Dic 23

fonte: Vincenzo Tedesco


Io di anni ne ho cento: sono nato nel 1920, quando nonno Giovanni comprò il convento delle Rosine per farne casa e impiantarvi la sua tessitura.

O forse ne ho centoquaranta, che sono gli anni che avrebbe Giovanni Davico se fosse vivente.

Ma potrebbero essere centoventiquattro, perché nonna Teresa (Sabena Leonetta vedova Bosco) è nata a Rosario di Santa Fe il 7 luglio 1896.

O novantuno, gli anni che sono passati dalla nascita di papà a oggi.

Io ho tutti gli anni che avrebbero i familiari che sono nati molto prima di me e che mi hanno preceduto. Ho anche la mia età, ma questa è solo una curiosa coincidenza.

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Mar 11


Callose, nodose, involte.

Le mani di un uomo nel suo cinquantaduesimo anno di età.

Le mani di un uomo che ha fatto tanti errori.

Le mani di qualcuno che non deve più fare finta.

Mani che sanno scagliare un driver con discreta perizia, che sanno tirare un putt con delicatezza, che sanno solfeggiare sulla tastiera, un sintagma dopo l’altro. Mani che sanno accarezzare, che sanno bloccare, che chiedono perdono e sanno perdonare.

Mani piene di speranza e di progetti. Mani nelle quali nessuna croce manca, mani consapevoli dei propri errori e delle proprie manchevolezze; ma anche dell’allegria e delle possibilità.

Mani che fanno famiglia.

A dirla tutta, mani vive.

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Ott 09


È successo un anno fa, esattamente a quest’ora.

E, proprio come un anno fa, ho passato la mattina a fare cose insignificanti. Forse per non pensare.

Ma da tanto tempo non scrivo più di te. E questo non va bene, perché non deve arrivare il giorno in cui non si pronuncia più il tuo nome – quello sarebbe il giorno in cui tu moriresti davvero (ma non ti preoccupare papà, non succederà almeno fino a che io sarò in vita).

Non è che non ti pensi (Eduardo: “Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”), peraltro; solo che già, ci si abitua al corso nuovo delle cose. Alfonso Gatto:

Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”.

I “miei” poeti tante volte mi hanno aiutato, anche con te mi aiutano. Sì, perché ricavo da loro le parole che non so dire.

Onorare la memoria. Parlare di te, dentro di me parlare con te. Per me è sufficiente.

La cosa positiva è che ora il figlio è diventato il padre del figlio, e può proseguire il suo cammino con le sue proprie gambe. Fai tutte le somme e guarda l’ultima riga: nel mio milione di magagne credo che questa tua lezione io, in fondo, l’ho imparata bene. Tu non me l’hai insegnata, ma io l’ho imparata da te. Nel silenzio, appunto. Guardandoti. Guardandoti dormire sul divano, per esempio (“you’re innocent when you dream“). Ascoltando le tue parole misurate. Toccando con mano la tua gentilezza d’animo.

Sir James Matthew Barrie:

Non dovremmo forse inventare una nuova regola di vita… cioè cercare di essere sempre un po’ più gentili del necessario?

Quasimodo:

Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

Tu non avevi bisogno di citazioni come queste, le cose le sapevi da te. Qualcosina ho imparato anch’io.

Vai lontano. Ritorni. Sei sempre qui.

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Mag 08


La foto ritrae papà e mamma di ritorno da messa, la domenica delle Palme 1 aprile 2012. È una foto che ho scattato di soppiatto dal balcone di casa, quasi una foto rubata, a mia memoria l’ultima immagine di papà prima che iniziasse la fase rapida – be’, forse non troppo rapida, ma comunque decisa – del declino.

Guardando la foto mi par di capire delle cose.

Papà portava l’ossigeno da un anno circa, e sia pure claudicante procedeva a passo ancora relativamente spedito. Mamma lo assisteva sicura, a sua volta assistita dal ramo d’ulivo. Ieri sera mi diceva che papà negli ultimi tempi le diceva che Radio Maria li aveva “proprio salvati” (nel senso della compagnia, del ritmo delle cose). Non mi supporta questa fede, ma ne ho il massimo rispetto.

Dice Tavo Burat (Erbo ‘d famija):

Pare e Mare
quat grand,
eut ëpceron…

ij vej a son
milanta

cobia
a cobia

rèja
d’agraf

an gabi
scarbolëtte

An ti ‘me ant un tracior sò sangh a cola.

[Padre e Madre
quattro nonni,
otto bisnonni…

gli avi sono
migliaia

coppia
a coppia

riunione
di parentesi graffe

in radure alpestri
cardi stellati

In te come in un imbuto il loro sangue cola.]

Immàginateli, tutti quei vecchini, camminare tranquilli due a due, venire verso di te per farti nascere, poi tornare lietamente da dove sono venuti. Immaginali, i tuoi genitori, i quattro nonni, gli otto bisnonni e così via, tutti via via un poco più sfocati, sempre più in bianco e nero ma tranquilli, lenti, sicuri. Ti hanno fatto nascere, il loro compito è svolto. Immaginali. Vedili, tutti sereni dinnanzi a te.

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Apr 11


Il libro, alla fine, è uscito.

È uscito nei tempi previsti, il 30 marzo. La cosa non mi stupisce punto, perché tutto ciò che riguarda papà è sempre stato elegiaco e tranquillo. Sapevo che l’avrei fatto, l’ho fatto e sono soddisfatto.

Quel giorno sono andato a ritirare con mamma le prime copie. Era una mattina di nuvole, io ero imbarazzato e sulla porta del mio editore-amico le ho detto quello che fino ad allora le avevo taciuto, ovvero che avevo scritto un libro su papà. (Noi parliamo poco, questo si sa, mi sono fatto una ragione del fatto di non trovare mai le parole giuste quando è il momento, devo sempre parlare mediando con le mie insicurezze.)

In quel momento avevo un crogiuolo di sentimenti che come al solito non riuscivo a esprimere in maniera chiara. Mi sentivo stranito e fuori luogo, soprattutto perché questo è un libro molto personale, dove per forza dico tanto delle mie radici.

Ora lo prendo in mano, lo accarezzo, per suo tramite mi sembra quasi di parlare con papà, di sentire la sua voce. Come quando salgo sui tetti delle Rosine. E mi sovviene quella magnifica poesia di Nicola Duberti, O tubàu do rtir (“Il fumatore del ricovero”):

Còn ësta e sòn cařanta.
Vir la mustò
dla santa
ch’am vëgga nent tubé.

L’hè dma ciù chëlla da puèmi stëřmé.
Peusc fumé
cheuncc còm en lum.
Ařmanch endřént ař fum

em vagh tórna masnò.
Combèn ch’e n’aga stanta
em sent vořé, e seuj ëlgé.
E ‘n sovërciù

ij di
e l’han l’odo’ d me pò
e s’em pass sui caviji na man
em chërd ch’o segia chial

a feme cara còm e fossa ‘n can.

(Con questa sono quaranta. / Volto l’immagine sacra / della santa / perché non mi veda fumare. // Non mi resta che lei se voglio avere qualcuno da cui nascondermi. / Posso fumare / bisunto come un lume. / Almeno dentro al fumo // mi rivedo ragazzino. / Anche se ne ho settanta / mi sento volare, sono leggero. / E inoltre // le dita / hanno l’odore di mio padre / e se mi passo sui capelli una mano / mi immagino che sia lui // ad accarezzarmi come fossi un cane.)

Ogni tanto, certo, mi prende la malinconia, in particolare del mio tempo bambino e delle cose che ho fatto e delle tante che non ho fatto con lui. Perché tante volte è troppo difficile, mi sembra troppo difficile prendere decisioni senza il suo conforto, senza la sua saggezza a dirmi che cosa devo e non devo fare. E ora il tempo passa e sembra normale che lui non ci sia. Qui alle Rosine, per esempio, a volte pare che papà non sia mai esistito. E proprio pensando alle Rosine, che è di fatto il principale legame con lui, mi sovviene un verso di Franco Fortini:

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

Il libro comunque esiste, è una testimonianza. È piccola cosa, per carità, forse poco più di un ricordino funebre. Io l’ho scritto con grandissimo impegno ma senza pretese, l’ho scritto per testimoniare fatti che sono accaduti, pensieri che sono stati pensati; se sarà servito anche solo a me avrà già assolto al suo scopo. Sempre Fortini (Traducendo Brecht):

La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

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Feb 12


Oggi papà avrebbe compiuto 89 anni. Ma poiché io trapasso, tracimo, percolo in lui, poiché più passa il tempo e io – senza nemanco accorgermene – divento lui, penso che questa affermazione non sia del tutto esatta. Io credo che sia più corretto dire che oggi papà compie 89 anni.

Perché papà vive, e come! In me almeno è vivissimo e presente.

Perché sempre più spesso mi accorgo di fare delle cose, di essere dentro a dei gesti, che sono gli stessi che faceva lui. Per esempio piego la testa di lato in un determinato modo, di fronte a una certa situazione, e mi accorgo che lui ha fatto precisamente la stessa cosa millanta volte in situazioni simili; la sola differenza è che ora vedo quella cosa da dentro, mentre prima vi assistevo da fuori.

Perché di lui mi accompagnano tutte le immagini e i ricordi che ho. Mi accompagna il suono della sua voce, che ogni tanto vado a ritrovare in qualche video casuale fatto per sbaglio. Mi accompagnano le fotografie.

(Dalle fotografie, e dai miei ricordi, viene fuori sempre un uomo che è stato sereno in tutti o quasi i momenti della sua vita matura, e mi chiedo – senza sapermi dare una risposta – perché invece io sono così pieno di cripte e di buchi, di scappatoie e di sotterfugi, di vie traverse, di serpentine.)

Mi accompagnano le Rosine, questa casa immensa che è il segno di una famiglia e che dunque va oltre una singola generazione o una singola persona. Mi accompagna il libro che ho scritto per salutarlo (e che tra parentesi vedrà presto la luce, comunque sia), e di conseguenza il lavoro che ho fatto su di me nei due mesi successivi alla sua dipartita per lasciarlo andare in maniera completa, lieta, serena e definitiva.

Non ho bisogno di segni per ricordarmi di papà. Papà è dappertutto intorno e dentro di me. E in ogni caso quando mi accorgo di fare le cose come se fossi lui provo un senso di rassegnato orgoglio: ovvero da una parte sono contento, e dall’altra mi sembra che le cose non possano comunque cambiare. Le stele a jë smijo ai such (“il frutto non cade poi tanto lontano dal suo albero”), come si dice.

Ott 13


Io oggi penso che la morte di papà, che è un avvenimento di soli quattro giorni fa, mi abbia insegnato tantissimo (e tanto mi insegna e insegnerà ancora).

Fatico a credere alla mia serenità di questi giorni, come fatico a credere alle mille testimonianze di vicinanza e affetto che abbiamo ricevuto e che riceviamo. E io a tutti dico che sono sereno, che la sua morte è stato un atto perfettamente naturale, che non c’è nulla da aggiungere e che va bene così.

Io penso che la vita di papà mi dice questo: possono anche trattarti male, puoi avere tanti rovesci di fortuna, ma la tua serenità rimane sempre con te, e anzi diviene col tempo sempre più salda.

Questo è il succo: che tu sei tu. Che le disgrazie non possono scalfire chi sei, ma solo renderti più pieno e più forte.

Io penso che la vita di papà sia questo, io penso che in due parole mi renda più forte e di conseguenza con molti più strumenti per poter aiutare chi mi sta vicino. E mi sento veramente un nano sulle spalle dei giganti.

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Ott 10

Parrà strano, ma io non avevo mai visto morire qualcuno.

Da venerdì sera era chiaro che papà era al limitar di vita, perché le sue vene non ricevevano più flebo e la bocca non era in grado di inghiottire le medicine.

Sabato è stata una giornata ancora quasi normale: contro ogni evidenza ha mangiato un paio di yoghurt e un paio di fruttini, e preso parecchia acqua gelificata. A mia domanda mi ha anche detto che stava bene (e figurati se si lamenta).

Domenica la situazione, come prevedibile, è peggiorata ancora un poco. Ieri mattina era evidente che era questione al massimo di ore. Io ho fatto partire alcuni progetti, ho fatto una commissione (pensandoci ora è stato come un atteggiamento apotropaico, come la negazione dell’evidenza dei fatti), poi mi sono seduto al suo fianco. Noi figli eravamo lì, con mamma ovviamente.

Il respiro era sempre più lento, più flebile, poco più di un lamento. I battiti del cuore e del polso rallentavano vistosamente. Gli era anche venuta la febbre alta. A un certo punto mi è successa – ci è successa, forse – una cosa piccola che ha qualcosa di magico: gli ho preso il braccio, quel braccino inerme, e l’ho tenuto in mano. Gli ho sussurrato ora puoi andare, papà. Gliel’ho ripetuto due volte. Lui ha emesso un ultimo lamento più acuto, ha chiuso gli occhi ed era tutto finito.

Più avanti parlerò di tutte le incredibili manifestazioni di affetto che stiamo ricevendo, ovvero del bene che papà ha seminato in vita. Ma ora puoi andare, papà.

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Set 25

Lo vedi che la vita lo sta lasciando.

Non è necessario essere un dottore.

Eppure oggi papà e mamma “festeggiano” 51 anni di matrimonio. E noi abbiamo festeggiato. Una bottiglia di moscato, una torta.

Un anno fa la salute di papà era già molto malferma; ma è passato un anno intero, lui è ancora qui.

Gli ho detto che oggi è il loro anniversario di matrimonio; lui, tra il rallegrato e lo stupito, mi ha risposto prima neuva. Ovvero non si ricordava, ma era contento. Papà era contento.

E comunque ha bevuto due cucchiaini di moscato insieme a noi.

La vita lo sta lasciando ma oggi abbiamo festeggiato.

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Apr 27

Ho passato un’oretta da papà e mamma, questa mattina verso l’ora del desinare. Piccoli lavoretti, piccole parole, piccoli gesti. Mamma mi racconta dei pannoloni, delle tribolazioni pratiche nel curare un uomo molto anziano, mite, buono, che è al di là della malattia.

Credo che, a parlarmi, mamma si senta un poco sollevata. Io mi guardo intorno e non vedo più davanti a me coloro che sempre, comunque e senza condizioni sono stati dalla mia parte. Ovvero li vedo, ma li vedo deboli, debolissimi.

Questi momenti con loro mi infondono dolcezza, mi infondono mitezza. Non so se sono stato un bravo figlio o no; ma loro certamente sono stati bravi genitori, nei loro limiti di conoscenza e tempo.

Mi ripeto, lo so. All’età mia le scoperte ci sono ancora – #ciapatravers ha del resto un significato molto preciso –, ma altrettanto importante è guardare il tempo che è passato. Allora mi ripeto, perché le novità sono importanti ma altrettanto importanti sono le cose che si sono fatte, le parole che si sono dette, i gesti d’amore.

Ho parlato con papà. Lui fa fatica (ma questo lo sappiamo già). I suoi occhi sono occhi vivi. Direbbe Saba, parlando delle “creature della vita / e del dolore”:

S’agita in esse, come in me, il Signore.

Guardando queste due vite, quest’uomo e questa donna, e in particolare la vita di quest’uomo buono che si sta spegnendo, capisco che il mio cuore è un luogo pieno di vita, un luogo che esiste perché esistono papà e mamma. Disse Eduardo nella sua ultima apparizione pubblica (Taormina, 15 settembre 1983):

Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà a battermi pure quando si sarà fermato.

E Nelo Risi scrisse della propria madre:

Rinunceremmo alla memoria
per prolungarti in vita
e non in morte, cara.

Per caso mi è venuto in mente in questi giorni il periodo in cui, avevo vent’anni circa, scappavo di casa a ogni occasione. Ora vedo queste due persone care, questi vecchini miti, e mi sento fortunato a poter varcare la soglia dell’uscio di casa loro e trovarli vivi. So che presto sarà il vuoto dentro; e anche Montale, parlando della Mosca, ha una parola per questo:

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

Un giorno, molto presto, guarderò innanzi a me e mi vedrò il primo della fila. Mi sentirò perso, non avrò direzione. Ma fino a che papà e mamma avranno un alito di vita ci sarà qualcuno che, sempre, comunque e senza condizioni o domande, sarà dalla mia parte.

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