Giu 13

Peak
Che cos’è il talento? Questo è un libro denso, pieno, disruptive al pari del Cigno nero, che dà delle risposte che non saranno definitive ma vanno considerate con attenzione; non da ultimo perché Anders Ericsson è l’esperto mondiale della deliberate practice.

La versione breve, a mio modo di vedere, è che il talento puro non esiste. Ci possono essere persone che hanno più predisposizione rispetto ad altre verso un determinato compito, ma senza il duro lavoro quel loro “talento” non verrà mai fuori. (Sul punto rimando anche a quest’altra mia recensione.)

Questo libro è significativo sotto molti punti di vista (a me, ad esempio, attira tanto l’applicazione nello sport), ma soprattutto è da considerare per quanto riguarda l’apprendimento nei bambini e nei ragazzi: perché l’applicazione di metodi corretti alle persone che stanno crescendo e imparando può avere delle ricadute enormi, in primo luogo in termini di vita mentale più ricca di significato e più in generale nella società.

Il libro presenta il caso di Mozart, che però ormai è troppo ovvio. Generalmente si pensa a Mozart come genio precocissimo, mentre la realtà è decisamente differente: aveva alle spalle un papà che dedicò la sua vita a fare del figlio una stella della musica (come è avvenuto per Tiger Woods nel golf, per esempio; e chissà per quante altre eccellenze), e i suoi primi lavori sono di fatto opera del padre.

Mi viene in mente un caso che conosco bene, Cesare Pavese. Il suo talento nella scrittura è limpidissimo, ma è altrettanto vero che sin da giovanissimo dedicò infinite ore a raffinare il suo scrivere, a piallarlo, a limarlo, a renderlo completamente prono a quanto voleva dire.

Una citazione (p. 169):

The ones who are successful in losing weight over the long run are those who have successfully redesigned their lives, building new habits that allow them to maintain the behaviors that keep them losing weight in spite of all of the temptations that threaten their success.
A similar thing is true for hose who maintain purposeful or deliberate practice over the long run.

Naturalmente sul lungo periodo il problema principale è quello della motivazione, ma anche a questo c’è risposta (p. 172):

Once you have practiced for a while and can see the results, the skill itself become part of your motivation. You take pride in what you do, you get pleasure from your friends’ compliments, and your sense of identity changes.

Qui mi interessa anche approfondire il discorso relativo alla professione: quanto può la deliberate practice aiutare a diventare dei ‘maghi’ nel proprio settore? Che cosa distingue un traduttore eccellente da uno scarso? E perché, generalmente parlando, un medico di sessant’anni è di fatto meno efficace rispetto al suo collega di trentacinque anni? Come posso diventare un asso, un vero asso nel mio settore? La questione è molto complessa, perché si incanala in un ambito della conoscenza che stiamo soltanto cominciando ad esplorare, e che è fatta ancora di tantissime incognite; ma la deliberate practice è una risposta potente ed efficace.

Sì, e mi spiego con l’esempio personale. Se io prendo un ambito professionale in cui, immodestamente, so di essere eccellente – la scrittura tecnica –, vedo con chiarezza che questa capacità non mi viene da dentro o dal cielo o da chissà dove: mi viene dalla pratica costante e quotidiana della scrittura stessa, che è cominciata intorno alla terza media ed è proseguita in maniera ininterrotta lungo tutti questi anni, con modalità sempre più precise e definite. Insomma io oggi sono bravo a scrivere perché mi sono esercitato per trentacinque anni con scopi precisi, all’interno di regole accurate, con modalità ben definite. Poi entrano in gioco tanti fattori – la casualità, innanzitutto. Ma la sostanza rimane: il talento nudo e crudo non esiste, esiste l’applicazione metodica di un’abilità.

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