Giu 10

dittatore editoriale
Questo è un articolo datato, ma ne sono venuto a conoscenza qualche settimana fa grazie a Facebook e vorrei spenderci due parole.

L’idea centrale dell’articolo – che non posso condividere – è che traduttori come Pavese, Vittorini e Pivano non fossero all’altezza del compito. Capisco il punto di vista di chi scrive, ma se i “nuovi” (absit iniuria verbis) traduttori riusciranno a fare la metà della metà della metà di quanto hanno fatto quei “mostri sacri” (così li definisce l’articolista) per la diffusione della letteratura americana in Italia potranno dire di aver avuto un successone.

Mi limito ad un caso che conosco bene, la traduzione di Moby Dick di Cesare Pavese. È vero che quella traduzione, letta oggi, può far sorridere in diversi punti; è vero che contiene errori veri e propri, libere interpretazioni eccetera. Ma c’è un errore di fondo in questa posizione: considerare quella traduzione come se fosse stata fatta oggi, con i mezzi e le conoscenze di oggi, che non sono in alcuna misura paragonabili a quelle degli anni Trenta (la prima edizione è del 1932, ripubblicata poi nel 1941 con leggere varianti).

Va inoltre detto che il Pavese di quegli anni era tutto preso dal ritmo ternario. Per dirla con le sue parole (Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca), in: Lavorare stanca, Torino, Einaudi, 1973, p. 128 – il grassetto è mio):

Mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud e per parecchie altre poesie fu solo istintivo (restano tracce di questa incoscienza in qualche verso dei primi, che non esce dall’endecasillabo tradizionale). Ritmavo le mie poesie mugolando.

Insomma Pavese giovane leggeva – o cercava di leggere, ove ciò era possibile – i romanzi segnandoli mentalmente secondo una “certa tiritera”, che suppongo (vorrei dare le prove ma “suppongo” soltanto – e suppongo perché da giovane laureato avrei dovuto seguire le indicazioni che mi avevano dato Einaudi e Bobbio e proseguire gli studi su Pavese, ma litterae non dant panem e non lo feci) non possa essere che l’antesignana del ritmo ternario di Lavorare stanca – per stessa ammissione del poeta, un metro nato spontaneamente.

La traduzione inizia con una copia perfetta di settenari:

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa…

Ed ecco qualche esempio del ritmo ternario (sono tutti presi dalle prime tre pagine della traduzione):

Allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Il commercio la cinge con la sua risacca. A destra e a sinistra le vie vi conducono al mare. Il suo punto [più] centrale è il Bastione, dove quella mole illustre è ventilata dalle brezze [ho posto tra parentesi quadre una sillaba soprannumeraria rispetto al nostro computo].

Ancora. Voi siete in campagna, su qualche altopiano lacustre. Prendete qualsiasi sentiero vi piaccia […]. C’è del magico in questo.

Qual è l’elemento essenziale che adopera?

Gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro.

Ma anche questo col tempo dà giù.

Che cosa importa se qualche spilorcio di un capitano mi comanda di andare a prendere la scopa e strofinare i ponti?

Sono solo esempi. Tanti anni fa iniziai la stesura di un articolo critico sul tema, che però poi rimase nel cassetto delle cose belle che non faremo mai. Ma il punto centrale rimane: una pera più una mela farà sempre una pera più una mela – giù le mani da Pavese! Quegli autori, ai loro tempi, hanno fatto tantissimo per la diffusione della cultura letteraria americana in Italia, e noi – che siamo nani sulle spalle dei giganti, come direbbe Bernardo di Chartres – non possiamo che toglierci il cappello dinnanzi a loro.

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Mag 06

pecoranera
Avevo preso in biblioteca il suo libro – un approccio soft, come dire –, poi ho iniziato a leggerlo mi è piaciuto talmente tanto che mi sono vergognato: sono andato in libreria con un’amica, l’ho comprato e gliel’ho regalato seduta stante. (Da autore sono sicuro nell’affermare che i libri vanno comprati. Fine.)

Perché niente, io prima di morire voglio andare a conoscere Devis Bonanni, alias pecoranera. E voglio farlo perché scrive bene, perché è tosto, perché sa che cosa sta facendo e perché, perché ha dei dubbi ma anche dei punti saldi (quella capanna che liberò dai rovi, tanto per dire).

Voglio parlare con lui, spiegarmi, capire. Voglio sentirlo parlare, vederlo lavorare. Perché quella è una strada percorribile; ed è vero che io sono fortunato, lassù in montagna ho praticamente tutto pronto, ma chiunque può fare una cosa del genere. E “chiunque”, via tutte le balle, vuol dire chiunque.

Per me una recensione – e questa è una recensione, sia pure sui generis – non è tale senza almeno una citazione. Vorrei citare il libro intero, ma dovendo scegliere un passo opterei per questo:

Quando si inizia a essere la propria idea non c’è più necessità di parlarne, di farne propaganda, di urlarla addosso al mondo. Eccomi, sono qua a coltivare i miei pomodori, era questo che aveva sostituito le infinite discussioni sui massimi sistemi. Quel che avrei da dirvi lo sto facendo (p. 176).

La pagina Facebook parla del libro in questa maniera:

Tra le montagne della Carnia, la straordinaria storia di un ventenne e della sua scelta di vita coraggiosa e controcorrente, a mezza strada fra i libri di Mauro Corona e “Adesso Basta” di Simone Perotti.

E questo sì, è vero, ma c’è di più: nel senso che lui è lui e basta, non assomiglia a nessuno se non a se stesso. Non lo voglio mitizzare perché non lo conosco (ancora) ma insomma voglio dirti bravo Denis, sei in gamba.

Poche parole, via tutte le balle, si fanno i fatti: i fatti parlano per noi.

Gen 30

photo courtesy of Andrea Tuveri

Per l’esperienza che ho io, i funerali sono affari da sbrigare in fretta: si piange, certo, ma molto privatamente, si chiude la bara e ciascuno va per la sua strada. Ma con David Henderson no, era buono e giusto fermarsi un momento di più.

Giovedì ho assistito ad una lezione di civiltà proveniente da oltremanica. È vero, certo, che ritardare di tanti giorni un funerale vuole dire stress che si accumula per le persone che volevano bene a chi se ne è andato; ma è altrettanto vero che il dolore composto è sfumato poi nei toni verso una pacata allegria, in ricordo, in memoria e in onore dell’amico scomparso.

In pieno stile davidiano, come mi ha fatto notare il ragazzo che viene dall’isola, c’è stato un attimo in cui dalla camera ardente è uscita una bara – non era quella giusta – e il piccolo corteo si è incamminato sui suoi passi. Humour inglese…

Il tempio della cremazione, poi, era stracolmo. Persone e familiari che gli hanno voluto bene hanno commemorato in maniera magistrale il compagno, il fratello, l’amico. Non posso non ricordare il discorso di Simon Turner, che commosso fino alle lacrime ha espresso immensa riconoscenza per l’amico che lo aveva avviato alla carriera di traduttore, e poi ha ricordato le sue (sue di David) stesse parole, scritte in occasione della morte di un caro amico:

[cito a memoria] Oggi farò un buon pranzo e berrò un buon bicchiere in onore dell’amico scomparso. Forse potrò anche ubriacarmi, perché così lui avrebbe voluto.

Dopo la cerimonia c’è stato un lungo brindisi per David in un caffè della zona, dove persone sconosciute tra di loro hanno avuto maniera di familiarizzare e ricordare l’amico. Ed è stata anche l’occasione per un “mini-raduno Langit” del tutto estemporaneo, in cui ho provato la sensazione di trovarmi in mezzo a molti tra i senatori – David era certamente tra questi, ben presente in mezzo a noi – della lista.

Ho scorso velocemente dentro di me i miei quindici anni di Langit. In quindici anni ci si sposa, nascono dei figli, ci si separa, si muore, si fanno tante cose, alcune significative e la maggior parte senza importanza. Ma la vita scorre e guardare indietro, vedere quelle persone che sono amici cari – alcuni tra i quali mai visti prima, stranezze del mondo digitale – è stato bello. David certamente avrebbe dato la sua approvazione. Senza tante parole, senza voler apparire.

Qui un ricordo di Giulio Pianese, “Zu” per gli amici.

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Gen 23

foto di Cristina Caimotto


Be’, io sabato mattina avevo preparato il post per oggi, era un post normale, come tanti, dove dico le mie opinioni e il mondo continua.

Ma alle due del pomeriggio il ragazzo che viene dall’isola mi dà la ferale notizia: David Henderson è mancato ieri sera.

Ecco, questa cosa è proprio grossa, ci lascia senza fiato e parole. Io… io conoscevo David anche se non troppo bene, l’ho incontrato alcune volte e abbiamo lungamente scambiato pareri ma le cose si sono fermate a quel punto, alla conoscenza cordiale che precede l’amicizia. Succede, niente di male in questo; ora però sapere che questo grande traduttore, amico di tantissimi traduttori, persona onesta, retta, di cultura eccelsa, intelligentissima e soprattutto ironica e autoironica non è più qui, sapere questo è un fatto difficile da digerire.

Allora ho pensato ai momenti belli passati insieme, al raduno Langit a Casa Scaparone per esempio, e ho dato un senso minimo ad un fatto che non ha spiegazioni: conoscerlo è stato un raro privilegio.

Tutto ciò significa probabilmente che dobbiamo dare valore, molto valore, assoluto valore, ad ogni singolo momento che ci è concesso, perché domani potremmo non essere più qui a raccontarlo. O forse non significa nulla, chi sa.

E che il sonno, David, ti sia leggero.

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Ago 15

La Piatta, luogo sperduto nei boschi sopra Cuneo dove sono stato fin da bambino (e dunque dove sarò per sempre – è questa l’essenza del mito), luogo che mi piace definire “casa” soprattutto per il piacere di farvi ritorno dopo le partenze, si è animata ieri per un pranzo di famiglia.

Quegli stessi pranzi che da ragazzo aborrivo perché noiosi sono diventati adesso una delle figure (nel senso auerbachiano del termine) della serenità e della completezza.

Ascoltavo le parole dei miei commensali, partecipavo rilassato ai discorsi, sentivo la vita scorrere in quei momenti distesi. Quel cibo e quel vino mi sembravano passare direttamente dalla terra dentro di me, mi sentivo parte di un flusso naturale.

Pensavo che la felicità è fatta proprio di cose piccolissime, di piaceri minimi con persone che sempre e comunque saranno dalla tua parte. O forse più che pensarlo ero io stesso l’espressione di quel pensiero.

Insomma questi boschi e queste montagne sono parte di me, hanno fatto e plasmato il mio corpo e il mio spirito. Anche queste sono radici.

Mag 09


Aveva ventun anni, correva l’anno 1979. Nel giro finale del British Open, alla buca 16 del Royal Lytham & St. Annes, spedì la pallina in un parcheggio; dovettero spostare un’auto affinché lui potesse droppare ma fece birdie (e poi vinse il titolo).

Lui è Seve Ballesteros, ovviamente.

Ma negli anni la discesa fu inesorabile. I colpi di un tempo che non gli riuscivano più. È triste il passaggio da numero 1 al mondo a ex giocatore: cos’ha in testa il mago Walter quando il trucco non gli riesce?

Poi la lotta contro un tumore al cervello. Tutti che facevano il tifo per lui. Operazioni, ospedali, ansia. Forse rassegnazione. (Cosa sappiamo noi dei pensieri di un semidio caduto?) Sabato, a 54 anni, la fine. Da un paio di giorni è una leggenda del golf, qualcuno di cui si parlerà tra cent’anni quando tutti noi saremo polvere.

Allora questo è quello che intendo quando dico “morirai comunque”, un invito – a me stesso innanzitutto – ad adoperare ora i talenti di cui dispongo per fare della mia vita, diciamolo alla Pavese (lettera a E., 14 ottobre 1932),

la cosa più bella di cui sarò capace.

Riuscirai a fare birdie tirando da un parcheggio?

Esprimerai al massimo i tuoi talenti?

Capiremo, guardando la tua vita all’indietro partendo dalla fine, che era proprio la tua, esattamente la tua, solo la tua?

Riuscirai a fare birdie tirando da un parcheggio?

Mar 21


No, dico, non è cosa da poco. Il concetto di lettura sta cambiando, e cambiando in maniera assai rapida. Da tempo rimando l’acquisto di un lettore di ebook, ma so che non potrò farlo indefinitamente. E allora penso a tutti i libri della mia libreria, fatti di pensieri di pensatori e autori con cui sono cresciuto, che hanno formato il Gianni di oggi, e li immagino da domani cedere tutti insieme mestamente il passo a un aggeggio dal peso di trecento grammi.

Non solo: ma penso anche che non leggerò mai più libri come La storia di Elsa Morante, ottocento pagine in corpo dieci che presero un paio di giorni del Gianni venticinquenne, in un’incantagione piena di fascino e con un senso intenso di letteratura che mi circondava. Ora mi spaventa la mole, l’ho portato da casa alla Piatta (la mia isola felice in mezzo ai boschi) ma anche là credo che rimarrà chiuso, una sorta di messaggio in bottiglia che nessuno leggerà più. Ahimè.

E per estensione mi viene in mente anche quanto scrisse Umberto Eco in Come si fa una tesi di laurea:

Sovente le fotocopie agiscono da alibi. Uno si porta a casa centinaia di pagine di fotocopie e l’azione manuale che ha esercitato sul libro fotocopiato gli dà l’impressione di possederlo. Il possesso della fotocopia esime dalla lettura. Succede a molti. […] Difendetevi dalla fotocopia: appena avutala, leggetela e annotatela subito.

Ho finito da poco di leggere un bel libro sul tema, Internet ci rende stupidi? Come la Rete sta cambiando il nostro cervello, di Nicholas Carr. L’autore non dà giudizi, ma cerca di presentare la situazione che abbiamo dinnanzi a noi nella maniera il più possibile obiettiva. E mi è venuto in mente un altro paio di libri letti anni fa su temi molto simili: Giuliano da Empoli, Overdose. La società dell’informazione eccessiva e Gabriel Zaid, So Many Books. Reading and Publishing in an Age of Abundance. Evidentemente è un problema che sento da tempo. Ed evidentemente non sono solo in questo disagio.

Ho sottolineato anche (cosa sarebbe leggere un libro senza la compagnia di un evidenziatore?) un passo del libro di Carr che mi ricorda Il Cigno nero:

Il flusso pressoché continuo di informazione che si riversa dal Web fa leva anche sulla nostra tendenza naturale a “sopravvalutare largamente quello che ci succede proprio adesso“, come spiega lo psicologo dello Union College Christopher Chabris. Desideriamo ardentemente il nuovo anche quando sappiamo che “il nuovo è molto più spesso banale che essenziale”.

Adoro la tecnologia e i benefici che porta – anche se credo, con Fabian Kruse, di non aver bisogno di un iPhone per essere felice –, ma sono un poco confuso. Non dico né credo che la situazione di oggi sia peggio di quella di ieri relativamente alla lettura e all’articolazione del pensiero, solo che sono un po’ confuso.

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Dic 06


Ho conosciuto Rossella Bernascone ad un intervento organizzato dall’AITI. Mi ha colpito, di quel tardo pomeriggio, una parola che ha usato spesso, “passione”. Mi è risuonata a lungo in testa. Passione per il lavoro fatto bene, passione per quello che si fa e per come lo si fa. E l’effetto di entrare nel “laboratorio” che lei e Susanna Basso descrivevano è stato per me – per dirla con Pavese – come “toccare un filo di corrente”, ovvero un riandare ai miei anni universitari in cui la letteratura mi avvolgeva (“intenso senso di letterarietà dell’esistere”, così descrivevo allora a me stesso quel periodo).

Insomma mi ha colpito l’amore di Rossella per la parola scritta. E oggi mi rendo conto che se mia figlia undicenne, che legge un paio di libri a settimana (non so se sia un bene o no, ma sono riuscito a passarle – o meglio, lei è riuscita ad afferrare – quello che Bobbio chiama “il morbo della lettura”, quello che ti fa chinare per terra quando vedi un biglietto del tram per leggere che cosa c’è scritto sopra), conosce opere come Diario di una schiappa nelle sue varie versioni è merito di Rossella (non esclusivo, per carità – sento già il suo schermirsi; ma uno zampino suo, e grosso come una casa, c’è, e come!).

Allora le ho chiesto se le andava di rispondere a qualche domanda sulla traduzione e sull’insegnamento. Sono lieto che abbia accettato, e il risultato è qui a seguire.

Gianni: In questo tuo video di presentazione dici: “Faccio […] la traduttrice letteraria nel tempo libero, diciamo – è quasi un hobby, quello”. Quando io mi sono laureato gli incoraggiamenti di Einaudi e Bobbio mi avevano molto lusingato, e dentro di me sapevo che il mio mestiere naturale sarebbe stato l’editor, il revisore dei testi degli altri. Tuttavia ho dovuto scegliere tra la letteratura e il campare, ed è venuto fuori il campare. Che cosa diresti tu al me stesso di allora? Ovvero, che cosa diresti al neolaureato di oggi che si trovi ad un bivio simile? Quali suggerimenti?

Rossella: Non so cosa direi al te stesso di allora, erano tempi diversi…; ma so cosa direi a un neolaureato che mi chiedesse un parere adesso. Direi: segui la tua vocazione. Sappiamo bene che di questi tempi non si presenta quasi più la dicotomia tra la letteratura e il campare. Non certo perché tutti possono avere il lavoro dei propri sogni, ma anzi proprio per la ragione opposta. Conosco fior fiore di laureati che lavorano in un call centre, ma a fianco continuano a perseguire la loro vocazione.
Ho la sensazione che oggi, più che in altri periodi, si stia creando il futuro. Le grandi difficoltà che la crisi ci chiede di affrontare, possono essere altrettante possibilità di sviluppo.

G: A latere, sarei molto curioso di sapere come vedi il futuro del mestiere di traduttore.

R: Mi fai delle domande difficili! Stiamo parlando di traduttori editoriali vero? Perché degli altri non ho grande esperienza.
Nella mia sfera di cristallo 😉 vedo che in futuro i traduttori saranno sempre meno isolati, e non soltanto per le associazioni di categoria, o per le mailing list eccetera, ma perché ho già visto che diversi miei allievi hanno formato delle agenzie di traduzione specialmente per cataloghi d’arte e traduzioni specialistiche.

G: Mi piacerebbe sapere che cosa pensi delle associazioni di categoria (AITI, SNS eccetera). Le ritieni utili per un traduttore?

R: Per i traduttori editoriali penso che si potrebbe fare molto, prendendo spunto da altri paesi (la Norvegia in testa).

G: E della proposta di un ordine professionale dei traduttori?

R: Non ho esperienza degli ordini professionali e quindi non so se possano avere un’effettiva utilità per i traduttori. Io credo che sarebbe necessario avere degli standard di qualità sia da parte dei traduttori sia da parte dei committenti. Un ordine sarebbe garanzia di qualità?

G: Presso l’agenzia formativa tuttoEUROPA hai tenuto un seminario dal titolo Psicologia della traduzione. Sarei curioso di saperne di più.

R: È un seminario che tengo regolarmente per la scuola di specializzazione per traduttori editoriali. Nasce dall’incontro di due interessi: sono anche un counselor e la psicologia è sempre stata un grande interesse della mia vita. La UE, che finanzia i corsi, richiede che vengano espletate alcune ore di questa disciplina, nulla di meglio quindi che unire le due cose: così conduco i partecipanti attraverso tre incontri ad ascoltarsi meglio per ascoltare meglio il testo.

G: Mi parleresti di Mrs Carter?

R: È un’altra esperienza bellissima! È nata alcuni anni fa da un’idea di Ada Arduini e Gioia Guerzoni. Abbiamo informalmente costituito, insieme a Susanna Basso, un quartetto che ogni anno organizza un seminario autogestito per traduttori professionisti. Per tre o quattro giorni si lavora insieme a un autore inedito in Italia su un suo testo, gomito a gomito. È un lusso sfrenato per noi traduttori essere in compagnia di ottimi colleghi e dell’autore e avere il tempo di sviscerare e confrontare ogni scelta. Ne usciamo sempre rivitalizzati!

G: Qui parli del GNH (Gross National Happiness), che è a mio parere un indicatore che potrebbe diffondersi nel prossimo futuro. Mi sembra un commento solo abbozzato. Vorresti approfondire?

R: Oh questa è un’idea geniale del quarto re del Bhutan (che se non avesse già quattro regine, gli farei una proposta di matrimonio!), quando salito al trono intorno al 1974 a diciassette anni, con tutto l’idealismo di un teenager ha coniato l’idea della felicità interna lorda che dovrebbe essere un indicatore più preciso sulla salute di uno stato del prodotto interno lordo. C’è tutta una serie di parametri per misurare la felicità dello stato e un paio di anni fa, in occasione dell’incoronazione di suo figlio il quinto re, la stampa mondiale si è interessata al Bhutan e a questo concetto che pare essere molto saggio e potenzialmente applicabile in futuro. Io mi trovavo in Bhutan proprio in quei giorni e così avevo scritto il pezzo per Giudizio Universale.

G: Hai detto (scherzosamente, ma forse solo fino ad un certo punto) che vorresti scrivere un libro tradotto in 21 lingue. Sono affascinato dalla tua scrittura. Quando vedremo un tuo libro pubblicato? (Ho visto che in passato hai pubblicato qualcosa ma, voglio dire, un libro con tutti i sacri crismi?) E sarà un romanzo o un saggio? O magari un’opera teatrale?

R: Com’è un testo con tutti i sacri crismi? Io vado assai fiera di quel mio lontano libro, L’ABC della traduzione letteraria: era un saggio postmoderno sul Compito del traduttore di Benjamin. Ora si trova solo in qualche biblioteca ed è bene così perché ha fatto il suo tempo. Poi sono affezionata a molte delle traduzioni pubblicate; mi considero autrice di traduzioni e per quanto mi riguarda le “scrivo”. Non so se pubblicherò mai altro. Ma se così fosse credo che potrebbe essere un memoir, o un’opera teatrale. Meglio ancora un memoir in forma d’opera teatrale!

G: Passione è una parola che adoperi spesso. Che cosa significa esattamente per te?

R: Credo che sia un sinonimo di entusiasmo, con quel briciolo anche di sofferenza che la parola “passione” richiama, perché per le proprie passioni bisogna essere pronti a fare sacrifici. E perché più ci si identifica con quel che si fa, più si è destinati a soffrire. Ma non è necessariamente male, no? È un’esperienza di vita.

G: Infine?

R: Un eterno inizio.

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Mar 10

Ovvero: buona parte di quello che so del mio mestiere non l’ho imparato a scuola

Danielle LaPorte non ha certo bisogno di presentazioni. Mi ha colpito un suo recente post, un elenco di errori che sarebbero da evitare ma che, se commessi, sono una manna perché insegnano molto sul proprio lavoro e soprattutto su di sé.

Mi sono ritrovato in molti di essi, e in particolare nel numero 3 (Got a workspace too soon), perché in quelle righe mi è sembrato di ripercorrere l’intera storia logistica di Tesi & testi.

Il mio primo ufficio era una stanza di 15 metri quadri circa e col bagno in cortile (era il 1995 – nel 1940 non ero ancora nato): lì comunque ho posto le basi per il futuro, ho avuto intuizioni che mi piace definire brillanti e ho provato emozioni intense riguardo alla mia creaturina di allora. (Come ad esempio la gioia di possedere un vero fax.)

Poi nel 1997 capii – meglio, credetti di capire – che un imprenditore deve avere tra le altre cose molto spazio per la sua azienda e un ufficio angolare per sé. La nuova sede era elegante, spaziosissima, molto bella da vedersi e confortevole come ufficio: ma di fatto ho passato anni interi a lavorare per pagarla.

Quando ci siamo spostati le cose sono migliorate, ma sono andate veramente a posto solo 14 anni dopo (sono lento a prendere il ritmo in tutto quello che faccio, è uno dei miei 800 difetti), quando il cerchio si è chiuso e sono ritornato nell’appartamento che fu della madre superiora. Spazi piccoli, vita di provincia, soddisfazioni enormi; e la bottom line non può che beneficiarne.

Gli errori, una manna dal cielo. Grazie Danielle.

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Gen 17

Lunedì 25 gennaio alle 10 Renato Beninatto parlerà alla LUSPIO – via Cristoforo Colombo 200 a Roma, aula 6, secondo piano – sul tema “Nuove figure professionali e prospettive per nuove opportunità di lavoro”.

Non mi serve sapere qualcosa nello specifico di questa conferenza, che è gratuita e aperta a tutti, per dire che è un’occasione splendida per chiunque voglia capire di più del mondo del lavoro di oggi e di domani.

Qualunque traduttore (almeno) che non abbia le idee chiare al 100% sulla sua professione e che si trovi nel raggio di 200 km (almeno) dovrebbe secondo me prendere in considerazione l’idea di partecipare.

Occhio alle controindicazioni! Può provocare irritazione, perché è tenuta da un provocatore – della specie migliore che io conosca – per natura. Ma può anche rivelarsi un incontro che cambierà in meglio il futuro di molte persone, perché Renato ha la rara dote di pensare fuori dagli schemi.

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