Another day in the office

L’altro giorno telefona un traduttore alle prime armi, molto candido per la verità. Mi dice che si è appena laureato e sta cercando di cominciare, per cui se abbiamo bisogno per traduzioni eccetera. Io gli dico che no, perché noi lavoriamo con traduttori professionisti, anche se mi rendo conto che da qualche parte bisognerà pur iniziare.

“Ma nemmeno per le revisioni?” “Eh no, le revisioni sono la stessa cosa, nel senso che vengono fatte comunque da traduttori e/o revisori professionisti”.

“Va bene, però allora se lei mi lascia un indirizzo mail nel caso in cui possa avere bisogno le mando il mio curriculum”.

Questo è l’episodio. Io questa scena l’ho già vissuta countless times e faccio qualche considerazione.

La prima è la “tenerezza” che mi fa questa persona, perché rivedo il me stesso di vent’anni fa o quasi. Quindi da questo punto di vista lo invidio.

La seconda è pratica, di lavoro: nessuno sta aspettando quella persona, o chicchessia, per aggiungere un nome al database dei traduttori. Dunque la priorità è sapersi presentare in maniera professionale e dimostrare che si può portare valore al cliente (anche parlando la sua lingua).

E in questa direzione specifica c’è molto da fare, perché troppo spesso i traduttori – e ne ho conferme continue – escono dalle scuole di traduzione ferratissimi sulla traduzione in sé ma senza la minima idea del mercato, delle persone e aziende con cui si confronteranno, a chi offriranno il loro servizio eccetera.

Non sono naturalmente obiettivo nel dirlo, ma credo che il workshop che grazie a Sabrina Tursi avevo tenuto a Pisa un paio di mesi fa sia molto utile (indipendentemente dal fatto che lo tenga io), tant’è che lo replicheremo entro fine anno a Torino e poi faremo delle altre date.

Infine grazie a questo “ragazzo” – absit iniuria verbis – per aver dato lo spunto per questa riflessione, e con l’augurio di risentirci a idee più chiare per lui e con un proposta precisa verso di me e i miei colleghi.

Commenti

Sabina ha detto:

Confermo l’utilità del seminario, se mai tu avessi bisogno di testimonial per la validità del lavoro svolto. Non sono nelle condizioni del principiante di cui sopra, ma sicuramente hai fornito degli spunti di grande interesse e un insight interessantissimo del mercato in cui operiamo, con le sue sfide e le sue opportunità.

Buona settimana.

giannidavico ha detto:

Grazie Sabina! Ho bisogno, e come!, di pareri, per cercare di migliorare l’esistente.

Peter Eustace ha detto:

Salve,
Aggiungo una mia esperienza: si presenta in ufficio una signorina laureanda, sui 25 anni, a cui dedico 10 minuti di tempo. Ad un certo punto, insegna a me (30 anni di lavoro sulle spalle) che “per tradurre bene è sufficiente un buon dizionario.” Gulp, non lo sapevo… Altro erroro da evitare: “4 lingue straniere scritte e parlate perfettamente”. Nessuno scrive e parla la propria madrelingua perfettamente per cui e ora di smetterla con il vanto per ben 4 lingue straniere….. (o 1 o 2 o 3 che siano)

Luigi Muzii ha detto:

Già, ma resta la domanda di sempre: questi ragazzi chi li aiuta? Forse l’avete dimenticato, ma in qualche modo anche noi siamo stati aiutati, da grandi o “solo” dai propri genitori; questi sono per lo più abbandonati a loro stessi. Oscar Wilde diceva che non esistono domande indiscrete, e che solo le risposte, a volte, lo sono. Fossi stato a Pisa, lo sai, avrei fatto domande “scomode”, come: “Scusi, ma il suo fatturato attuale qual è? Come si mantiene? In che misura applica quello che suggerisce a noi?” e altre. Per me aver pagato avrebbe significato allontare automaticamente da me qualunque remora, eppure sono convinto che di domande così se ne saranno sentite poche. Forse è per questo che Wilde, ancora lui, diceva che a dare risposte son buoni tutti, per fare le domande giuste ci vuole un genio. E a questi ragazzi ho l’impressione che si sia persa l’abitudine di insegnare a fare domande: non sono televisive.

giannidavico ha detto:

Qui sono necessarie alcune precisazioni.

1. I miei genitori mi hanno aiutato tantissimo – avrò sempre e comunque eterna riconoscenza per loro -, ma per quanto riguarda il lavoro ero nella stessa, medesima, identica situazione rispetto a chi inizia oggi. Né più, né meno.

2. Il mio fatturato non è un segreto. Non ritengo il caso di sbandierarlo ai quattro venti, ma non ho difficoltà a parlarne.

3. Come mi mantengo: l’ho scritto addirittura in un libro, ad imperitura memoria! Mi mantengo soprattutto grazie alla rendita di posizione dei quindici anni di lavoro passati, a regole quali la legge di Parkinson e il principio di Pareto (e a molta fortuna, naturalmente). Non è una ricetta universale (le regole, quelle sì), ma per me funziona.

4. “In che misura applica quello che suggerisce a noi?” Il complimento più bello che ho ricevuto quest’anno – e, per quel che ricordo, da molto tempo in qua – è questo: “Tu predichi bene e razzoli meglio”.

5. “Eppure sono convinto che di domande così se ne saranno sentite poche”. Logicamente, perché esulavano dal discorso.

Luigi Muzii ha detto:

Anch’io copio e incollo la risposta che ti ho dato su Facebook.

Non hai capito, ma non importa, è sufficiente non farne una questione personale.
Le domande sono perfettamente in tema.
Quando ci si propone come maestri, ed è quello che hai fatto a Pisa, bisogna offrirsi completamente e suscitare anche le domande che possono sembrare scomode. I ragazzi, invece, e non solo loro, non le fanno, ormai c’è la tendenza a non disturbare quando si dovrebbe e a disturbare quando non si dovrebbe.
Le cose, qui, sono due: o i ragazzi che arrivano da te sono tutti disperati come quello di cui parli, e allora il problema assume caratteristiche ben diverse da quelle che vorresti descrivere, o la situazione è la medesima per tutti.
Sono propenso a pensare che quest’ultima ipotesi sia la più aderente alla realtà, cioè che non tutti siano proprio messi così male, ma hanno in generale disimparato o non imparato affatto a fare domande, ad essere critici, e non solo umili, anche se troppi mancano della necessaria umiltà, e sono stanco, ma davvero stanco, di sentir gente pontificare, ma di non veder nessuno che si offre davvero per dare una mano.
L’esperienza con il Gruppo L10N, in questo senso, è stata illuminante: vogliono tutti ragazzi in gamba, perfetti, che sanno quel che vogliono, sfondino il muro del suono, e siano di poche pretese e tutti si lamentano che l’università non li prepara, dimenticando che l’università non è una fabbrica di manodopera e che, se lo fosse, i laureati avrebbero buon diritto di reclamare ben altro trattamento di quello che ricevono. La cosa peggiore, però, è che, dopo tutti questi piagnistei e queste lezioncine a buon mercato, non c’è mai nessuno che cacci una lira per la formazione che manca. Tutti lì ad aspettare che siano gli altri a fare qualcosa.

giannidavico ha detto:

Io sono abituato sia alle domande scomode che a parlare in maniera chiara. Tu fai delle osserazioni, io rispondo.

Sulla necessità di far domande sono d’accordo con te.

Sulle lezioncine a buon mercato no: il tuo discorso diventa qualunquista. Se il traduttore o in generale il professionista in erba vuole farsi strada non può dire che gli manchino le risorse o le opportunità. Certo se pretende di insegnare – come diceva Peter prima – solo perché è laureato/a, allora le cose non possono funzionare.

Luigi Muzii ha detto:

Il tuo “qualunquista” mi offenderebbe se non fossi abituato a ben altri epiteti provenienti dagli operatori del settore. Incasso e rilancio.
La “signorina” difetta proprio di quell’umiltà di cui parlavo e testimonia che spetta ad altri integrare la formazione accademica, giacché immagino che una laureanda di venticinque anni stia completando un percorso universitario ad hoc, magari proprio nella città di Giulietta in cui un imprenditore o un professionista potrebbero anche cercare di far sentire la loro voce.
In ogni caso, le sciocchezze in oggetto sono frequenti, non solo da parte di laureandi e laureati. In molti casi, l’impreparazione, massime imprenditoriale, degli imprenditori di settore è di gran lunga superiore ed è la prima causa della pessima reputazione di cui… godiamo: il pregiudizio è tanto forte da una parte quanto dall’altra.
Sono talmente tanti i “professionisti” (e gli “imprenditori”) con la pretesa di “educare” i loro clienti che non ci si dovrebbe sorprendere.
Le lezioncine, purtroppo, sono frequenti e mi sorprende che anche tu possa restar vittima della tentazione, anche se poi capisco che si possa resistere a tutto tranne che alla tentazione e che il miglior modo di liberarsene sia cedervi.

Cari Gianni e Luigi,

Mi introduco nella vostra conversazione per dire che concordo con Gianni nella sua riflessione. Non mi sembra il caso di attribuire alle agenzie il fallimento di molti di questi, laureati e non, che si affacciano alla professione del traduttore per la prima volta. Al contrario, spesso vengono aiutati, ascoltati, consigliati, messi alla prova… e almeno per quanto mi riguarda (conoscendo Gianni credo valga anche per lui) non da maestri seduti su un piedistallo, ma da professionisti che si sono fatti un mazzo enorme per avere quello che ora hanno e che vorrebbero trovare in queste persone non dico degli specializzati (questo arriva dopo) ma un minimo che spesso non c’è. E se non c’è non si può improvvisare o tirar fuori dal nulla quando il collaboratore si rivolge a un potenziale committente in cerca di un’opportunità.

Come fare a offrire lavoro a uno che scrive con errori ortografici, che non sa nemmeno presentare un curriculum o scrivere una lettera, che spara una tariffa a cartella che non trova neanche da lontano un equivalente nella tariffa a parola o a riga, che prima di contattarti non si è preso nemmeno la briga di sentire un commercialista per vedere come può iniziare a lavoratore da professionista autonomo? Internet sarebbe stato un sogno quando ho iniziato io a lavorare, eppure nonostante le opportunità che offrono le nuove tecnologie quanti cercano di introdursi sul mercato senza aver fatto nemmeno una semplice ricerca! E quanti altri senza una preparazione culturale adeguata si propongono alle agenzie come traduttori semplicemente perché hanno un’altra lingua madre e hanno perso il loro lavoro (di cassiera, donna delle pulizie, magazziniere o altro).

Chi li aiuta, dici tu? Questi ultimi, lo Stato.
I traduttori laureati, invece, penso dovrebbe aiutarli soprattutto l’Università e, visto che tu insegni, mi stupisce che questo dettaglio ti sia sfuggito. Essere un traduttore non è avere la testa piena di teoria della traduzione o aver tradotto un paio di sentenze con dei testi paralleli. È anche sapere cosa fare del proprio titolo di studio, comunque tanto sudato. È sapere che in Italia esistono diversi tipi di Partita IVA, è sapere cosa è una ritenuta d’acconto e quando viene applicata, è saper fare una fattura, sapere come comportarsi con i clienti stranieri a effetti fiscali, saper fare un preventivo senza lasciare niente al caso, è saper concordare chiaramente le condizioni di un incarico PRIMA di accettarlo, è conoscere quali sono le tariffe di mercato nei vari Paesi per le varie combinazioni linguistiche, è avere almeno un’idea di come comportarsi quando si lavora con un’agenzia e con un cliente diretto (quante volte i traduttori chiedono al cliente diretto le stesse misere tariffe che chiedono alle agenzie!), è sapere come consigliare al meglio un cliente confuso dalla burocrazia, sapere almeno che esistono a disposizione del traduttore alcuni strumenti, quali OCR, CAT, ecc… Questo, ovviamente nella mia opinione, è il minimo.
Per non parlare poi della padronanza della propria lingua madre, della punteggiatura, dell’insistenza da parte di alcuni di voler tradurre ad ogni costo verso una lingua straniera perché così “ci sono più opportunità”, del voler tradurre qualsiasi cosa, in qualsiasi settore, non importa se specializzato o no (tanto, sono le agenzie che devono poi revisionare…). Tutto questo (che ritengo sia il MINIMO per fare l’imprenditore di sé stesso) credo dovrebbe essere insegnato all’Università prima di rilasciare l’ambito titolo. In pratica, chi vuole lavorare da professionista dovrebbe arrivare sul mercato con un minimo garantito e non solo con un pezzo di carta. Dire che siamo noi a dover insegnare tutto questo, mi sembra troppo. Lo si fa, come si può e con i tempi che si hanno. Lamentare queste cose non è bacchettare, è constatare una realtà.

Gianni con le sue pubblicazioni e con i suoi corsi e seminari ha aiutato moltissimo molti affermati professionisti e penso anche i più inesperti. Se una qualità ha è proprio quella di voler comunicare quello che sa. Per aiutare. Ho sempre apprezzato in lui l’umiltà, non mi sembra che sia uno che “pontifica” o che cerca di “educare”. È un “ragazzo semplice” e sincero. 🙂 Ma io ci credo in questa sua semplicità.
Anch’io ho sempre odiato questo atteggiamento che riscontro spesso in altri colleghi del voler “educare” ad ogni costo i clienti. E lì di to pienamente ragione.
Ma non ho capito la tua allusione al fatturato o alla coerenza nell’incontro di Pisa. Quando si offre un suggerimento lo si fa, penso, in punta di piedi, perché ognuno di noi ha fatto una strada diversa e le difficoltà le troviamo tutti, nessuno escluso. Nessuno di noi ha la verità in mano e nessuno di noi siamo dei modelli da imitare in modo pedestre. Io posso offrire quello che a me è servito, e se questo può aiutare ben venga, ma poi ciascuno deve fare il proprio percorso. In seminari come quello di Gianni penso si siano offerti dei punti di riflessione. Chi può e vuole capire e provarci, ci prova. E prenderà quello che serve e rifiuterà il resto. Non è questo aiutare? E non è questo imparare? A me sembra proprio di sì. Ma come succede in qualsiasi lavoro e nella vita, le rose fioriscono se sono veramente rose. Dal nulla non fiorisce un bel niente, con aiuto o senza.

Luigi Muzii ha detto:

Cara Maria José, nemmeno all’università si insegna a presentare un curriculum, mentre a scrivere, correttamente, si dovrebbe insegnare e imparare a scuola. All’università non spetta certo insegnare a definire i propri onorari né ai docenti suggerire ai loro studenti di rivolgersi a un commercialista. Questi sono aspetti che dovrebbero curare le associazioni di categoria, semmai, che sono, però, in tutt’altre faccende affaccendate. Leggo talmente tante castronerie al riguardo su ProZ e su altri spazi del genere che mi sorprende che ci sia ancora chi si sorprende, visto che gli autori di queste castronerie dovrebbero (e il condizionale è d’obbligo) essere professionisti. Il bello e il brutto di un mercato veramente libero come questo sta proprio nel fatto che tutti possono proporsi e che, in teoria, la selezione naturale dovrebbe fare il resto.
Lo Stato, perciò, lasciamolo stare: il danno maggiore che la concezione assistenzialista ha fatto a questi ragazzi è proprio nell’attribuire valore legale al titolo di studio. Ma rischiamo di divagare.
L’università non forma competenze, ma conoscenze. Le competenze si formano con l’esperienza e la formazione post-lauream e qui devono intervenire i datori di lavoro. Questi, però, prima si riempiono la bocca di paroloni (e di norme, dalla UNI 10574 alla EN 15038 che prevedevano entrambe l’onere della formazione per i datori di lavoro), poi piagnucolano come bambinetti.
Tu e Gianni parlate a valle di un’esperienza fatta sul campo, quasi aveste dimenticato i vostri inizi, che io cerco di tenere sempre presenti. Tradurre, trent’anni fa, era davvero faticoso; oggi lo è molto meno e questa sopravvenuta leggerezza induce comportamenti che ci appaiono intollerabili.
Quanto a Gianni, credo non abbia bisogno di un avvocato d’ufficio, tanto meno con me. Sono rimasto molto, molto sorpreso di quel che ha scritto e, ancora una volta, come sempre, ho espresso il mio pensiero nel modo più franco e diretto di cui sono capace.
Le domande che ho scritto avrei fatto a Gianni fossi stato a Pisa, e Gianni, conoscendomi, sa che le avrei fatte, a lui come e forse di più a chiunque altro, sono quelle che sollecito i miei studenti a fare sempre, a me e ad altri. Se pago per partecipare a un evento formativo voglio verificare, sul campo, l’attendibilità dell’oratore; è quello che invito i miei studenti a fare, ma che raramente vedo fare, come se non si volesse “mettere in imbarazzo” l’oratore. Mi dispiace, ma secondo me non funziona così. La trasparenza è l’unica cosa che ci può ancora salvare, ma che manca come il pane a Venezia.
Aiutare è offrirsi, lo dico avendolo fatto. Imparare è aprirsi, e io mi sforzo di cercare di imparare costantemente. So bene che molti non ci si provano, ma non è utile rilevare solo comportamenti che disapproviamo, anche se questo è il tratto tipico della categoria, caratterizzata da orbi alla costante ricerca della pagliuzza nell’occhio altrui.

P.S. Anche dai diamanti non nasce niente, e dal letame nascono i fiori.

giannidavico ha detto:

Luigi, io il discorso della trasparenza proprio non lo capisco. Sarebbe come dire che mi nascondo dietro a un dito! In base a che cosa dici questo? Mi sono messo in gioco da sempre in questo mestiere cui sono arrivato per caso.

Maria José ha espresso molti concetti con cui sono d’accordo al 100%. Cose molto pratiche, dirette. Nessun volo pindarico, nessuna pontificazione: ma solo partita IVA, scrivere un CV eccetera.

(Sia detto tangenzialmente, io a scrivere in maniera tecnica ho imparato facendo la mia tesi, non prima.)

E le domande difficili non mi mettono in imbarazzo – ma figuriamoci! Io dico la mia, e pare che a qualcuno interessi o serva. Tu Luigi ti stupisci perché racconto un episodio? Perché dico quello che a parer mio ne consegue?

E poi quando dici che i datori di lavoro dovrebbero formare non ti seguo. Perché dovrebbero? I miei datori di lavoro non si sono mai sognati di formarmi, né io l’avrei pensato o preteso.

(Io comunque trent’anni fa facevo terza media, per la cronaca.)

Luigi Muzii ha detto:

Caro Gianni, trent’anni fa io mi guadagnavo i primi soldi facendo traduzioni per paghe da fame. Mi ero “abituato” a percepire uno stipendio più che decoroso e non volevo pesare sui miei. Di certo, allora, non avevo idea di come propormi professionalmente, né mi fu insegnato a farlo dopo, anche quando frequentavo una scuola il cui dichiarato obiettivo era quello di formare professionisti.
Tu continui a pensare che le mie osservazioni siano personali, siano cioè rivolte a te, e continui a sbagliare. Io sono stupito di leggere quello che leggo, perché è quello che mi aspetterei da altri, non da te. Transeat.
Resto dell’idea che non spetti all’università formare al lavoro, o alla “professione”, anche perché considero la traduzione un mestiere. Trovo ridicolo che, nel 2011, ci siano fior di sedicenti professionisti, con anni e anni di esperienza incapaci di usare gli strumenti basilari, scrivere un curriculum efficace, un’offerta vincente. Non mi stupisco, quindi, che ci siano giovani come quello che hai incontrato, e come quelli che, evidentemente, a giudicare dalle tue parole, incontri e come te incontra anche Maria José. Se non altro, loro hanno ancora ampi margini di miglioramento.
Molti dei miei studenti non sanno a chi chiedere di partita IVA o di curriculum ed è normale che sia così. Dubito che uno studente di ingegneria, di medicina, di giurisprudenza o di architettura lo sappia solo per via del corso di studi. A meno che paragonare di continuo la traduzione alle professioni liberali non sia una sesquipedale sciocchezza, come appunto credo.
Molte domande mi rendo conto che non mi vengono poste per timore di imbarazzarmi e questo mi indispettisce, perché quello che ripeto ai miei studenti è di non considerarmi il Verbo, anzi, e di fare altrettanto anche con i miei colleghi. Le domande sono ciò da cui possono imparare, come gli errori, gran maestri, o no?
I datori di lavoro devono formare i prestatori d’opera, nell’interesse di entrambi, per la produttività e la sicurezza. Se le aziende assumessero solo personale esperto, il nostro sarebbe un paese bloccato. Ooops…
Quanto alla redazione tecnica, io ho imparato proprio in azienda: ho capito che potevo riqualificarmi e ho chiesto di poterlo fare rinunciando a modeste gratifiche economiche, ancorché più facili da ottenere e comunque ricercate. Il mio libro è la testimonianza del mio percorso, come lo è “L’industria della traduzione”.
Quindi io non mi stupisco che racconti un episodio, ma che ne tragga conclusioni generali che ritengo del tutto inappropriate e, quelle sì, qualunquista.

Gianni Davico ha detto:

Quindi, riassumendo, il tuo punto è: spetterebbe alle aziende fare formazione.

È così? Capisco bene? O continuo a sbagliare?

Se è così, questo che cosa significa, in pratica? Al di là di quello che possiamo dirci noi, che cosa significa per quel tanto bistrattato neolaureato e per tutti i suoi colleghi che fanno fatica?

Io personalmente penso che le occasioni di formazione ci sono, e come – solo che magari non hanno il cartellino sopra, non sono così evidenti e insomma vanno cercate.

Non saranno loro a cercare noi, tutto qui. E penso anche che ciò sia vero a prescindere da qualunque epoca, crisi eccetera.

Gianni Davico ha detto:

Un altro punto, Luigi, vorrei aggiungere alla questione della formazione: qualche anno fa proposi un corso presso una scuola di traduzione in cui si insegnasse a scrivere un CV, si parlasse di prezzi, mercato e così via.

Non se ne fece nulla. Perché la teoria sì e la pratica no?

Luigi Muzii ha detto:

Sì, penso che spetti alle aziende fare formazione. Se vogliono risorse giovani e motivate, oltre che più a buon mercato devono accettare di formarle.
Quando lavoravo in azienda mi occupavo anche di formazione e le aziende per cui lavoravano acquistavano corsi a catalogo per formare i dipendenti sui vari strumenti di lavoro che di volta in volta acquistavano e tenevano corsi interni per la formazione specialistica.
Le “imprese” di traduzione vogliono fare le nozze con i fichi secchi. Si può, certo, ma bisogna anche essere preparati alle conseguenze e accettarle, cosa che, invece, non fanno.
Negli altri settori, si vede dopo aver prodotto, in questo no. In pratica, gran parte del rischio di impresa viene azzerato. Che almeno le “imprese” sostengano l’onere della formazione visto che non rinunciano alla loro “indipendenza”, anche se questa impedisce di raggiungere la massa critica necessaria a sostenere la competizione su larga scale e a diventare davvero imprese, con relativa forza lavoro stabile.
Le “imprese”, a cominciare da quelle italiane, potrebbero cominciare a organizzare corsi di formazione per i loro collaboratori e per quelli che desiderano diventarlo. Sarebbero occasioni di fidelizzazione reciproca e investimenti produttivi.
I seminari che proponevamo come Gruppo L10N potevano essere acquistati dalle “imprese” o commissionati su misura. Operavamo sul semplice recupero dei costi, era conveniente, ma evidentemente l’attributo di “pidocchiosi” che, da allora, associo alle imprese operanti sul mercato italiano in fondo è azzecato ancorché, capisco, sgradevole.
Intendiamoci, ci sono anche operatori piccini piccini (e non solo per fatturato e dimensioni) che usano la formazione come occasione di visibilità. Va bene anche quella, per carità, ma poi non si deve piagnucolare: anche in quel caso gli effetti, immediati e di breve-medio termine sono facilmente prevedibili.
In conclusione, mia nonna diceva che se volevi una cosa fatta bene, dovevi fartela da te e questo vale tanto per l’aspirante o il sedicente affermato “professionist” quanto per l'”impresa”. Il primo vuole imparare? Deve darsi da fare e cercare le occasioni. La seconda vuole risorse affidabili? Deve darsi da fare e formarle.
Lo so, il rischio che, una volta formate quelle risorse vadano altrove c’è, ma fa parte del gioco: una vera impresa non può fermarsi lì, deve saper fidelizzare le risorse. Allo stesso modo, formarsi per il singolo può significare non ottenere riscontri immediati: il sapere è un capitale con rendita di lungo periodo.
Infine, sai perché la tua proposta di insegnare a scrivere un curriculum, parlare di prezzi, mercato e così via non si è concretizzata? Perché l’idea è che chiunque possa farlo. Si dice che la traduzione sia il secondo più antico mestiere del mondo; forse è per questo che in tanti pensano di saperlo fare o, almeno, come si debba fare. Lo stesso vale per le cose che proponevi.
All’ultimo convegno EUATC a Roma, Inger Larsen ha fatto presente che solo nei curriculum di italiani, spagnoli e francesi il percorso scolastico è dominante, e prolisso e che il cosiddetto formato europeo è generalmente inviso. Eppure, ancora ieri, una laureanda che è venuta timidamente a chiedermi se potevamo parlare delle cose di cui stiamo parlando qui, mi ha detto che, a un altro convegno al quale aveva assistito, psicologi del lavoro insistevano sull’uso del formato europeo e il percorso scolastico. Per inciso, anche sulla patente europea del computer, che ormai gli italiani sono rimasti i soli a considerare utile. Secondo te perché gli esperti dispensano questi consigli? Io credo anche perché riscontrano certe attese nelle imprese, e anche questo la dice lunga sul perché il nostro Paese e il mercato italiano stanno messi così male.

Gianni Davico ha detto:

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Che almeno le “imprese” sostengano l’onere della formazione visto che non rinunciano alla loro “indipendenza”.
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Perdonami, ma l’esempio di formazione che fai tu (suppongo tu ti riferisca alla Telecom) non è paragonabile in nessuna maniera con aziende che fatturano 100 o 200 mila euro l’anno. Proprio non funziona da un punto di vista pratico, non è pensabile.

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Le “imprese”, a cominciare da quelle italiane, potrebbero cominciare a organizzare corsi di formazione per i loro collaboratori e per quelli che desiderano diventarlo. Sarebbero occasioni di fidelizzazione reciproca e investimenti produttivi.
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Devo parlare nuovamente di me. Quando avevo dipendenti ho sempre incoraggiato la loro formazione (pagata da me). Nel mio piccolo, quel che potevo. Ricordo ad esempio una mattinata in cui avevo invitato una collega americana, amica cara, a parlarci di marketing, rapporti con i traduttori eccetera. Cose del genere credo siano normali e penso che più o meno tutti i colleghi le facciano. Ma fare formazione ai collaboratori potenziali… nel migliore dei mondi possibili forse, ma in questa vita non credo sia pensabile (né logico, peraltro).

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I seminari che proponevamo come Gruppo L10N potevano essere acquistati dalle “imprese” o commissionati su misura. Operavamo sul semplice recupero dei costi, era conveniente, ma evidentemente l’attributo di “pidocchiosi” che, da allora, associo alle imprese operanti sul mercato italiano in fondo è azzecato ancorché, capisco, sgradevole.
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Magari era conveniente dal tuo punto di vista ma (forse) non da quello opposto.

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In conclusione, mia nonna diceva che se volevi una cosa fatta bene, dovevi fartela da te e questo vale tanto per l’aspirante o il sedicente affermato “professionist” quanto per l'”impresa”. Il primo vuole imparare? Deve darsi da fare e cercare le occasioni. La seconda vuole risorse affidabili? Deve darsi da fare e formarle.
— quote —

E perché non “comprare” professionalità già acquisite? Non ti seguo su questo punto. Se parliamo di traduttori professionisti (escludiamo quelli che io definisco “zucconi”) la lingua è comune e non servono tante parole. Quale formazione? Un professionista offre un servizio, è qualificato per farlo, viene pagato. Fine.

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Infine, sai perché la tua proposta di insegnare a scrivere un curriculum, parlare di prezzi, mercato e così via non si è concretizzata? Perché l’idea è che chiunque possa farlo. Si dice che la traduzione sia il secondo più antico mestiere del mondo; forse è per questo che in tanti pensano di saperlo fare o, almeno, come si debba fare. Lo stesso vale per le cose che proponevi.
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Questa è la tua opinione, Ma io, del tutto immodestamente, ritengo di essere *molto* qualificato per cose del genere, e credo anche che il libro, i seminari, gli interventi pubblici eccetera lo provino. A mio modo di vedere il problema è sempre il medesimo: un corso che si chiama “Teoria della traduzione” (faccio per dire) è vendibile e attraente, mentre parlare di quanto chiedere al cliente pare brutto.

Luigi Muzii ha detto:

Caro Gianni, perdonami tu, ma ho l’impressione che continui a farne un caso personale e a generalizzare partendo da questo.
Non ho lavorato, fortunatamente, solo in TELECOM, che peraltro allora era quattro volte quella di oggi, per fatturato e dimensioni, ma anche in aziende più piccole e avuto contatti con aziende di diverse dimensioni e impegno e posso testimoniare che l’approccio era identico.
La verità è che le “imprese” di traduzione non sono aziende ed è questo il problema, innanzitutto per concezione e visione. Un’azienda che fattura anche 200 mila euro l’anno non è un’azienda, è meno di un’officina. E, ripeto, è innanzitutto questo il problema.
Nell’ottica da officina, è ovvio che non si parli di formazione, ma non si parla nemmeno di marketing e cose del genere. A differenza di un’officina, per esempio meccanica, però, l'”impresa” di traduzione si avvale di personale esterno che considera e tratta alla pari di dipendenti/collaboratori. Perdonami, di nuovo, ma io non ce lo vedo il mio meccanico offrire ai suoi collaboratori un rapporto di lavoro, senza contratto, magari con un “PO”, basato sul numero di bulloni che stringono, di candele che cambiano, di filtri che sostituiscono e così via. Né credo che quei collaboratori accetterebbero niente di meno di stipendio e orario fissi, anche in nero, magari, e magari con la prospettiva di aprire un’officina per conto loro. Nè credo che il titolare dell’officina direbbe ai suoi collaboratori di portarsi gli attrezzi da casa la mattina o di pagarsi il corso di aggiornamento; magari lo farebbe lui e poi trasmetterebbe loro le conoscenze acquisite. Non credo nemmeno, per finire, che lascerebbe lavorare da solo un nuovo assunto, ma gli affiancherebbe un meccanico esperto per insegnargli i trucchi del mestiere.
Quindi, perdonami di nuovo, ma credo che quello che ipotizzo sia non solo pensabile, ma logico e realistico e che sia piuttosto un’anomalia il contrario.
Può anche darsi che fossi il solo a vedere la convenienza dei seminari del Gruppo L10N, certo però allora non mi spiego com’è che molti ne lamentino l’assenza o non abbiano mai proposto alternative, né suggerito correttivi e come mai in Italia si faccia così poca formazione, almeno stando alle lagnanze che continuo a sentire, anche se poi i rari eventi vedono generalmente un pubblico sparuto. Mi viene in mente l’LTAC come esempio recente: evento gratuito su un tema apparentemente sentito, con oratori di eccellenza, al quale però hanno preso parte diversi studenti, non solo del mio ateneo, ma pochissimi e “professionisti” e ancor meno “imprenditori”.
E veniamo alla madre di tutte le domande. Perché non “comprare” professionalità già acquisite? Perché costano, e tu lo sai, e tanto, almeno se sono vere professionalità, ma gli “imprenditori” da officina non possono permettersele e non vogliono comunque spendere per “comprarle”.
Credo di essere ugualmente qualificato eppure non mi sembra che sia questo l’argomento in discussione, almeno non quello che ho posto io e non capisco perché avverta l’urgenza di porlo tu. Non è “brutto”, come dici tu, “parlare di quanto chiedere al cliente”, anzi. L’ITI lo fa regolarmente, come l’ATA; sui forum non si parla praticamente d’altro. Perfino alcune università affrontano la questione, anche se, come è logico, non all’interno di corsi curriculari. La domanda che molti “imprenditori” e “professionisti”, invece, dovrebbero farsi è: come mai le aziende di settore più floride e grandi non sono guidate da cosiddetti “linguisti”? Una risposta si trova proprio nei forum ed è che molti “imprenditori” e “professionisti” preferiscono pensare a se stessi in altro modo piuttosto che in termini di business.

Gianni Davico ha detto:

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ho l’impressione che continui a farne un caso personale e a generalizzare partendo da questo.
— unquote —

E come potrei fare diversamente? Mi baso sulle cose che conosco, ovvero parto da me e da quello che mi sta intorno.

— quote —
La verità è che le “imprese” di traduzione non sono aziende ed è questo il problema, innanzitutto per concezione e visione. Un’azienda che fattura anche 200 mila euro l’anno non è un’azienda, è meno di un’officina.
— unquote —

In un mercato frammentato e senza barriere all’ingresso non puoi aspettarti dei colossi.

— quote —
Nell’ottica da officina, è ovvio che non si parli di formazione, ma non si parla nemmeno di marketing e cose del genere.
— unquote —

Io quando ho cominciato (prima di Internet) ho mandato per tre anni diecimila lettere all’anno ad aziende italiane ed estere, con criteri desunti dai testi sacri del direct marketing. Lo ritenevo il miglior approccio possibile per farmi conoscere. Perché in aziende piccole non si dovrebbe parlare di marketing?

— quote —
io non ce lo vedo il mio meccanico offrire ai suoi collaboratori un rapporto di lavoro, senza contratto, magari con un “PO”
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Ma non stiamo parlando della stessa cosa: un conto è chi lavora all’interno, un conto è il professionista esterno. Non sono paragonabili in nessuna maniera.

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E veniamo alla madre di tutte le domande. Perché non “comprare” professionalità già acquisite? Perché costano, e tu lo sai, e tanto, almeno se sono vere professionalità, ma gli “imprenditori” da officina non possono permettersele e non vogliono comunque spendere per “comprarle”.
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Io a Pisa ho parlato anche di questo. Facendo un esempio specifico ho detto quanto pagavo un traduttore e quanto prendevo dal cliente, ho spiegato perché ritenevo che per me fosse più conveniente pagare di più in cambio di un servizio completo eccetera. È un concetto di cui ho parlato per anni, l’idea che spendere di più vuol dire alla fine spendere di meno. Io sono ben felice di pagare di più un fornitore che mi risolve dei problemi!

Luigi Muzii ha detto:

Se i tuoi ragionamenti parto da te e da quello che mi sta intorno sono ben poca cosa. Lo sarebbero anche i miei se partissero solo da me e da ciò che mi sta intorno. La realtà è molto ma molto più ampia e il primo aspetto che ho affrontato in questa discussione e che tu riproponi adesso come fosse la pietra filosofale è proprio quello della frammentazione. Il meglio e il peggio di questo mercato è proprio la sua totale libertà, il fatto che sia totalmente deregolamentato. Dovrebbe essere una pacchia per i liberisti veri, e invece ogni giorno si scoprono che i liberisti in questo settore, e non solo, sono capaci di esserlo solo per quello che li avvantaggia, non che li penalizza, contro cui cercano sempre un ombrello sotto cui trovare riparo. Del resto è la storia anche della cosiddetta grande imprenditoria italiana.
I colossi, nel settore, ci sono eccome. Non in Italia, però e appunto. Le ragioni sono quelle che ho cercato di evidenziare fin qui, ma mi sembra uno sforzo vano. Colossi si diventa rischiando (quindi investendo) o per fusione e mi pare che fin qui esempi italiani di questo tipo si possano contare sulle dita di una mano.
Quello che citi come esempio di marketing chiunque abbia fatto qualche studio al riguardo potrebbe confermarti che è inefficace, con indice di successo inferiore all’1%, ed è proprio lo stesso approccio che utilizzerebbe il mio meccanico: qualche volantino, magari nel quartiere, un’inserzione sulle pagine gialle, il passaparola e, magari, la locandina nella vetrina di qualche negozio compiacente. Il marketing che il titolare di una piccola officina di quartiere può praticare è davvero poca cosa per disponibilità di mezzi e capacità, e la massa critica di cui parlavo serve anche a questo. Quindi, mi dispiace, perdonami, ma stiamo proprio parlando della stessa cosa: questo settore è anomalo proprio perché la forza lavoro è esterna.
Quanto ai compensi, compresi quelli che corrispondi tu, la maggior parte dei professionisti che conosco li considera inadeguati e pagare un po’ più della media non basta a fidelizzare un collaboratore. La prima società italiana del settore vanta un fatturato di circa 35 milioni di euro e 300 dipendenti, molti dei quali con contratto cosiddetto “atipico”. Il rapporto fatturato/dipendente, quindi, indica che il fatturato sarebbe appena sufficiente a pagare gli stipendi, ma vanta oltre 3000 collaboratori sparsi in tutto il mondo. Vogliamo parlare di questo? Di come facciano lei e le altre “imprese” a sopravvivere?

Luigi Muzii ha detto:

P.S. Trovo più onesto, per concludere, dire: guarda, ragazzo, quello che puoi imparare da me è a sopravvivere quindi, a meno che a te non vada bene, non considerarmi come maestro. Se, però, a muoverti non è il desiderio di guadagnarti da subito da vivere dignitosamente con questo lavoro, allora possiamo parlarne. Cominciamo da una domanda chiave: hai nessuno che ti possa sostenere?

Gianni Davico ha detto:

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Dovrebbe essere una pacchia per i liberisti veri [ecc.]
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Tiri in ballo la filosofia, io ti parlo di aspetti pratici. Non parlo di massimi sistemi, di Berlusconi, del migliore dei mondi possibili eccetera, parlo delle cose che capitano (e non solo di me, e suffragate da numeri – e i numeri non sono opinioni, e la matematica è un fondamento dell’universo).

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I colossi, nel settore, ci sono eccome. Non in Italia, però e appunto.
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Permettimi di risponderti con una battuta presa in prestito a Renato: “In Italia è diverso!” 🙂
Le cose sono così da noi come sono così dappertutto, l’animo umano è uno e non muta. Negli Stati Uniti le cose stanno *esattamente*, _c’est a dire_ al 100%, come in Italia.

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Colossi si diventa rischiando (quindi investendo) o per fusione
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Colossi si diventa in tante maniere. Liz Elting ha creato Trasperfect nella stanza del fidanzato al college.

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e mi pare che fin qui esempi italiani di questo tipo si possano contare sulle dita di una mano.
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Sono d’accordo. Io non ho il talento imprenditoriale necessario, ma a trent’anni circa investii un bel po’ di soldi che non avevo sognando di creare una struttura grande, piena di traduttori, di PM e compagnia bella. Non ci sono riuscito probabilmente perché mi sono mancate le capacità, ma forse anche perché – in piccola parte – le condizioni intorno a me non erano favorevoli rispetto a un imprenditore disposto a rischiare.

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Quello che citi come esempio di marketing chiunque abbia fatto qualche studio al riguardo potrebbe confermarti che è inefficace, con indice di successo inferiore all’1%
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Caro Luigi, un tasso di risposta dell’1% in una campagna di direct marketing degli anni Novanta è un successone, da qualunque punto di vista lo si guardi. (Il mio fu dell’1,56%.)

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Il marketing che il titolare di una piccola officina di quartiere può praticare è davvero poca cosa per disponibilità di mezzi e capacità, e la massa critica di cui parlavo serve anche a questo.
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Qui Luigi, lasciatelo dire, ti manca il contatto con la realtà, che è quella dell’imprenditore che investe soldi *suoi*, non teoria di professori.

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Quindi, mi dispiace, perdonami, ma stiamo proprio parlando della stessa cosa: questo settore è anomalo proprio perché la forza lavoro è esterna.
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?

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Quanto ai compensi, compresi quelli che corrispondi tu, la maggior parte dei professionisti che conosco li considera inadeguati e pagare un po’ più della media non basta a fidelizzare un collaboratore.
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Da Gianni non è così. Altrove, ignoro.

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La prima società italiana del settore vanta un fatturato di circa 35 milioni di euro e 300 dipendenti, molti dei quali con contratto cosiddetto “atipico”. Il rapporto fatturato/dipendente, quindi, indica che il fatturato sarebbe appena sufficiente a pagare gli stipendi, ma vanta oltre 3000 collaboratori sparsi in tutto il mondo. Vogliamo parlare di questo? Di come facciano lei e le altre “imprese” a sopravvivere?
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Io parlo delle cose che conosco; della struttura di Logos non ho certo titolo a parlare.

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Trovo più onesto, per concludere, dire: guarda, ragazzo, quello che puoi imparare da me è a sopravvivere quindi, a meno che a te non vada bene, non considerarmi come maestro. Se, però, a muoverti non è il desiderio di guadagnarti da subito da vivere dignitosamente con questo lavoro, allora possiamo parlarne. Cominciamo da una domanda chiave: hai nessuno che ti possa sostenere?
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Luigi, qui sei fuori strada *completamente*.
Onesto??? Ma stiamo scherzando?
Sostenere???
Sostenere?

Luigi Muzii ha detto:

Caro Gianni, io non faccio filosofia, parlo di cose concrete, di realtà che vedo, esamino e metto a confronto con altre. Molte delle affermazioni che hai appena formulato sono prossime all’offesa personale e mi rifiuto di rispondere perché non offri argomenti a sostegno. Se pensi che lo sia “In Italia è diverso!” ti dirò quello che ho detto anche a Renato: per lui è colore, per un italiano solo una scusa, anche piuttosto banale e ipocrita. Basterebbe proprio l’esempio di Liz Elting per dimostrare quello che sostengo: di lingue e traduzione non sapeva un accidenti né le interessava; aveva trovato una nicchia di business e da buona laureanda di economia ne ha approfittato. E oggi Trasperfect è generalmente portata come esempio, ma non esattamente positivo.
Soldi miei ne ho investiti anch’io, mio caro, e proprio miei, ho fatto le mie esperienze imprenditoriali e so di cosa parlo. Lascia perdere, è meglio.
Onestà è parlare alle persone in modo chiaro, senza paternalismi, ambiguità o facendo di casi personali, unici e irripetibili, un esempio generale. Il resto sono chiacchiere da intellettuali o, appunto, casi isolati, come la decrescita, la barca a vela, il ritorno alla terra ecc., e le chiacchiere stanno a zero.

Gianni Davico ha detto:

> Molte delle affermazioni che hai appena formulato sono prossime all’offesa personale

Mamma mia! Siamo arrivati a questo punto?
Mi spiace che tu ti senta offeso: da ieri rispondo puntualmente alle tue osservazioni, e questo blog è un luogo per discutere e confrontarsi e – sperabilmente – imparare qualcosa. Però penso che chi si sente offeso dalle mie parole dovrebbe – forse – prendersi meno sul serio.

> Basterebbe proprio l’esempio di Liz Elting per dimostrare quello che sostengo: di lingue e traduzione non sapeva un accidenti né le interessava; aveva trovato una nicchia di business e da buona laureanda di economia ne ha approfittato.

E perché avrebbe dovuto interessarsi di lingue? Il mestiere dell’imprenditore non è fare le cose, ma farle fare traendoci un profitto.

> Lascia perdere, è meglio.

Obbedisco! 🙂
Mamma mia però quanto sei suscettibile!

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