Giu 03


Ricordo la sensazione strana di quando, uscito dall’ottico dove avevo appena comprato il mio primo paio di occhiali, guardavo il palazzo di fronte a me e lo vedevo nitido con quel nuovo strumento alla John Lennon. (Già, ero cresciuto all’ombra del mito dei Beatles e non avrei mai potuto immaginare un occhiale di forma differente.) Avevo diciannove anni allora, avevo appena cominciato l’università (quella facoltà di Economia e commercio che non ho mai capito, per i tre anni interi in cui ci sono stato) e una miopia lieve. Cose da ragazzi, in fondo.

Più tardi la miopia divenne un pochino più “importante” ma senza essere preoccupante e restando all’interno della facile gestibilità. Indossavo sempre gli occhiali, anche davanti al computer dove ho passato la vita, ed erano per me una sorta di barriera protettiva dal mondo.

“Poi scordarono tutti e passò molto tempo”, direbbe Pavese. I miei occhiali, due montature più in là, mi piacevano. Ma poi, lentamente, inesorabilmente, naturalmente, cominciarono i problemi. Mi divenne via via complicato tenere gli occhiali davanti al computer; e va bene, li togliamo. E poi mi divenne impossibile leggere con gli occhiali; e va bene, se non fosse che mi sento lievemente ottuso a fare sempre buta e gava.

Quindi è stata la volta della maculopatia incipiente, che mi è stata diagnosticata en passant un anno fa. (Sogno un oculista che mi prenda per mano e mi dica Gianni, guarda, per il tuo problema dobbiamo fare così e cosà; invece nella realtà l’oculista mi parla nel suo linguaggio tecnico per la gran parte per me incomprensibile – e io annuisco, per non fare la figura dell’ignorante.) Poiché ho seguito la parabola discendente degli occhi di papà (ne ho parlato, ad esempio, qui), e perché – come ho detto in maniera estesa nel libro (Le stele a jë smijo ai such, non è vero papà?) – col tempo mi sembra sempre più di diventare come lui, o forse più precisamente di diventare lui, mi prefiguro già ottantenne con una vista paurosamente debole. E per porre riparo uso sempre gli occhiali da sole quando sono fuori e c’è un po’ di luce – fuori o dentro, la luce per me è sempre troppa.

Ci sarà certamente una soluzione dietro l’angolo, un occhiale progressivo con le lenti da sole che si attaccano metallicamente o qualcosa del genere, una soluzione che studierò e adotterò a breve – ne sono costretto. Ma rimane anche il problema più ampio, generale e ineliminabile del tempo che passa, dei miei poveri occhi che giorno per giorno perdono le loro caratteristiche e la loro vitalità, e io dietro a essi che non posso che adattarmi alla nuova realtà.

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Ott 09


È successo un anno fa, esattamente a quest’ora.

E, proprio come un anno fa, ho passato la mattina a fare cose insignificanti. Forse per non pensare.

Ma da tanto tempo non scrivo più di te. E questo non va bene, perché non deve arrivare il giorno in cui non si pronuncia più il tuo nome – quello sarebbe il giorno in cui tu moriresti davvero (ma non ti preoccupare papà, non succederà almeno fino a che io sarò in vita).

Non è che non ti pensi (Eduardo: “Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”), peraltro; solo che già, ci si abitua al corso nuovo delle cose. Alfonso Gatto:

Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”.

I “miei” poeti tante volte mi hanno aiutato, anche con te mi aiutano. Sì, perché ricavo da loro le parole che non so dire.

Onorare la memoria. Parlare di te, dentro di me parlare con te. Per me è sufficiente.

La cosa positiva è che ora il figlio è diventato il padre del figlio, e può proseguire il suo cammino con le sue proprie gambe. Fai tutte le somme e guarda l’ultima riga: nel mio milione di magagne credo che questa tua lezione io, in fondo, l’ho imparata bene. Tu non me l’hai insegnata, ma io l’ho imparata da te. Nel silenzio, appunto. Guardandoti. Guardandoti dormire sul divano, per esempio (“you’re innocent when you dream“). Ascoltando le tue parole misurate. Toccando con mano la tua gentilezza d’animo.

Sir James Matthew Barrie:

Non dovremmo forse inventare una nuova regola di vita… cioè cercare di essere sempre un po’ più gentili del necessario?

Quasimodo:

Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

Tu non avevi bisogno di citazioni come queste, le cose le sapevi da te. Qualcosina ho imparato anch’io.

Vai lontano. Ritorni. Sei sempre qui.

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Apr 11


Il libro, alla fine, è uscito.

È uscito nei tempi previsti, il 30 marzo. La cosa non mi stupisce punto, perché tutto ciò che riguarda papà è sempre stato elegiaco e tranquillo. Sapevo che l’avrei fatto, l’ho fatto e sono soddisfatto.

Quel giorno sono andato a ritirare con mamma le prime copie. Era una mattina di nuvole, io ero imbarazzato e sulla porta del mio editore-amico le ho detto quello che fino ad allora le avevo taciuto, ovvero che avevo scritto un libro su papà. (Noi parliamo poco, questo si sa, mi sono fatto una ragione del fatto di non trovare mai le parole giuste quando è il momento, devo sempre parlare mediando con le mie insicurezze.)

In quel momento avevo un crogiuolo di sentimenti che come al solito non riuscivo a esprimere in maniera chiara. Mi sentivo stranito e fuori luogo, soprattutto perché questo è un libro molto personale, dove per forza dico tanto delle mie radici.

Ora lo prendo in mano, lo accarezzo, per suo tramite mi sembra quasi di parlare con papà, di sentire la sua voce. Come quando salgo sui tetti delle Rosine. E mi sovviene quella magnifica poesia di Nicola Duberti, O tubàu do rtir (“Il fumatore del ricovero”):

Còn ësta e sòn cařanta.
Vir la mustò
dla santa
ch’am vëgga nent tubé.

L’hè dma ciù chëlla da puèmi stëřmé.
Peusc fumé
cheuncc còm en lum.
Ařmanch endřént ař fum

em vagh tórna masnò.
Combèn ch’e n’aga stanta
em sent vořé, e seuj ëlgé.
E ‘n sovërciù

ij di
e l’han l’odo’ d me pò
e s’em pass sui caviji na man
em chërd ch’o segia chial

a feme cara còm e fossa ‘n can.

(Con questa sono quaranta. / Volto l’immagine sacra / della santa / perché non mi veda fumare. // Non mi resta che lei se voglio avere qualcuno da cui nascondermi. / Posso fumare / bisunto come un lume. / Almeno dentro al fumo // mi rivedo ragazzino. / Anche se ne ho settanta / mi sento volare, sono leggero. / E inoltre // le dita / hanno l’odore di mio padre / e se mi passo sui capelli una mano / mi immagino che sia lui // ad accarezzarmi come fossi un cane.)

Ogni tanto, certo, mi prende la malinconia, in particolare del mio tempo bambino e delle cose che ho fatto e delle tante che non ho fatto con lui. Perché tante volte è troppo difficile, mi sembra troppo difficile prendere decisioni senza il suo conforto, senza la sua saggezza a dirmi che cosa devo e non devo fare. E ora il tempo passa e sembra normale che lui non ci sia. Qui alle Rosine, per esempio, a volte pare che papà non sia mai esistito. E proprio pensando alle Rosine, che è di fatto il principale legame con lui, mi sovviene un verso di Franco Fortini:

Dove una folla tace e gli amici non riconoscono.

Il libro comunque esiste, è una testimonianza. È piccola cosa, per carità, forse poco più di un ricordino funebre. Io l’ho scritto con grandissimo impegno ma senza pretese, l’ho scritto per testimoniare fatti che sono accaduti, pensieri che sono stati pensati; se sarà servito anche solo a me avrà già assolto al suo scopo. Sempre Fortini (Traducendo Brecht):

La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

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Feb 28

Ël piemontèis a venta
parlelo. Che meisin-a. Mej che la revalenta.
[…] A venta scrivlo, òh già, e pì da-bin ch’as peul,
a scòla dl’arsigneul, un reul d’an pare an fieul,
dissionari a la man, sacrelo con la rima,
sima dla gòj, la prima.
Barba Tòni, Ël Pì-a-mont-tèis

Mi è venuta in mente, come dal nulla, questa mattina, questa splendida poesia di Barba Tòni (al secolo Antonio Bodrero), a mio modo di vedere la più alta manifestazione poetica della nostra lingua nella sua millenaria tradizione. (Tutta intera si trova qui.)

E mi è venuta in mente perché sto correggendo le prime bozze del libro su papà, che vedrà la luce in marzo, e perché questa poesia mi lega in maniere contorte (lineari non sono capace, o ciapoma travers o gnenti) ai due numi tutelari che mi accompagnano sempre qui di fianco allo schermo del computer (“I miei morti che prego perché preghino / per me”, direbbe Montale).

Quella poesia è legata a Batista perché nei primi tempi della nostra conoscenza avevo preso a chiamarlo revalenta (un ricostituente, potremmo dire), perché il suo irrompere nella mia vita mi aveva portato meraviglia e cure di cui avevo grande necessità.

Quella poesia è legata a papà perché Barba Tòni morì una settimana esatta prima che nascesse la mia primogenita, e papà e mamma andarono al suo funerale – io probabilmente ero preso dal lavoro e da tutte quelle faccende che ci paiono irrinunciabili sul momento, ma vuote e sciocche se pensate a distanza di tanto tempo.

Insomma ogni tanto mi faccio un pianto sereno pensando a chi non c’è più (c’è nel nostro ricordo in realtà, lì vive davvero). Poi le lascime si asciugano, e io mi sento più forte.

E, infine, è una magnifica sensazione quella di curare nuovamente, dopo tanti anni, un figlioletto, il mio quarto libro, che chiude un cerchio e apre delle porte. Il tempo è sempre circolare, io abbraccio idealmente i miei numi tutelari, chiacchiero con loro, oggi c’è il sole e la vita prosegue.

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Dic 28

Ho scritto un libro, e quando sono arrivato al fondo ho capito esattamente perché.

Otto giorni dopo la morte di papà ho iniziato a scrivere il libro su di lui. Tutto era in realtà partito nei suoi ultimi mesi di vita, periodo nel quale ho scritto spesso brevi note su di lui sulla mia pagina FB; e spesso, di rimando, c’erano persone – amici – che raccontavano le proprie esperienze con i genitori anziani. Allora questo flusso di pensieri comuni mi ha fatto sentire parte di un tutto più grande di me, e ho capito che i miei pensieri potevano parlare a qualcuno. Lo ha detto meglio di me Cristina Maccarrone:

Scrivi quello che hai visto, che hai provato, non pensare non serva: la gente non sa come fare a volte, potresti aiutarla.

È stato il mio progetto principale per nove settimane. Non tutti i giorni, ma le cose andavano così: mi svegliavo presto, diciamo intorno alle sette, e mi mettevo subito a scrivere evitando qualunque interruzione (i giorni veramente produttivi sono stati quelli in cui non ho preso in mano il telefono e/o guardato la posta prima delle nove almeno). (Tale metodo mi viene da questo libro.) Oppure durante il giorno mi veniva in mente qualcosa e lo annotavo, e poi al momento opportuno elaboravo quelle note. Ho letto anche tanti libri sul tema, mi sono “documentato”, per così dire, facendo man bassa dell’esperienza di altri scrittori.

Due mesi dopo è venuto un momento, un istante preciso, in cui ho sentito che il libro era terminato. In quel momento mi sono reso conto che avevo scritto di papà tutto quello che desidero ricordare negli anni a venire. Il libro contiene tanti buchi, ovvio, cose importanti che ho trascurato come dettagli che ho enfatizzato all’eccesso; ma dopotutto il papà è il mio, e così desidero ricordarlo.

L’intero percorso è durato due mesi esatti. E quando sono giunto a quel momento ho capito che la vera, la principale, l’essenziale ragione per cui ho scritto tutto quanto è stato per accompagnare davvero papà alla sua tomba. In quel momento, pochissimi giorni prima di Natale, ho capito che lo avevo seppellito per sempre e che potevo passare oltre con la mia vita.

C’eravamo lui e io. E io l’ho seppellito. Il figlio ha seppellito il padre, come è giusto che sia, come è nell’ordine naturale delle cose che succedono. L’intero processo è terminato. Ora, a libro concluso, l’ho lasciato andare in maniera completa, lieta, serena e definitiva.

Ora mi do due mesi di tempo per trovare un editore. Non di più, perché se non viene reputato interessante è inutile che vada a chiedere l’elemosina di qua e di là, preferisco piuttosto fare l’editore di me stesso (come ho fatto con il libro precedente, che nessuno voleva) e andrà bene così. Anche perché il libro per me la funzione principale l’ha già assolta, tutto il resto è un eventuale di più.

Io sono felice di averlo scritto, è come se papà mi avesse passato tutta la sua serenità – che ora mi appartiene.

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Ott 13


Io oggi penso che la morte di papà, che è un avvenimento di soli quattro giorni fa, mi abbia insegnato tantissimo (e tanto mi insegna e insegnerà ancora).

Fatico a credere alla mia serenità di questi giorni, come fatico a credere alle mille testimonianze di vicinanza e affetto che abbiamo ricevuto e che riceviamo. E io a tutti dico che sono sereno, che la sua morte è stato un atto perfettamente naturale, che non c’è nulla da aggiungere e che va bene così.

Io penso che la vita di papà mi dice questo: possono anche trattarti male, puoi avere tanti rovesci di fortuna, ma la tua serenità rimane sempre con te, e anzi diviene col tempo sempre più salda.

Questo è il succo: che tu sei tu. Che le disgrazie non possono scalfire chi sei, ma solo renderti più pieno e più forte.

Io penso che la vita di papà sia questo, io penso che in due parole mi renda più forte e di conseguenza con molti più strumenti per poter aiutare chi mi sta vicino. E mi sento veramente un nano sulle spalle dei giganti.

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Ott 10

Parrà strano, ma io non avevo mai visto morire qualcuno.

Da venerdì sera era chiaro che papà era al limitar di vita, perché le sue vene non ricevevano più flebo e la bocca non era in grado di inghiottire le medicine.

Sabato è stata una giornata ancora quasi normale: contro ogni evidenza ha mangiato un paio di yoghurt e un paio di fruttini, e preso parecchia acqua gelificata. A mia domanda mi ha anche detto che stava bene (e figurati se si lamenta).

Domenica la situazione, come prevedibile, è peggiorata ancora un poco. Ieri mattina era evidente che era questione al massimo di ore. Io ho fatto partire alcuni progetti, ho fatto una commissione (pensandoci ora è stato come un atteggiamento apotropaico, come la negazione dell’evidenza dei fatti), poi mi sono seduto al suo fianco. Noi figli eravamo lì, con mamma ovviamente.

Il respiro era sempre più lento, più flebile, poco più di un lamento. I battiti del cuore e del polso rallentavano vistosamente. Gli era anche venuta la febbre alta. A un certo punto mi è successa – ci è successa, forse – una cosa piccola che ha qualcosa di magico: gli ho preso il braccio, quel braccino inerme, e l’ho tenuto in mano. Gli ho sussurrato ora puoi andare, papà. Gliel’ho ripetuto due volte. Lui ha emesso un ultimo lamento più acuto, ha chiuso gli occhi ed era tutto finito.

Più avanti parlerò di tutte le incredibili manifestazioni di affetto che stiamo ricevendo, ovvero del bene che papà ha seminato in vita. Ma ora puoi andare, papà.

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Ott 05

Questo post ha quattro premesse.

La prima, abbastanza ovvia per chi mi conosce, è la situazione di papà, il suo respiro sempre più lento, le varie malattie che porta e che molto presto lo porteranno al commiato da noi.

La seconda è un libro che sto leggendo e meditando, un libro che ha molte significanze ma che, in estrema sintesi, dice che per ottenere dei risultati devi rimanere concentrato per molto tempo di fila. Lernen mit Sitzfleisch, come dicono i tedeschi – sono concetti che ragionano da tempo dentro di me, di cui ho parlato spesso in Brainfood. Ne parlerò ancora, perché è un concetto fondamentale.

La terza è che l’unica attività dove non temo la concorrenza di chicchessia è la scrittura. E lo è perché dalla terza media, all’inizio del tutto inconsapevolmente, mi sono preparato con tutta calma a essere un cristallo, per dirla con Pavese. Ho scritto tutti i giorni, dal biglietto della spesa alla giustificazione per le figlie, da libri ad articoli, dalla tesi al biglietto di auguri: col risultato che oggi, una quarantina d’anni dopo, la mia scrittura è raffinata, distillata e pronta.

La quarta è che in questi mesi ho scritto tanto su papà, ma quasi sempre in maniera veloce. Ora sono pronto per elaborare un pensiero un poco più compiuto.

All’età mia tante persone non hanno più uno o entrambi i genitori. Dunque per prima cosa mi ritengo fortunato nel sapere che comunque papà e mamma sono dalla mia parte, che ci sono per me. E non importa se papà è immobile nel suo letto, letto da cui non si alzerà più da vivo; importa invece sapere che c’è, che esiste, che respira e che qualunque cosa accada sarà dalla mia parte. Dopo, dopo questo non sarà più: dopo io sarò il primo della fila, e davanti a me conseguentemente ci sarà il baratro. Perché dopo toccherà a me.

È dunque questo baratro la paura della mia morte? Non ho una risposta precisa, anche perché di certo la questione è complessa.

Parlavo questa mattina con un amico caro, qualcuno che magari non vedi per mesi ma poi che quando ti incontra ti attacca un bottone infinito, la qual cosa per me è sempre manna celeste perché lui dice solo cose interessanti – strambe, probabilmente, ma interessanti e pensate, argomentazioni che non possono non farti riflettere. Ebbene, lui mi diceva che la mancanza di suo padre non è tanto la visita al cimitero, per esempio, che è un’attività quasi doverosa, ma è lo scricchiolio del cancello di casa, perché quello scricchiolare gli ricorda che papà dava regolarmente l’olio al cancello, mentre ora non c’è più nessuno che ci pensa; la mancanza di mamma è per esempio il ricordo di un gesto a cui riporta un quaderno di ricette che lei teneva.

Il mio baratro sono dunque le Rosine, per esempio: perché in questa casa (“casa” essendo decisamente riduttivo in questo caso) ogni coppo, ogni finestra, ogni pertugio mi ricorda attività che papà negli anni ha fatto, ha fatto fare o avrebbe voluto fare. Il mio baratro è la sua lista delle cose da fare per la casa.

(A me piace tanto salire sui tetti delle Rosine e rimanere lì a guardare il panorama: perché in quel luogo non devo rendere conto a nessuno dei miei errori. Ebbene, penso che domani andrò lì per vedere papà, per parlargli.)

Il mio baratro sarà scendere la mattina e pensare che non potrò più andare di là, fatti pochi metri, e salutare due persone miti e inferme. Vedere il divano vuoto. Non sentire la voce. I suoi colpi di tosse. Lo scatto che spegne la luce della specchiera del bagno.

Il mio baratro sarà non avere più qualcuno che, comunque vada, è dalla mia parte.

Il mio baratro è la mia fragilità, l’idea che sono troppo buono per difendermi dalle angherie. Il non saper gridare quando è ora.

Il mio baratro è l’idea di dover accettare il fatto che qualcosa che è esistito da sempre possa non esistere più. Non perché papà possa darmi consigli particolarmente preziosi, ma semplicemente per l’idea di ascoltare quello che pensa e che ha da dire.

Papà, ora gli parli e a volte ti risponde ma altre no, è già andato oltre. You’re innocent when you dream. Il mio baratro è nel non poter essere oltre insieme a lui.

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Set 25

Lo vedi che la vita lo sta lasciando.

Non è necessario essere un dottore.

Eppure oggi papà e mamma “festeggiano” 51 anni di matrimonio. E noi abbiamo festeggiato. Una bottiglia di moscato, una torta.

Un anno fa la salute di papà era già molto malferma; ma è passato un anno intero, lui è ancora qui.

Gli ho detto che oggi è il loro anniversario di matrimonio; lui, tra il rallegrato e lo stupito, mi ha risposto prima neuva. Ovvero non si ricordava, ma era contento. Papà era contento.

E comunque ha bevuto due cucchiaini di moscato insieme a noi.

La vita lo sta lasciando ma oggi abbiamo festeggiato.

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Ago 27

Ho bisogno di sistemare i pensieri, perché ne ho troppi che non sono in ordine.

Mi trovo in questi giorni in un luogo che adoro, la mia seconda patria, luogo che da quindici anni è il ricettacolo di tanti pensieri di libertà e fierezza e riconoscimento di sé e, in una parola, di comunione e identità con me stesso. La locità per me è fondamentale, in generale, e la Corsica definisce tanta parte di me. Nei silenzi di Corsica mi sento a casa, e questo è un fatto.

Mi trovo in questi giorni in una parte di vita abbastanza strana, forse particolare, perché quel grande uomo che mi ha dato i natali si trova nel suo ultimo, ultimissimo forse, periodo di vita. E io sono qui per amore delle mie figlie, soprattutto di quella bambina che si trova al suo limitar d’infanzia, lei che tempo quindici giorni comincerà una nuova avventura, la scuola media che in breve tempo la porterà lontano dall’essere la bambina che è pienamente ancora.

Io nella settimana che domani comincia terminerò il mio cinquantesimo anno di vita, e insomma compirò cinquant’anni – e anche questo è un fatto strano, forse particolare. (Per tradizione di famiglia, da diversi anni il compleanno mi coglie qui.)

Sono venuto qui, sia pure per breve tempo, del tutto impreparato, io che i viaggi di Corsica li ho sempre pensati e sognati e immaginati lungamente in tutti i dettagli con grande anticipo. Questi sono luoghi meravigliosi – incantagione è la prima parola che mi viene in mente quando penso alla Corsica –, ma so che ora non dovrei essere qui.

Ho sognato lungamente papà, questa notte. Mi parlava, parlava a me. Allora ho pensato a Pavese e a quel che diceva lui del crescere:

A quei tempi non mi capacitavo che cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare delle cose difficili – come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedere morire, ritrovare la Mora com’era adesso.

Incidentalmente, dirò che 67 anni fa in questo giorno Pavese si tolse la vita, 67 come il mio anno di nascita. La vita e la morte, il ciclo della vita, i luoghi e la loro locità, l’essere nel tempo e nello spazio. Sono in un luogo che amo ma giocoforza non sono in pace con me. Mi viene in soccorso Quasimodo:

Non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno.

Ma comunque, insomma, anche se i pensieri non sono in ordine tout va bien. Leonardo Sinisgalli:

Si possono dimenticare i debiti
che abbiamo con il mondo.
Un lampo di beatitudine
non offende il nostro vicino.
Lui dorme sulla panchina,
il passero gli vola intorno.
Lui sogna il lebbroso
ma sentiamo che il suo male
non è contagioso.

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