Come sono uscito dalla depressione

Sono stati anni difficili. Gli ultimi cinque anni, per me, sono stati molto complicati sia dal punto di vista personale che lavorativo. Non entrerò nei dettagli dei fatti miei dicendo cose che non interessano a nessuno, ma vorrei offrire qualche spunto di riflessione che magari potrebbe essere utile a qualcuno che si è trovato, si trova o si troverà in condizioni simili alle mie.

Per prima cosa, devo dire che non sono nemmeno sicuro che la mia malattia si possa etichettare come depressione. Probabilmente dal punto di vista clinico questo non è vero; è il nome che le ho dato per semplicità. Però ho sguazzato per quelle mi sono sembrate ere geologiche in un’apatia triste e funerea, mi sono trascinato nel mio brodo fatto di pensieri negativi, tristezza perenne e sguardo spento. Per lungo tempo è stata quasi come una sorta di amica, una compagna di vita da cui non volevo separarmi. Del resto non era Michelangelo che diceva (anche se credo parlasse di tutt’altro) “del mio male io ne sto assai bene”?

Per uscirne, non è servito nessuno dei metodi tradizionali.

Non è servita la psicoterapia, che sarebbe il rimedio classico: sono stato in tempi diversi da due diverse psicologhe, entrambe bravissime; ma dopo un po’ di tempo il raccontare i fatti miei mi sembrava un esercizio del tutto vacuo e ho lasciato perdere.
Non sono serviti gli psicofarmaci. O meglio sarebbero serviti, Ma la sensazione che mi lasciavano era questa: anche se psicologicamente mi sentivo meglio, razionalmente capivo che era una situazione fasulla, indotta, che non mi avvicinava di uno iota alla soluzione.

Sono quattro gli ingredienti che sono serviti: l’amore e l’attività (i due principali), lo scriverne e infine il parlarne con un amico stretto confidente (i due ancillari, per così dire).

È servito l’amore, in particolare l’amore di due persone che in maniera molto diversa mi sono molto vicine; e in senso più allargato l’amore di altre persone che comunque tengono a me. Senza amore continuativo nulla sarebbe successo.

È servita l’attività, ovvero il fatto di sentirsi utili, di poter lasciare in qualche maniera il proprio piccolo segno nel mondo. Non è questione di soldi, o meglio: non è che il denaro non sia importante (perché lo è, ovvio), ma è secondario rispetto all’esistere, appunto al lasciare un segno – per quanto minimo – del proprio passaggio. Al fare per il semplice fare, autotelicamente fare e basta.

È servito lo scriverne, perché scrivere vuol dire pulire i pensieri o almeno cercare di farlo, tentare di tenerli ordinati, mettere un po’ di ordine nel guazzabuglio che è la propria testa.

Sono serviti i vocali scambiati per anni con un amico molto paziente, che non si è mai, mai, mai stufato delle mie paturnie e delle mie lamente, mi ha strigliato quanto lo riteneva opportuno e comunque è sempre stato dalla mia parte, evitando di giudicarmi ma anzi sostenendomi sempre.

A questi quattro ingredienti fondamentali va aggiunto il collante, ciò che ha tenuto tutto insieme e mi ha permesso di non lasciarmi andare quando, dal mio punto di vista, ne avrei avuta piena ragione: l’accettazione e la pazienza. Che non significano sopportazione passiva degli avvenimenti (anche se io per natura tendo a essere piuttosto passivo), ma vogliono dire che la luce in fondo al tunnel esiste anche quando non si scorge lucore alcuno.

Ora mi considero guarito, ma non la credo una vittoria definitiva; perché la mia natura pavesiana e malinconica è sempre in agguato, e domani potrei ricadere nella disperazione del passato. Però mi è chiaro che questi quattro ingredienti, due principali e due secondari (ma non meno importanti), mi hanno aiutato a uscire da un tragico tunnel. 

Commenti

Riccardo ha detto:

Cerea Gianni. Is soma pi nen sentusse da cand it l’has sarà lë scartari an lenga, ma ëd tansantan i passo a vëdde le neuve.
I savìa nen dij tò problema e i son content ch’it sie tirat-ne fòra. Për tansipòch ch’a serva, s’a-i é cheicòs ch’i peuss fé, mi i-j son. Adess it l’ha ëdcò mia neuva adrëssa eletrònica.

A l’arvista!
Riccardo

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