Dic 05

Quando avevo circa ventott’anni, laureato da non molto, avevo già prefigurato la mia vita per due generazioni dopo di me. Mi sembrava tutto lineare, semplice, ovvio come un’equazione di primo grado.

Poi è successo qualcosa.

Dov’è stato quel punto, quando è stato il momento esatto, quell’angolo nascosto nel tempo, in cui quell’equazione è diventata negativa? O forse un’equazione di grado ennesimo, o piuttosto una disequazione senza soluzione? O una curva imbizzarrita che a un certo punto ha deciso di andare dove pareva a lei? A sentir Leopardi quel momento dovrebbe essere intorno ai diciassette anni; per me è stato molto, molto tempo dopo – in ogni caso è stato.

Una persona che mi conosce bene (o almeno mi conosceva), e che è stata importante nella mia vita, un giorno mi disse tu non sarai mai contento. All’epoca mi suonò come una sorta di maledizione, ma oggi temo che avesse ragione in pieno. Forse è la mia mania di perfezione, la mia rigidità, o comunque ha a che fare con tali concetti; ma di fatto questo male di vivere non è la morte, epperò mi “accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo”. Sempre. O quasi sempre: ci sono invero alcuni momenti in cui riesco a far tacere la mia voce interiore. Ma sono attimi, alla meglio un paio d’ore ogni tanto. Per il resto mi trovo a sopportare viste che non mi piacciono, e lo trovo vagamente ingiusto.

E poi c’è dicembre, che è un mese difficile per almeno un paio di ragioni per me. La prima sono i miei morti, quelli che “prego perché preghino / per me”: c’è nonno Giovanni, ottantaquattro anni dalla morte ieri, “e forse io solo / so ancora / che visse”, il mio modello di qualunque attività umana, la sua idea di giustizia e rettitudine a prescindere da qualunque altra cosa come obiettivo cui tendere (ma sempre con l’idea di essere parte “della razza / di chi rimane a terra”); e naturalmente c’è Batista, a cui ancora tanto gliene voglio, gliene voglio proprio come in rabbia che non passa, perché proprio in questi anni avrei bisogno di parlar con lui almeno sette volte al giorno. E il Natale, una festa che ho sentito così tanto con le figlie piccole (sono loro che me ne hanno insegnato il significato profondo), e che ora mi sembra quasi un dispetto quando arriva.

Detto tutto questo, fatte tutte queste confessioni, le cose rimangono esattamente come prima; o forse quasi esattamente. Scrivere, articolare i pensieri, è la difesa che mi resta quando tutto il resto pare non funzionare. Scrivo perché non so fare altro, scrivo perché mettere su carta i miei pensieri li rende un poco più digeribili ai miei occhi.

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Feb 03

Ki ha consumato il suo dio
a furia di pregarlo e di ripregarlo
per la paura di viver tutto e di non capire
per la vergogna mai digerita di dovere anche morire
(Davide Van De Sfroos, Ki)

Nita è una parola langhetta che conosco grazie a Batista. Nita è la pàuta, la paciarin-a, ovvero il fango, la fanghiglia, il pantano, insomma quella melma dove mi trovo e da cui non so – per il momento – uscire.

È una forma – un po’ allungata nel tempo, peraltro – della fatica di avere cinquant’anni.

Io so che io sono il centro del mio mondo, devo essere la base di me stesso. Questo mi è chiaro; la teoria la so bene. Eppure per uscirne ho bisogno di ragionare, che per me vuol dire scrivere. Scrivi fin ch’a basta, e peui scrivi ëncora ‘n pòch. Devo andare a pescare tutto il nero che c’è dentro di me, e per farlo devo scrivere.

La mia nita sono io che non ho un centro. Certo, la mia base sono io; ma forse adesso non ho forze sufficienti per fare io da base a me medesimo me stesso me.

La mia nita sono i rapporti che non funzionano, quel non riuscire ad andare avanti né voler tornare indietro.

La mia nita è fatta di nostalgia, di situazioni che oggi sono diverse rispetto a quelle di ieri, di me che non mi trovo più o non mi trovo ancora in questo mondo nuovo. Per esempio, più nello specifico la mia nita è la nostalgia del progetto di traversare la Corsica a piedi, un’idea di mille anni fa che non so se riuscirò mai a mettere in atto. La nostalgia del camminare fino a rimanere senza forze, e poi del procedere carponi per fare dieci metri in più.

La mia nita è il mio corpo che cambia e che invecchia, sono sensazioni fisiche nuove e sconosciute che albergano dentro di me. Gli occhi che vedono sempre meno, gli organi che funzionano sempre meno; e vammelo a spiegare che è il tempo che passa – di nuovo, la teoria la conosco bene.

La mia nita è la costatazione che un tempo avevo le idee chiare riguardo a quello che mi riguardava, mentre adesso navigo a vista e pare che questa cosa sia diventata normale.

La mia nita è questo girare in tondo e dover costruire una vita senza averne le forze.

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