Escolo dòu Po.
Sono occorsi più di due anni di lavori per arrivare all’attuale normativa: improvvisando vi saremmo potuti arrivare in due giorni.
Altrettanto dicasi della grafia del Walsertitzschu, da me ricodificata agli inizi del 2000 sulla scorta della grammatica di Giovanni Giordani (1892) e dei manoscritti del circolo letterario alagnese (Gnifetti, Farinetti, Grober, etc.).

Se Lei propone una grafia caratterizzata da eterografemi, Lei deve addurre documenti dai quali tale grafia è storicamente avallata. Se Lei non possiede questi documenti non faccia proposte di riforma grafica, anche se motivate dalle più benevole intenzioni.

Infine, una considerazione pratica.
La bontà di ogni campagna è determinata dai suoi successi.
Lei non solo non convertirà mai i centri culturali seri o i piemontofoni edotti, ma neppure coloro che, pur non essendo piemontesi, siano informati dei valori in gioco.

Concludiamo.

Bisogna essere onesti e dichiarare fin dall’inizio i propri scopi.

Io amo la lingua del mio popolo e voglio operare fino all’ultimo per studiarla, illustrarla e difenderla.
Se Lei non intende in alcun modo prendere in considerazione il lavoro di diecine di studiosi della storia della lingua piemontese, che in questi mesi si danno da fare per reperire, confrontare e studiare documenti in vista del convegno, perché verrebbe ad ascoltarli?
Se Lei non li tiene in nessun conto, perché onorarli della Sua presenza?

Io spero con tutto il cuore che Lei non appartenga alla schiera di coloro che non ascoltano né ragioni storiche, né argomenti logici: nella recente storia europea abbiamo visto dove ci hanno condotti coloro che non hanno ascoltato né la voce della storia, né quella della ragione.

Mi auguro anche che Lei voglia riflettere bene sul Suo operato, soprattutto in considerazione dei bimbi e dei ragazzi che studiano la nostra lingua e si troveranno poi, per quelli edotti dal Suo correttore ortografico, a doverla re-imparare per adire ai capolavori letterari, invariabilmente compitati nella grafia consacrata dal tempo.

Ma se i miei auguri andassero a vuoto e Lei fosse assolutamente deciso ad ignorare storia e filologia, il Suo posto non è tra gli storici della lingua in un convegno scientifico, ma tra gli imbonitori di merci su una piazza: quello che Lei veramente vuole non è portare lumi alla conoscenza della Sua lingua, ma propalare la Sua merce.
In quest’ultimo caso non mi rimane che augurarLe di trovare chi gliela comperi prima di scoprire cosa essa veramente è. Immagino che i danni, a scoperta fatta, non verranno rimborsati.

Quanto al convegno, Lei è più che benvenuto a venirci, se l’ascolto delle relazioni su mille anni di storia linguistica possono indurLa a riflettere sulla deferenza sempre dovuta alle tradizioni dei popoli.
Non scordi che lì, quello che cercheremo di fare, è di salvare il patrimonio di una lingua millenaria: il rispetto è il minimo che Le possiamo chiedere e tutto quanto Lei possa offrirci.

Sergio Maria Gilardino

Commenti

Sabina ha detto:

Bella questa diatriba, per noi che amiamo le speculazioni intellettuali, come banco di prova delle nostre capacità logiche. Ho un solo dubbio, Gianni. Parliamo di una lingua che ha scarsa o punto tradizione scritta e che, soprattutto, è destinata ad averne ancora meno in futuro. Essendo l’evoluzione delle lingua affidata esclusivamente ai parlanti e non modificabile in alcun modo ex cathedra (appunto: “È la storia che stabilisce la norma, non il capriccio o l’arbitrio personali”), il piemontese nella sua versione scritta è destinato a essere congelato, a diventare una sorta di lingua morta, poco più di un esercizio di stile. Mi sbaglio?

Enric Eandi ha detto:

Egr. prof. Gilardino,

leggendo la sua lettera, in forma di post (Gianni, as dis parej?), mi sono sentito a disagio, perché, dalle sue argomentazioni deduco che con la precedente mia risposta non sono riuscito a spiegare il mio pensiero, in modo tale da farmi capire.
Pertanto, qui di seguito cercherò di dare delle risposte puntuali a quelli che mi sembrano gli argomenti sui quali fatichiamo ad intenderci.

A) -Convegno scientifico e presentazione del correttore ortografico.
La mia proposta di presentare il correttore ortografico non nasce dalla presunzione di attribuire valore scientifico al correttore ortografico; so benissimo che il correttore è uno strumento di natura tecnologica, non scientifica; credo però che sia uno strumento utilissimo, se non indispensabile, per garantire correttezza e stabilità alla forma scritta di una lingua, qualunque essa sia, e comunque siano definite le regole grammaticali e ortografiche.
Quindi, ripeto, non un intervento con pretese scientifiche, per il quale ritengo di non avere alcun titolo, ma una parentesi tecnologica, applicata alla lingua piemontese.
Se questo è compatibile con il carattere scientifico del convegno bene; altrimenti non importa: i vad a canté ant n’auta curt.

B – Uso dei grafemi ö, ü, per la notazione dei suoni mediani
Per quanto attiene alla evoluzione storica della grafia della lingua piemontese, con relative oscillazioni, credo che una sintesi molto chiara, e per me esauriente, si trova nel documento qui accessibile http://www.piemunteis.it/allegati/LESESCRIVE_VILLATA_01.PDF
Si tratta di un intervento del Prof Villata, (Na grafìa ünica per un piemunteis pi fort) fatto ad uno dei Rescuntr sulla lingua piemontese, di cui sembra difficile poter mettere in dubbio il rigore scientifico.
Risulterebbe quindi che il primo ad utilizzare i grafemi ö, ü, sia stato Costantino Nigra nei “Canti popolari piemontesi”; ma una proposta in tal senso è stata fatta anche da Alì Belfadel, con la sua grammatica pubblicata nel 1933; ma come sappiamo, prevalse negli stessi anni, (forse per ragioni autarchiche?) la soluzione Viglongo/Pacot.
Sicuramente quest’ultima è la grafia adottata dalla maggior parte degli “scrittori”piemontesi di questi ultimi decenni; peccato che in piemontese si scriva sempre meno; è chi vuole farsi capire dai lettori, spesso ricorre ad altri segni, arrangiandosi come sa è può, tanto le sembra innaturale, la grafia che gli viene proposta.
Questo è quanto mi risulta, per cui l’introduzione dei grafemi /ö/, /ü/ nella grafia del correttore, non è un invenzione estemporanea, ma il tentativo di derivare una normalizzazione dai vari suggerimenti che ci giungono dal passato.

C) – Grafia normalizzata
Io credo di poter definire come normalizzata la grafia su cui si basa il correttore ortografico, nella misura in cui è l’esatta trasposizione delle norme grammaticali codificate dal prof. Bruno Villata nel testo “La Lingua piemontese”; testo pubblicato a Montreal nel 1997, messo all’indice in Piemonte, per questione di accenti; pubblicata a Torino dalla Fondazione Savej nel 2010, garantendone la perfetta corrispondenza con il correttore ortografico.
Quindi la grafia proposta con il correttore è una grafia normalizzata nel senso che risponde a norme codificate, per quanto attiene alle regole grammaticali; circa le notazioni grafiche, le scelte fatte vogliono essere un tentativo di dare una risposta a quella che è la questione di fondo delle lingua piemontese: dare una notazione specifica a suoni specifici, che non hanno corrispondenza nella lingua italiana, la quale rappresenta per i piemontesi il naturale termine di confronto.

D) – Come si scrive “Ël diauleri dij pé forcù”
Molto semplicemente io lo scriverei così: El diavleri dij pe furcü.
Con le seguenti motivazioni:
• La /e/ di el è sempre atona, quindi non serve la notazione ël; la pronuncia è comunque la stessa;
• Diavleri, per mantenere invariata la radice diav, sapendo che in determinati casi, la v si pronuncia u;
• pé: l’accento tonico è superfluo in quanto, trattandosi di un monosillabo, non vi sono dubbi su quale possa essere la sillaba tonica; ma non ne farei un dramma se si preferisce abbondare con gli accenti.
• furcü: la vocale ü può trovarsi sia in sillaba tonica che in sillaba atona; ma quando si trova in fine di parola, è sempre tonica, per cui non richiede l’accento, anche se si tratta di parola tronca.
Per sua informazione, le dettaglio quanto segue:
• nel dizionario base del correttore si contano 2829 parole con /ü/, di cui 133 parole con /ü/ finale, sempre tonica.
• In tutti gli altri casi, la sillaba su cui cade l’accento tonico, è desumibile con le regole generali definite nella grammatica citata, senza che sia necessario notarlo come accento grafico.
• Come tutti sanno, ancora più semplice è il caso della /ö/, che individua sempre una sillaba tonica, per cui non richiede la notazione dell’accento grafico.

Quindi il problema della doppia notazione della dieresi e dell’accento non si pone in nessun caso.

E) – “Bisogna essere onesti e dichiarare fin dall’inizio i propri scopi”.
Prof. Gilardino, lei pone questioni di tipo esistenziale, alle quale non sono molto preparato a rispondere, ma ci provo;
• Io ho lavorato per almeno cinque anni alla prima versione del correttore (grafia Brandé), senza avere la minima possibilità di confronto costruttivo, con quelli che han fatto della grafia un mestiere e degli accenti un dogma. Arrivato alla fine del mio lavoro, mi sono convinto che era opportuna una revisione delle regole ortografiche, perché incoerenti e distoniche, rispetto al contesto linguistico in cui viviamo.
• Determinante per gli sviluppi successivi, è stata la conoscenza dell’opera del prof. Villata più volte citata “La lingua Piemontese”; se posso esprimere un parere, questo è stato il primo, ma forse anche l’unico, approccio scientifico alla lingua piemontese. Pensare che quest’opera, per una questione di accenti, sia stata messa all’indice da quelli che lei chiama “circoli culturali e piemontofoni edotti” è un qualcosa di cui nessuno può essere orgoglioso.
• Circa i miei scopi, esclusa ogni motivazione di tipo economico, ho difficoltà a trovarne; potrei quasi dire che non ne ho. Ma cercando bene, una motivazione potrebbe essere questa: il piacere che può dare un lavoro fatto bene. E io sono convinto che il correttore ortografico, costruito sulle regole grammaticali codificate dal prof. Villata, sia un bel lavoro, di carattere tecnico, non scientifico, un passo avanti rispetto a quello che è stato fatto prima. Potrebbe essere ancora migliorato, se chi ha a cuore la lingua piemontese volesse dare il suo contributo, invece di limitarsi a lanciare anatemi e scomuniche.

In conclusione, credo di poter dire che il lavoro fatto per il correttore l’ho fatto soprattutto per me, con la soddisfazione di scoprire come una lingua abbandonata a sé stessa come è sempre stata la lingua piemontese, abbia saputo elaborare delle strutture linguistiche sue peculiari, che le conferiscono una precisa identità nell’ambito delle lingue romanze.
Questo naturalmente è prima di tutto il risultato degli studi del prof. Villata, che io ho meccanicamente trasferito sul correttore ortografico.
Quindi tanto per chiarire una volta per tutte, il mio è sempre stato un approccio tecnologico, non scientifico; ma non so dirle la soddisfazione che provo quando vedo che, inserite queste regole grammaticali in un computer, vengono generate 690.000 parole piemontesi, costruite sulle regole profonde che definiscono la lingua piemontese, in quanto tale lingua non dialetto.
Detto questo, io ho il massimo rispetto di chi, avendone le competenze necessarie, affronta il problema linguistico su un piano scientifico, nel presupposto che questo sia finalizzato a valorizzare un patrimonio su cui si basa la cultura e l’identità di un popolo.
Se invece, il ricorso ad argomentazioni scientifiche è solo finalizzato a cercare nel passato improbabili giustificazione all’immobilismo presente, allora non mi interessa.

Circa il Convegno di Vercelli, non ho motivo di dubitare che si tratti di una cosa seria, con solide basi scientifiche, finalizzata ad analizzare il passato per progettare il futuro, aperto ai diversi contributi, e quindi a possibili conclusioni non necessariamente predefinite.
Se così è, sono convinto che sarà una buona cosa, da cui tutti avremo da imparare.
Ma se così non fosse, se l’obiettivo fosse quello di “costruire” una improbabile continuità storica per giustificare l’immutabilità dell’esistente, allora il tutto si risolverebbe in un’ulteriore spinta verso il declino della nostra lingua e della nostra identità.

Resto comunque fiducioso che sarà impegno di ciascuno fare quanto necessario per scongiurare una simile prospettiva.
In ogni caso, questo è e resta il mio impegno.

Cordialmente
Enrico Eandi

Riccardo ha detto:

Mersì d’avèj scrivù an italian, monsù Eandi, che l’àutra vira, con soa grafìa, i j’era nen ëstàit bon a steje dapress a sò discors. Adess i l’hai capì na frisa mej. Bele ch’i son nen d’acòrd con cola grafìa (nò, a l’é pa chestion ëd nen esse d’acòrd, a l’é che pròpe i riesso nen a lesla), im përmëtto un cit consèj: s’i veule dé un sign a minca son, l’artìcol indefinì mascolin a sarìa da scrive «ën» (Na grafìa ünica per *ën* piemunteis pi fort) o,mej, con d’àutri (!) sìmboj pitòst che «un», da dovré nopà për ël përnòm (antant che ant la grafìa stòrica a së scrivo ant l’istessa manera e l’artìcol a l’é n’ecession a la përnonsia). Quant a soa afermassion «chi vuole farsi capire dai lettori, spesso ricorre ad altri segni, arrangiandosi come sa è può, tanto le sembra innaturale, la grafia che gli viene proposta» a më smija pròpe nen vera (a më smija ëd sente Berlusconi cand ch’a dis chiel lòn ch’a pensa la gent). Second mi, chi ch’a deuvra na grafìa sërvaja a lo fa përchè gnun a l’ha mostraje. E s’a veul rangesse coma ch’a peul a dovrërà gnanca mai la grafìa ëd monsù Villata, pì complicà che cola dij Brandé.

giannidavico ha detto:

Rispondo solo adesso a Sabina perché il suo commento era rimasto in sospeso e lo vedo solo ora.

No Sabina, il piemontese ha dieci secoli [sic] di tradizione scritta, ovvero è antico quanto l’italiano.

Dieci secoli.

Certo, il futuro appare decisamente incerto. Ma del resto ecco quel che scriveva Pinin Pacòt, uno dei “padri nobili” del piemontese di oggi, nel 1927 (traduco):

“Scriviamo il piemontese perché lo parliamo, e lo parliamo e lo scriviamo proprio con il cuore, adesso che sembra che vada perdendosi, disprezzato dagli stessi piemontesi che lo rinnegano. Se è vero che sta per morire, ebbene, noi non vogliamo che muoia! Con tutto il nostro sentimento e con tutta la nostra forza noi ci opponiamo”.

Di fatto, negli ultimi quattro secoli il piemontese si è scritto grossomodo nella stessa maniera di oggi, fatta salva una riforma ortografica negli anni Venti del secolo scorso. Ma ha una tradizione scritta *impressionante*. Solo che interessa a pochi. E quindi va sparendo.

Uno dei rischi, naturalmente, è quello cui fai accenno tu, che diventi un esercizio di stile. Per quanto mi riguarda il piemontese sono io, è la lingua in cui penso quando penso alla mia essenza, alle bambine, alle cose care e così via. Si perderà? È pienamente possibile. Ma rimane comunque la mia lingua del cuore. È un po’ come dice Erri De Luca che ti so caro:

“Considero valore quello che domani non varrà più niente, e quello che oggi vale ancora poco”.

Grazie per il tuo pensiero!

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