Ho avuto, ieri lungo tutto il giorno, una sensazione molto strana e persistente. Mi sembrava che l’otto di giugno dovesse significare qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa. Era una sorta di ricordo sfumato e piacevole, qualcosa che mescolava insieme immagini e ricordi lontanissimi, forse Dante (attraverso una citazione che non mi sovviene) e forse Leo Buscaglia che non so più quale libro (La via del toro?) parlava di un desiderio di dormire per un tempo indeterminato e lunghissimo.
È stata una sensazione molto dolce, forse con una punta di amaro; ma non riuscivo ad andare oltre, a definirla per quanto mi ricorresse nella mente.
Poi non so più per quale cortocircuito mentale – è strana, la mente – nell’attimo che avrebbe preceduto il sonno, ieri sera, mi è sovvenuto il significato.
È vero – per me è vero – che l’otto giugno ritorna sempre, e probabilmente sempre tornerà, dal momento che certe ferite non si possono rimarginare, puoi solo farci l’abitudine (Eduardo: “Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”); ma a dire il vero quest’anno è ritornato in forma diversa.
Perché non sono più arrabbiato perché se ne è andato lasciandomi qui coi miei crucci. Ecco, questa specie di pensiero – cui non avevo pensato per tutto il giorno – fa per me tutta la differenza del mondo. Ho pensato a quei versi di Attilio Bertolucci (Gli anni):
I compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.
Ecco: tu sei quel compagno. Io non ho pensato a te ieri per tutto il giorno, nel giorno genetliaco che ti sarebbe deputato e dovuto, neanche per un istante; ma ti ho sentito tutto il giorno lietamente.
Vorrei trovare qualche parola in piemontese, nella nostra lingua, in quell’alfabeto che ci ha accomunato dall’alfa all’omega ma in fondo non è così importante. Questo è oggi il mio ricordo dell’otto di giugno.
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