Ci stai accanto senz’ombra e col sorriso
di chi ha creato un lento paradiso.
(Nelo Risi, Non vogliamo ricordarti, vv. 1-2)
Alle Rosine è morto un signore molto anziano, ieri.
No, devo partire da un po’ più lontano. (Il tempo è del tutto relativo quando si parla di tempi lunghissimi, ne c’est pas?)
Questa persona è stata – è, essendo il suo corpo fisicamente ancora qui, sia pure per una notte soltanto: questa, l’ultima di sempre – alle Rosine da prima che nascessi io. (E io, per chi non lo sapesse, ho cinquantuno anni.) (Il contratto lo fece con mia nonna, scomparsa nel 1970.) Ovvero, pavesianamente parlando, si tratta di un mito, di qualcosa che va oltre al tempo.
(“A quei tempi non mi capacitavo che cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare delle cose difficili – come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedere morire, ritrovare la Mora com’era adesso”.)
(La Mora sono le Rosine. Adesso papà non c’è più, è tutto molto diverso. Divago.)
Ma il mio punto è in realtà un ricordo molto semplice e molto elegiaco. Perché sì, questa persona è stata assolutamente una brava persona, la cui scomparsa è inattesa e ingiusta. Una famiglia che ti viene da piangere pensandone la semplicità e la solidità. Ma io ero al liceo, e la mattina – mattine fresche come queste, quando tutto da compiere era il mio futuro – ricordo di svegliarmi al suono armonico della sua scopa che puliva il marciapiede sotto le Rosine. Quel suono ritmato e dolce è il ricordo che porterò sempre con me di questa brava persona. Quel suono è mitico nel senso pavesiano, perché mi accompagna da sempre e mi accompagnerà per sempre.
“Un vano confinarti”, dice Nelo Risi. Vano tentativo, quello di pretendere che le parole possano racchiudere in maniera piena delle sensazioni. E invece quelle scappano, col cavolo che si lasciano definire. Ma io volevo ricordarlo, il ritmo di quella scopa.
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