Perdonare, percolare, passare oltre

Sono stato oggi pomeriggio nel luogo che per tanti anni è stata la mia seconda/prima casa, luogo che ho a lungo sognato diventasse la mia vera casa, luogo dove sono passate generazioni della mia famiglia.

E sì, avevo ben presente l’insegnamento di Augusto Monti, “non tornare a Monesiglio”; sapevo a cosa sarei andato incontro ma ero nei paraggi e la tentazione è stata troppo forte. E ancora sì, sapevo che sarebbe stato doloroso, ma sapevo anche che prima o poi avrei dovuto fare i conti con questo passato così pesante e così gioioso.

In sostanza sono arrivato lì, e vedevo questo gruppo di case e non lo riconoscevo quasi più: le porte divelte, le finestre staccate, i pavimenti profanati, i tetti rifatti. Un cantiere. La vita che scorre, com’è giusto che sia. Mi sono avvicinato con circospezione a quel luogo per me sacro, ed ero del tutto incredulo – anche se nulla di quanto vedevo mi stupiva, in realtà.

Però dentro di me pensavo: dove sono tutti i segni di trentanove anni di vita?

Già, perché nello stesso tempo avevo davanti agli occhi in questo cortile un milione e mezzo circa di immagini felici della vita mia e della mia famiglia (come ho scritto più volte e sempre pensato i pensieri dolorosi non sono mai arrivati fin quassù, anzi arrivare alla Piatta è sempre stato un modo sicuro per allontanarmi da qualunque maleur): le mie figlie che qui sono cresciute, una teoria lunghissima di persone che hanno composto la famiglia paterna e soprattutto materna, insomma la vita che è scorsa per generazioni.

E quindi, rivolgendomi immaginariamente ai nuovi proprietari (che non conosco) pensavo: come avete osato? (Anche se poi l’intruso, dal punto di vista legale, ero io; io che non avevo nessun titolo per essere lì. Eppure c’ero.)

Ora questa casa, questi tetti, sono probabilmente un nuovo sogno e un nuovo progetto di qualcuno, diventeranno una nuova casa per un’altra famiglia che vi verrà, suppongo, ad abitare.

Ma io mi tengo i miei ricordi.

Oggi ho fatto i conti con una parte fondamentale del mio passato, e al mio fianco c’era Eduardo (“Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”), c’era Ligabue (“Quando la ferita brucia la tua pelle si farà / sopra il giorno di dolore che uno ha”); c’ero io a dieci anni, nell’estate del 1978 quando ci sono arrivato, e io a quarantanove, a fine 2016 quando ho lasciato quel luogo.

Andare lassù è stato mettere a nudo, a fuoco quel groppo in gola che non va né su né giù. Lo dovevo fare. Lo volevo fare. L’ho fatto. Da ora in poi quel luogo non è più un luogo fisico, ma diventa ricordo, immagine, sogno, storia, mito.

Oggi ho fatto pace con quel mio passato, con quei trentanove anni di vita. Ho fatto pace anche con il nostro padrone di casa, che non si comportò bene con noi: lui è morto e non poteva più rispondermi, ma io sono andato a cercarlo al cimitero per perdonarlo. Pace.

E tutto questo mi basta, va bene così.

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