Giu 09


Ho avuto, ieri lungo tutto il giorno, una sensazione molto strana e persistente. Mi sembrava che l’otto di giugno dovesse significare qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa. Era una sorta di ricordo sfumato e piacevole, qualcosa che mescolava insieme immagini e ricordi lontanissimi, forse Dante (attraverso una citazione che non mi sovviene) e forse Leo Buscaglia che non so più quale libro (La via del toro?) parlava di un desiderio di dormire per un tempo indeterminato e lunghissimo.

È stata una sensazione molto dolce, forse con una punta di amaro; ma non riuscivo ad andare oltre, a definirla per quanto mi ricorresse nella mente.

Poi non so più per quale cortocircuito mentale – è strana, la mente – nell’attimo che avrebbe preceduto il sonno, ieri sera, mi è sovvenuto il significato.

È vero – per me è vero – che l’otto giugno ritorna sempre, e probabilmente sempre tornerà, dal momento che certe ferite non si possono rimarginare, puoi solo farci l’abitudine (Eduardo: “Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”); ma a dire il vero quest’anno è ritornato in forma diversa.

Perché non sono più arrabbiato perché se ne è andato lasciandomi qui coi miei crucci. Ecco, questa specie di pensiero – cui non avevo pensato per tutto il giorno – fa per me tutta la differenza del mondo. Ho pensato a quei versi di Attilio Bertolucci (Gli anni):

I compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.

Ecco: tu sei quel compagno. Io non ho pensato a te ieri per tutto il giorno, nel giorno genetliaco che ti sarebbe deputato e dovuto, neanche per un istante; ma ti ho sentito tutto il giorno lietamente.

Vorrei trovare qualche parola in piemontese, nella nostra lingua, in quell’alfabeto che ci ha accomunato dall’alfa all’omega ma in fondo non è così importante. Questo è oggi il mio ricordo dell’otto di giugno.

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Mar 25

desertitudine di Palazzo Nuovo


Sono passato questa mattina davanti al palazzo in cui ho trascorso tanti anni fa cinque anni molto intensi nella mia vita giovanile. Ero uno studente bravino, niente di più. Non avevo di fatto amici, solo qualche conoscenza. Questo è sempre stato un mio grande limite. Mi è sovvenuto qualche verso di Bertolucci:

Le mattine dei nostri anni perduti
i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno
i compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più.

Ho pensato anche a una frase di Jovanotti (“Un cartello di sei metri dice tutto è intorno a te / ma ti guardi intorno e invece non c’è niente”).

I pensieri si affollavano nella mente, mi sono venute in mente un sacco di cose, ma nessuna di qualche importanza degna di nota. Mi ha colpito soprattutto la desertitudine della zona, il fatto che un luogo che dovrebbe essere affollato è chiuso e basta. Ho pensato alla speranza cui tutti abbiamo diritto, indipendentemente dall’età e dagli errori che possiamo avere o non avere commesso.

Ho pensato anche, io che il calcio non lo seguo per nulla, a Prandelli, alla dignità dell’uomo nel mettere sul piatto il suo “assurdo disagio”. (Mi echeggia il “vizio assurdo ” di Pavese: ma quanto siamo messi male, come società tutta?) Io sono molto stanco, ma credo che lo siamo tutti. Però ho pensato anche che è questo il tempo di riprendere la vita che ci appartiene, perché è vero che ciascuno di noi ha il diritto di stare male e di soffrire, ma è altrettanto vero che nella stragrande maggioranza dei casi questa sofferenza non porta a nulla.

Ho pensato anche a Batista, il mio rifugio estremo quando non so più da che parte guardare. Ciascuno si attacca alle speranze che ha, io per carattere credo di essere incline a cercare le cose là dove non esistono e dove non ho possibilità alcuna di trovarle. (“Quel couillon!”, come mi disse una persona tanti anni fa, all’epoca in cui scappavo di casa e mi trovai da qualche parte nella Francia del sud, senza sapere quale direzione dare al mio vagare.) Sono fatto così, sono cresciuto così, non credo di riuscire a cambiare.

Ungaretti:

Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre

“Ha da passà ‘a nuttata”, dice Eduardo. Ma a furia di notti e notti e notti e notti senza cambiamenti in vista, diventa difficile credere che quel giorno arriverà. Eppure arriverà.

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Giu 08


L’8 giugno ritorna sempre.

Per esempio nel ricordo del giorno in cui lasciai l’amico mio più caro a cambiarsi da solo la gomma del Frubi bucata alla Piatta. Avevo motivi validissimi e non rimandabili, e lui se la cavò benissimo senza di me; ma comunque lo feci.

Per esempio nel crogiolo delle cose che non hanno soluzione, e il mio pensiero invariabile è nel dispetto che mi ha fatto, a non esserci ora, ora che avrei delle cose da chiedergli perché non so come fare.

Anche nella serenità di giornate come queste, perché comunque sono giornate cui manca qualcosa, come quel giorno a quello pneumatico mancava l’aria.

Per esempio nel fatto – perché ormai è un fatto scolpito nella pietra – che tu non potrai mai sapere della fatica di avere cinquant’anni. Sapevi tutto ed eri avanti su tutto e ti avrei chiesto consiglio su tutto ma su questa cosa no Batista, mi dispiace ma non sai nulla. Questo numero, 53, ti è del tutto e per sempre ignoto.

Per esempio nella luce del cimitero che contiene i resti del tuo corpo, due anni fa, la prima volta che era il tuo compleanno senza che tu ci fossi.

Per esempio nel fatto che continuo a invocare il tuo nome muto, nella vanità di questo grido strozzato.

Ma io la tua lezione l’ho imparata. Sia come vuole, non scenderò più dagli alberi, seguiterò ciapand travers.

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Giu 08

In questo post metto spunti diversi, magari apparentemente lontani tra di loro, ma che si intrecciano in un filo unico – la mia impossibilità a mantenere una linea diritta, l’inequivocabilità del fatto che non posso che ciapé travers.

Prima di tutto il pensiero va a questo giorno, che ritorna sempre a ricordarmi il mio amico che non c’è più. È tornato l’anno scorso, è tornato due anni fa, tornava anche prima (solo che non ci pensavo), e soprattutto ritornerà sempre (e a questo fatto penso spesso, invero).

Poi c’è il fatto che le cose importanti della vita sono nascoste. Lo dice bene, ad esempio Montale (che è legato a papà, perché due versi di Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale sono nel suo ricordino funebre, che è sempre sul lato destro della mia scrivania a fianco di quello di Batista):

Né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Questo video, che scoprii grazie a Kirsi. (Then suddenly it hit me. This bus ride was it. This was parenthood, this was the childhood of my darling daughter, this was life itself.)

E quest’altro, che scoprii grazie al mio amico Fabrizio, che non sento mai ma che è il legame con quelle montagne dure “che han fatto il mio corpo” (per Pavese erano le colline, e qui si aprirebbe un altro capitolo gigante che mi porterebbe prima in bassa Langa, poi in alta Langa e quindi a Torino – e da lì ricomincerei un viaggio senza fine). “Quelle montagne” sono in realtà quella casa in quella borgata di quella frazione di quel paesino che si chiama Montemale di Cuneo, che porterò nel cuore per sempre. (Sempre da qui parte un altro viaggio, anche questo senza fine, quello che mi porta a Van De Sfroos.)

Insomma ho fatto il giro del mondo dentro la mia testa in cinque minuti, e ora ritorno al punto di partenza, sempre quello: il cowboy che è andato lontanissimo, il contadino musicista, il campione dei lavori ad alto rendimento, il mago delle magie più incredibili, l’amico mio più caro che è sempre con me.

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Dic 20

Cadrèga che fa frecàss
e buca vèrta che diis nagòtt
dumà la radio sgraffigna l’aria
e i pensee fànn un gran casòtt
Davide Van de Sfroos, Pulenta e galena fregia


Questo per me è il giorno forse più triste, ma certamente più profondo dell’anno. Due anni fa, la telefonata quel mattino, mi ricordo esattamente dov’ero, in quale posizione, la luce, vedere quel numero, capire prima di sapere.

L’amico mio più caro, il Don Chisciotte di infinite battaglie non era ancora ricordo, ma era già diventato spirito e luce e vento e nebbia.

La sua foto che continua a campeggiare sulla mia scrivania, a fianco del monitor, in posizione ben visibile, con papà; io che quando mi smarrisco mi basta uno sguardo verso destra.

I miei morti che prego perché preghino
per me, per i miei vivi com’io invoco
per essi non resurrezione ma
il compiersi di quella vita ch’ebbero
inesplicata e inesplicabile, oggi
più di rado discendono dagli orizzonti aperti
quando una mischia d’acque e cielo schiude
finestre ai raggi della sera, – sempre
più raro, astore celestiale, un cutter
bianco-alato li posa sulla rena.
(Montale, Proda di Versilia)

L’estrema vanità del tutto.

E come fai a spiegare a qualcuno che non avrà mai cinquant’anni che cosa vuol dire avere questa età? Com i fass a mostretlo?

Tu per anni hai cercato di insegnarmi che cosa vuol dire ciapé travers. Ora quelle lezioni estemporanee – come quel sabato mattina in cui con la mia primogenita venimmo a casa tua, senza motivo né preavviso o telefonata (io che per me parlare, far sentire la mia voce è sempre così difficile), e non ti trovammo, ma poi tu arrivasti all’improvviso, dicendo che stavi andando non so dove ma eri tornato indietro senza sapere la ragione, ma solo perché sapevi che dovevi farlo – percolano dentro di me.

Doman matin a Turin a më speta ël rataplan ch’a peul meineme a la sima dël mond. Mi i veuj traversé ël desert, ël baciass pì gròss ch’a-i é, e peui monté ansima a la montagna forëstera pì àuta dël mond.
(Compania dij Musicant d’Alba, Rondolina – canson d’amor)

Il giorno è questo, il venti dicembre di tutti gli anni del mondo. Il giorno in cui mi è un poco più chiaro che io sono ancora vivo e tu sei spirito e memoria. Il giorno per provare a cercare di essere uomo.

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Set 13


Ho visto il logo che avevamo studiato con amore, tu e io, a rappresentanza del nostro Piemonte (“la lenga dël cheur”), copiato e incollato come se niente fosse.

Come se bastasse un copia e incolla, un “cit.” qualunque, a raccontare tutta la storia.

Se copi almeno copia giusto. Cita la fonte.

Ricordati di Batista.

Lòn ch’a dirìa Batista?

Batista, prima di tutto, direbbe “chi cazzo a sa lòn ch’a l’é giust”.

Allora ho preso il Manuale di cattiveria per piccoli lupi (grazie Paola):

Regola 4. Se squittisce, mangialo.
Regola 5. Gli altri, tutti al diavolo.

C’è il vento fuori. Forse pioverà, questa notte. Quindi adesso è Prima della pioggia. (No, non l’ho capito quel film, ma credo sia il più bello che io abbia mai visto; e che cosa significa capire, dopo tutto?)

Non mi importa di non essere capito, mi importa di scrivere i miei pensieri. Fissarli. Renderli imperituri.

Imperituri per me. Gli altri, tutti al diavolo. Perché questa mattina ho giocato a golf, e nemmeno male per la verità, ma meno bene di quanto avrei potuto perché ascoltavo le voci intorno a me, i miei compagni di gioco. Compagni e avversari.

Ma gli altri, tutti al diavolo. So sbagliare da me.

E non mi importa del logo, voglio che si sappia. È stata l’occasione scatenante; ma il punto è che so sbagliare da me.

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Lug 31


Un anno fa passavo per lo stesso posto e per la medesima ragione.

Pocapaglia, sulla strada per il golf di Cherasco. Una di quelle gare che piacciono a me – fondamentalmente per sentirmi vivo.

E lì, in quel luogo, ho scattato la medesima foto di un anno fa. Io impantanato nelle mie indecisioni e nelle mie paure, nella fatica di vivere i miei cinquant’anni, che di per sé sarebbero l’età della pienezza e del compimento della vita. (I cinquanta sono i nuovi quaranta, immagino che si potrebbe dire.)

E naturalmente penso a lui. Cioè lo penso fondamentalmente nel modo in cui Montale pensava i suoi morti:

I miei morti che prego perché preghino
per me,

insomma un do ut des alla ricerca di un equilibrio che dubito di raggiungere mai. Un giorno, tanti anni fa, chiesi l’aiuto di Batista, volevo vuotare il sacco, dirgli tutte le mie schifezze e i miei travagli e i fallimenti – era il 2007 –, lui venne a Torino con un amico e pranzammo insieme al Kiki, uno splendido ristorante giapponese che non esiste più da anni (sic transit gloria mundi), e insomma ora cinquant’anni li ho davvero – mi manca un mese ai cinquantuno, per dirla tutta – e quell’aiutante magico è andato lontanissimo, a chi racconto ora tutti i miei maleur?

“Comunque dev’essere un bel posto, quello, perché tu ti meriti senz’altro di essere in un bel posto” – questo l’ha detto Mario. E mi ricordo di quel giorno che mi portasti con te a fare compere vicino ad Alba, attrezzi, un trapano, qualcosa del genere, e quell’amore folle che avevi per le bici pieghevoli. Era amore per la vita allo stato puro, una bici pieghevole come la pienezza della tua vita.

È passato un anno da quella foto ma io sono impantanato nelle mie difficoltà esattamente come un anno fa. Ciapatravers sta pizza, manco dritto so andare.

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Giu 08


Sono andato sulla tomba dell’amico mio più caro, oggi. Anche se lui non avrà mai cinquant’anni, oggi ne compie cinquantuno.

Si mescolavano dentro di me sentimenti differenti: il magone, ovviamente, che ha provocato lacrime copiose e forse sciocche; ma anche la leggerezza, derivante dal pensiero dell’allegria che lui ha portato nella mia vita.

Mi tornavano in mente alcuni tra i milioni di episodi che hanno legato la sua vita alla mia, indissolubilmente e per sempre. Per esempio quella volta, era il 30 settembre del 2006, in cui tornando dal concerto di presentazione del CD dei Musicant d’Alba ho messo il CD stesso appena salito in macchina, le orecchie e gli occhi ancora pieni di quello spettacolo. E come per magia l’ultima nota dell’ultima canzone ha risuonato proprio quando arrivavo al portone di casa, con la mia primogenita addormentata al mio fianco.

Perché la magia innegabilmente ha permeato e permea la vita di Batista, almeno così come la percepisco io: ci sono di lui un milione di cose che non ho mai capito, perché so bene che non era così importante che fossero capite allora, e tantomeno lo è oggi. Ma la magia rimane. (Un fatto privato di questo genere mi è successo proprio oggi, proprio al cimitero.)

Ho versato molte lacrime oggi sulla sua tomba, ma questo è un fatto scontato. Mi rasserena il fatto di essere andato in quel luogo a ricordare l’amico in questo giorno così significativo; e volevo che si sapesse.

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Feb 28

Ël piemontèis a venta
parlelo. Che meisin-a. Mej che la revalenta.
[…] A venta scrivlo, òh già, e pì da-bin ch’as peul,
a scòla dl’arsigneul, un reul d’an pare an fieul,
dissionari a la man, sacrelo con la rima,
sima dla gòj, la prima.
Barba Tòni, Ël Pì-a-mont-tèis

Mi è venuta in mente, come dal nulla, questa mattina, questa splendida poesia di Barba Tòni (al secolo Antonio Bodrero), a mio modo di vedere la più alta manifestazione poetica della nostra lingua nella sua millenaria tradizione. (Tutta intera si trova qui.)

E mi è venuta in mente perché sto correggendo le prime bozze del libro su papà, che vedrà la luce in marzo, e perché questa poesia mi lega in maniere contorte (lineari non sono capace, o ciapoma travers o gnenti) ai due numi tutelari che mi accompagnano sempre qui di fianco allo schermo del computer (“I miei morti che prego perché preghino / per me”, direbbe Montale).

Quella poesia è legata a Batista perché nei primi tempi della nostra conoscenza avevo preso a chiamarlo revalenta (un ricostituente, potremmo dire), perché il suo irrompere nella mia vita mi aveva portato meraviglia e cure di cui avevo grande necessità.

Quella poesia è legata a papà perché Barba Tòni morì una settimana esatta prima che nascesse la mia primogenita, e papà e mamma andarono al suo funerale – io probabilmente ero preso dal lavoro e da tutte quelle faccende che ci paiono irrinunciabili sul momento, ma vuote e sciocche se pensate a distanza di tanto tempo.

Insomma ogni tanto mi faccio un pianto sereno pensando a chi non c’è più (c’è nel nostro ricordo in realtà, lì vive davvero). Poi le lascime si asciugano, e io mi sento più forte.

E, infine, è una magnifica sensazione quella di curare nuovamente, dopo tanti anni, un figlioletto, il mio quarto libro, che chiude un cerchio e apre delle porte. Il tempo è sempre circolare, io abbraccio idealmente i miei numi tutelari, chiacchiero con loro, oggi c’è il sole e la vita prosegue.

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Dic 20

Di quei giorni, un anno fa, io mi ricordo tante cose.

La telefonata che mi annunciava un fatto, il fatto, che sapevo sarebbe accaduto ma che nelle settimane precedenti avevo quasi dimenticato, pressoché rimosso, come qualcosa di impensabile, qualcosa che non sarebbe successo più, come se la malattia fosse stata un raffreddore che poteva passare in un amen.

Gli scambi di telefonate e di messaggi con gli amici, l’incredulità, la costernazione, il rimpianto.

Dentro di me pensare di non aver fatto nulla per aiutare l’amico.

non torneremo mai
sui nostri passi, mai
non ci sarà mai posto
neanche di nascosto
nei giorni andati, mai

non torneremo più
nemmeno a ricordare
che è sempre troppo tardi
il tempo dei ricordi
e niente fa tornare

Le mie parole scritte, cui ho sempre tenuto tantissimo, che d’improvviso mi appaiono vuote e assolutamente inutili. Ricordo che mi sovvenne la chiosa del diario di Pavese: “Non scriverò più”.

L’essere stato con lui per un quarto d’ora da solo, il suo corpo finalmente composto nella pace della bara, a studiare le fattezze del volto sereno, ogni minimo dettaglio perché come dice Philip Roth non devi dimenticare nulla. Quel ghigno beffardo sul suo viso, lui come sempre più avanti di noi.

Il giorno del funerale, l’incontro con vecchi amici e persone conosciute sul momento.

Il saluto, momento fondamentale ma sempre così arduo per me.

I discorsi funebri, la cremazione, io che esco da quella cappella col cuore gonfio e parlo serenamente di lui con una persona solo vista di sfuggita in passato ma che ora mi dice tanto, che in quel momento sospeso mi sembra come un fratello.

L’assurdità del tutto.

La memoria che diviene ricordo.

E poi la messa di trigesima, le mie parole sciocche, io che non sono mai bravo a tirare fuori due parole quando è il momento; e poi a rito concluso io che parto con l’auto e vago per il Piemonte, nella neve, senza sapere dove andare, senza avere un luogo che possa darmi sollievo.

E ora un anno dopo siamo ancora qui a ripercorrere quegli stessi sentimenti, a cercare le parole, a non trovarle.

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