Ël piemontèis a venta
parlelo. Che meisin-a. Mej che la revalenta.
[…] A venta scrivlo, òh già, e pì da-bin ch’as peul,
a scòla dl’arsigneul, un reul d’an pare an fieul,
dissionari a la man, sacrelo con la rima,
sima dla gòj, la prima.
Barba Tòni, Ël Pì-a-mont-tèis
Mi è venuta in mente, come dal nulla, questa mattina, questa splendida poesia di Barba Tòni (al secolo Antonio Bodrero), a mio modo di vedere la più alta manifestazione poetica della nostra lingua nella sua millenaria tradizione. (Tutta intera si trova qui.)
E mi è venuta in mente perché sto correggendo le prime bozze del libro su papà, che vedrà la luce in marzo, e perché questa poesia mi lega in maniere contorte (lineari non sono capace, o ciapoma travers o gnenti) ai due numi tutelari che mi accompagnano sempre qui di fianco allo schermo del computer (“I miei morti che prego perché preghino / per me”, direbbe Montale).
Quella poesia è legata a Batista perché nei primi tempi della nostra conoscenza avevo preso a chiamarlo revalenta (un ricostituente, potremmo dire), perché il suo irrompere nella mia vita mi aveva portato meraviglia e cure di cui avevo grande necessità.
Quella poesia è legata a papà perché Barba Tòni morì una settimana esatta prima che nascesse la mia primogenita, e papà e mamma andarono al suo funerale – io probabilmente ero preso dal lavoro e da tutte quelle faccende che ci paiono irrinunciabili sul momento, ma vuote e sciocche se pensate a distanza di tanto tempo.
Insomma ogni tanto mi faccio un pianto sereno pensando a chi non c’è più (c’è nel nostro ricordo in realtà, lì vive davvero). Poi le lascime si asciugano, e io mi sento più forte.
E, infine, è una magnifica sensazione quella di curare nuovamente, dopo tanti anni, un figlioletto, il mio quarto libro, che chiude un cerchio e apre delle porte. Il tempo è sempre circolare, io abbraccio idealmente i miei numi tutelari, chiacchiero con loro, oggi c’è il sole e la vita prosegue.