Ott 09


È successo un anno fa, esattamente a quest’ora.

E, proprio come un anno fa, ho passato la mattina a fare cose insignificanti. Forse per non pensare.

Ma da tanto tempo non scrivo più di te. E questo non va bene, perché non deve arrivare il giorno in cui non si pronuncia più il tuo nome – quello sarebbe il giorno in cui tu moriresti davvero (ma non ti preoccupare papà, non succederà almeno fino a che io sarò in vita).

Non è che non ti pensi (Eduardo: “Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua”), peraltro; solo che già, ci si abitua al corso nuovo delle cose. Alfonso Gatto:

Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
“Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno”.

I “miei” poeti tante volte mi hanno aiutato, anche con te mi aiutano. Sì, perché ricavo da loro le parole che non so dire.

Onorare la memoria. Parlare di te, dentro di me parlare con te. Per me è sufficiente.

La cosa positiva è che ora il figlio è diventato il padre del figlio, e può proseguire il suo cammino con le sue proprie gambe. Fai tutte le somme e guarda l’ultima riga: nel mio milione di magagne credo che questa tua lezione io, in fondo, l’ho imparata bene. Tu non me l’hai insegnata, ma io l’ho imparata da te. Nel silenzio, appunto. Guardandoti. Guardandoti dormire sul divano, per esempio (“you’re innocent when you dream“). Ascoltando le tue parole misurate. Toccando con mano la tua gentilezza d’animo.

Sir James Matthew Barrie:

Non dovremmo forse inventare una nuova regola di vita… cioè cercare di essere sempre un po’ più gentili del necessario?

Quasimodo:

Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell’ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m’ha salvato da pianti e da dolori.

Tu non avevi bisogno di citazioni come queste, le cose le sapevi da te. Qualcosina ho imparato anch’io.

Vai lontano. Ritorni. Sei sempre qui.


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