Feb 03

Ki ha consumato il suo dio
a furia di pregarlo e di ripregarlo
per la paura di viver tutto e di non capire
per la vergogna mai digerita di dovere anche morire
(Davide Van De Sfroos, Ki)

Nita è una parola langhetta che conosco grazie a Batista. Nita è la pàuta, la paciarin-a, ovvero il fango, la fanghiglia, il pantano, insomma quella melma dove mi trovo e da cui non so – per il momento – uscire.

È una forma – un po’ allungata nel tempo, peraltro – della fatica di avere cinquant’anni.

Io so che io sono il centro del mio mondo, devo essere la base di me stesso. Questo mi è chiaro; la teoria la so bene. Eppure per uscirne ho bisogno di ragionare, che per me vuol dire scrivere. Scrivi fin ch’a basta, e peui scrivi ëncora ‘n pòch. Devo andare a pescare tutto il nero che c’è dentro di me, e per farlo devo scrivere.

La mia nita sono io che non ho un centro. Certo, la mia base sono io; ma forse adesso non ho forze sufficienti per fare io da base a me medesimo me stesso me.

La mia nita sono i rapporti che non funzionano, quel non riuscire ad andare avanti né voler tornare indietro.

La mia nita è fatta di nostalgia, di situazioni che oggi sono diverse rispetto a quelle di ieri, di me che non mi trovo più o non mi trovo ancora in questo mondo nuovo. Per esempio, più nello specifico la mia nita è la nostalgia del progetto di traversare la Corsica a piedi, un’idea di mille anni fa che non so se riuscirò mai a mettere in atto. La nostalgia del camminare fino a rimanere senza forze, e poi del procedere carponi per fare dieci metri in più.

La mia nita è il mio corpo che cambia e che invecchia, sono sensazioni fisiche nuove e sconosciute che albergano dentro di me. Gli occhi che vedono sempre meno, gli organi che funzionano sempre meno; e vammelo a spiegare che è il tempo che passa – di nuovo, la teoria la conosco bene.

La mia nita è la costatazione che un tempo avevo le idee chiare riguardo a quello che mi riguardava, mentre adesso navigo a vista e pare che questa cosa sia diventata normale.

La mia nita è questo girare in tondo e dover costruire una vita senza averne le forze.


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