Tornare al mio rifugio tra i monti in dicembre è difficile, per via del freddo, della luce scarsa e dell’acqua in casa che, d’inverno, non c’è. (Già, nel mio paese d’adozione le stagioni hanno il loro ritmo naturale e lo seguono qualunque cosa accada, “in direzione ostinata e contraria”, per così dire – ma contraria a cosa, poi?)
Essere lassù è per me una necessità quasi fisica ormai. Essere in un luogo dove il silenzio è la condizione naturale, dove ci si scalda con il fuoco. Dove si respira. Raccogliere da terra le ultime pere, raccogliere i rami per il fuoco, camminare per davvero su quella terra. Mettere via la legna per l’inverno prossimo venturo.
Siamo andati dal nostro pusher di fiducia per la frutta e la verdura: abbiamo fatto il pieno di mele, pere, kiwi, cavolfiori, porri (“Ij pòr son nen bon, i-i mangio ij verm”, ci avvisa; d’altra parte i porri riempiti di chimica non hanno vermi, questo è pressoché certo). E io non posso non pensare a quella frutta di plastica che si trova in quegli scatoloni giganti e che troppe volte siamo costretti a mangiare.
Certo in quelle terre di silenzio ti mancano tante cose, d’inverno. Ma a volte basta un saluto, o magari una veloce chiacchierata con un giovane che rimane lassù per capire perché quella terra voglio trattarla bene: perché voglio lasciarla a posto per chi verrà dopo.
Guardare la linea delle montagne quando si fa notte, e pensare con struggente nostalgia e dolcezza a quanto tempo dovrà passare per essere di nuovo lassù. Respirare.
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Ij pòr son nen bon, i-i mangio ij verm: http://t.co/Jt39lTXXok [una risposta all’inverno che, da molte parti, vedo venire]