Dic 15

TF
È morto un amico, qualche giorno fa.

Un ragazzo di 82 anni, sempre col sorriso sulla bocca e una parola buona per tutti. Sempre di buonumore, qualcuno che portava gioia ovunque andasse.

Se n’è andato così, in un momento, senza nessun tipo di preavviso.

Per il giorno del funerale mi sono tornate in mente le parole che Simon Turner pronunciò all’orazione funebre per David Henderson:

Oggi farò un buon pranzo e berrò un buon bicchiere in onore dell’amico scomparso. Forse potrò anche ubriacarmi, perché così lui avrebbe voluto.

Allora proprio in quel momento ho scelto di fare l’attività che amo di più, giocare a golf. Ho giocato a golf durante il suo funerale, perché la sua volontà sarebbe stata la gioia e non certo le lacrime.

Il giorno dopo sono andato a trovarlo al cimitero. Ho cercato a lungo la tomba, poi grazie ad un aiutante magico che si è materializzato nella forma della signora dei fiori l’ho trovata. Sono stato con lui per un po’, gli ho parlato, ho versato qualche lacrima. Poi sono andato a casa sua a fare le condoglianze alla famiglia, e a portare la mail che gli avevo scritto qualche settimana fa dopo il nostro ultimo incontro e che – poiché non avevo ricevuto risposta – avevo in animo di portargli di persona giovedì scorso all’inaugurazione di questa mostra, dove ero certo che l’avrei trovato. Ma la sera prima è arrivata la ferale notizia, e questo non è più stato possibile. Ho pianto a dirotto di fronte alla figlia, l’emozione mi impediva di trattenermi ma ho detto le poche parole che intendevo dire.

La lezione che lui ci lascia – che mi lascia – è che la morte possiamo sconfiggerla solo volendoci bene tra di noi e sorridendo sempre. Domani sarà troppo tardi per qualunque cosa.

In più, non dobbiamo avere paura, non dobbiamo scappare. Non è stato gioioso andare a casa sua ma è stato bello.

Con tutta la gioia che ci hai portato il sonno, mio caro Tòjo, ti sarà leggero.

Dic 01

festa

Sabato 22 novembre si è tenuta una conferenza – brillante e viva, molto più di quanto mi sarei aspettato – che è stata di fatto un fare il punto sulla lingua piemontese oggi. Ne ho scritto qui; ne ho scritto in piemontese perché mi viene difficile conversare della mia lingua in una lingua altra, sia pure quella dominante e quella che è per me normale per i pensieri pubblici.

Ora, passato qualche giorno, vorrei fare qualche considerazione un pochino più distaccata. (Per quanto ciò sia possibile, perché con Tavo Burat so che “‘L piemontèis a l’é mè pais. / Tuta la resta a l’é mach d’anviron”.)

Prima di tutto, occasioni come queste sono utili per fare la conta delle cose e delle persone: guardarci in faccia, noi rari nantes in gurgite vasto, riconoscere che c’è un problema (e sì, mi rendo conto che al mondo ci sono questioni ben più pressanti, ma è il tempo che ho dedicato alla mia rosa a rendere la mia rosa così importante, insomma).

Il problema esiste, questo è certo. La diminuzione dei parlanti (tacciamo degli scriventi, visto che il 98% dei parlanti la mia lingua è di fatto analfabeta – absit iniuria verbo –, ovvero non è in grado di scriverla) è fatto noto e riguarda tantissime lingue del mondo, non certo solo la piemontese.

Però vorrei dire: il mio rapporto con il piemontese è tranquillo, non è fatto di battaglie o di aspettative. Il piemontese è il mio paese, è la lingua in cui penso quando mi arrabbio, è quell’idioma che vorrei conoscere meglio in tante sfumature che mi sfuggono ma che alla fine penso va bene così, ho iniziato a sentire questa lingua dal mio primo giorno di vita, è lingua normale di comunicazione e di pensiero e di fatti, per me. Certo mi dispiace vederla denigrata ma insomma costituisce la mia normalità, non c’è giorno che non la adoperi parlata e scritta, mi accompagna, mi porta verso la maturità e sperabilmente mi porterà verso la vecchiaia. La so parlare, la so scrivere, la parlo e la scrivo correntemente ma non devo dimostrare alcunché a chicchessia, non devo convincere nessuno.

Né penso che ci sia una cesura tra l’ieri e l’oggi. Questa lingua è un continuum lungo dieci secoli, ha attraversato miseria e guerre ed è ancora qui, oggi tante persone le vogliono bene e la adoperano. Per me, per me personalmente è una necessità; no, di più, è una normalità. Questa lingua mi definisce, mi aiuta a sapere chi sono e da dove vengo.

Che FB porti a un appiattimento, che questa lingua venga adoperata a sproposito non è rilevante, a mio modo di vedere. Ovvero: vista dall’interno questa lingua è viva, e come! L’appiattimento vale per tutte le lingue, mica solo per quelle regionali.

Dice: “non serve a nulla”. Be’, io sono la prova vivente che non è così, serve a definire il mio mondo e questo mi basta. La politica potrebbe fare mille cose belle ma non le farà, non arriverà la cavalleria a salvare una cultura e dunque ognuno di noi farà la sua parte e andrà bene così.

Feb 10

neve alla Piatta
Sono stato nel mio rifugio tra i monti, qualche giorno fa. Una toccata e fuga – di fatto una notte –, ma significativa per più d’un motivo.

L’occasione l’hanno fatta due conferenze – questa e questa –, e mi è venuto bene unirci una notte a casa mia.

Sono state ore molto intense, dentro di me (e rasserenanti, ça va sans dire), a partire dalla vista della linea delle Alpi Marittime che incorona la piana di Cuneo. Sia detto incidentalmente, per parte di mamma provengo da una famiglia povera di pianura, fatta di terra e nebbia e fango, ma la mia natura mi porta inevitabilmente verso quelle montagne – povere anche loro: quindi andare verso le montagne, in un pomeriggio di un giovedì qualunque, è stato come tornare a casa dopo un lungo viaggio in luoghi stranieri.

È stato particolare vedere la Bisalta “ingrossata” e pienotta per la neve, mentre l’immagine che ne ho è di montagna snella e verdissima. Correre (ma tanto sono allenato, non è un problema) per arrivare in tempo alla prima conferenza. Arrivarci. Trovare – con piacere – la sala piena.

Di questa prima conferenza, tenuta dal professor Alessandro Vitale Brovarone, mi ha colpito una frase in particolare: “Non credo ai confini linguistici”, che è una bella dichiarazione di pace tra le lingue; e in ciò ho trovato conferma della mia idea, a riguardo dell’isoglossa che dovrebbe passare per San Damiano Macra a dividere il piemontese dal provenzale alpino; ma che di fatto non esiste, poiché due persone abitanti in due paesi confinanti, anche se le carte dovessero dire che hanno parlate differenti, si comprenderanno sempre. Il professore parlava della società transmontana – semplificando, quella delle nostre Alpi – che può non avere avuto interesse ad andare verso la pianura: il che può contribuire a spiegare da un lato l’unità di una lingua attraverso le montagne (queste Alpi, è importante che sia chiaro, sono sempre state un passaggio piuttosto che una barriera per le popolazioni che le hanno abitate, e di conseguenza il provenzale si estende in maniera naturale fin quasi alla pianura), dall’altra le differenze verso il piemontese della pianura; anche perché, per citare ancora il professore, “normalmente a fondo valle cambia musica”.

Il secondo incontro cui ho partecipato raccontava di un fatto minimo successo nel mio comune d’adozione tanti secoli fa. Il fatto in sé non è importante, è importante aver visto una piccola comunità riunita in una moderna vijà; e mi ha colpito il fatto che tale intervento sia stato condotto in piemontese. Mi ha colpito solo fino a un certo punto però: il piemontese – ël montomalèis, per essere precisi – è l’idioma del luogo, in quale altra lingua vorresti parlare?
la pian-a
Poi, finita la conferenza e le parole con gli amici (incluso l’abbozzo di un corso di grafia piemontese da tenersi quest’estate: pare incredibile, ma scrivere in piemontese per un piemontofono analfabeta in questa lingua – absit iniuria verbo, ma questa è la normalità per il 98% almeno dei parlanti – è di una facilità che fa impressione, come sono sicuro potrò dimostrare nei fatti da qui a pochi mesi), è stata la volta di andare a casa. Casa mia. Per la prima volta in tanti decenni di frequentazione ci andavo da solo, e mi è parsa un’anticipazione della mia vita futura, difficile e bellissima. Difficile perché isolata, bellissima perché vera, piena, viva.

Ho dormito al freddo, e mi è sembrata una cosa sana.

Mi sono svegliato e ho fatto colazione col caldo buono della stufa. Il caffè e il latte li ho scaldati col fuoco della stufa – poteva essere diversamente?

Fuori c’era la neve. Poco più in là sentivo il latrare – ij giap – dei cani del nostro padrone di casa, e a catena di altri cani di altre case più lontane. Le cose familiari erano ammantate di neve. Certe sensazioni sono minime, ma bastano a farti sentire in pace con te.

Nov 04

Sergio Arneodo
Io credo che occorra partire dalla fine, e da lì tornare indietro. E allora comincerò dall’omelia che sabato, in una chiesetta di montagna strapiena, e i microfoni fuori ad amplificare le parole per le tantissime persone giunte a dare l’estremo saluto a Sergio Arneodo, padre, nonno, suocero, professore, scrittore, poeta, cantore della montagna, il prete ha pronunciato per il funerale di questo piccolo grande uomo. In una parola lui ha detto che quel che conta è l’eredità che lascia: e l’eredità di Arneodo non si misura certo in denaro, ma in opere, pensieri, libri e così via.

Arneodo era un grande uomo, e voleva bene alle sue montagne – terra povera e difficile, ma terra sua e dei suoi padri e dei padri dei suoi padri. Per questo mi sono commosso quando la salma, dopo la cerimonia, è stata portata per il paese per un addio monti semplice che vale più di tante parole. Tutto nel piccolo paese di Sancto Lucio de Coumboscuro era silenzio, un silenzio fatto di rispetto e commozione e presenza.

Presenza, non assenza: perché l’insegnamento del magistre è davanti a noi, pronto per essere colto.
Sancto Lucio de Coumboscuro
Credo che il succo del discorso di questo magistre è che la montagna – la montagna del silenzio voglio dire, quella povera e sincera, non certo i centri sciistici rinomati – ti dà tanto. Come per il lavoro tu vieni pagato, la montagna ti paga per l’attenzione che le dedichi, ma lo fa con una moneta molto più importante del denaro: ti ricarica lo spirito.

Devi imparare ad ascoltarla, è chiaro. Devi dedicarle tempo. Ma ti ripaga, questo è certo. E penso anche che sia una risorsa preziosa in termini di posti di lavoro, di turismo e così via: qui però i discorsi si fanno molto articolati, richiedono amministrazioni illuminate e politiche sagge e accorte. Ne parleremo un’altra volta.

Certo la montagna è difficile. Metaforicamente è come una poesia di lou magistre (I avìho lou fuèc):

Sabìen qu’i avìho lou fuèc dins lis encrénos
de la mountagno, sout li mèrse e vrous
li bars, li pra, li estabi, sout li crous
dal cementièri. Avìhen guinchà
la tépo, se tubavo ente se féno,
se làuro, s’arpìo l’uèrge poursierous
per li òuchos de l’adréch. Derén es rous
chapuéi li gerp, despì a charamaià
sus nostro gént. Din ta néu, moun Deiniàl,
laissén la marco oulvro, sus lou lindàl,
di nuestes pihà.

È difficile (del resto il provenzale di oggi, come pure l’italiano, ha radici ben fondate nel trobar clus), ma ti ripaga in maniera molto più che proporzionale. A patto che tu sappia e voglia ascoltarla, naturalmente. Credo che questa, in poche parole, sia la lezione di Sergio Arneodo.

Arveire, magistre.

Set 30

Sono di fatto un bilingue.

Certo, quando dico che le mie lingue madri sono l’italiano e il piemontese (non necessariamente in quest’ordine), leggo un po’ di smarrimento negli occhi di chi ascolta. E lo capisco: nella percezione comune il piemontese è un dialetto, non una lingua. (Che sia lingua da un punto di vista scientifico e storico, che abbia dieci secoli [sic] di tradizione scritta, che da quattro secoli si scriva grossomodo alla stessa maniera, che abbia vocabolari, grammatiche eccetera sono realtà che non fanno testo, visto che sono informazioni “per felici pochi”, per dirla alla Morante.)

Il mio bilinguismo è qualcosa che non serve a nessuno se non alla mia identità, a vivere una vita mentale più ricca. Apparentemente, non farebbe nessuna differenza se non parlassi e scrivessi piemontese: questa lingua non serve a nulla, per così dire. Ma il pericolo – parlo per me – è di trovarmi senza lingua materna e non voglio che accada, tutto qui. Il pericolo è per esempio di colui che è emigrato e ha perso la sua lingua senza trovare davvero la lingua del paese che l’ha accolto, e ad un certo punto si è trovato senza identità.

(Prescindo qui da tutte le opportunità che mi provengono dal conoscere altre lingue oltre alla prima e alla seconda, parlo solo delle mie lingue materne.)

Chi sei tu, veramente, senza una lingua tua, quale che sia? Una lingua ti definisce, è il tuo paese, sei tu. Quando penso alle parole che vivranno almeno fino a che vivrò io mi sembra un bel posto, il mondo. E mi sovviene GianRenzo Clivio:

Mia part i l’hai fala, ij mè cit a parlo piemontèis e fin ch’i vivo i l’avrai da parleje piemontèis a quaidun.

E infatti quando le mie figlie sono nate non ho potuto che parlare loro in piemontese: perché, per dirla con Tavo Burat,

‘L piemontèis a l’é mè pais.
Tuta la resta a l’é mach d’anviron.

E così sarà finché vivrò. Loro mi rispondono e mi risponderanno in italiano ma non ha importanza, il mio cuore mi dice che questo è giusto e tanto mi basta.

Queste due lingue in cui mi sono rimescolato e mi sono conosciuto mi definiscono, qualunque cosa accada; sono una compagnia e una difesa, una consolazione e un mezzo. Sono parole: parole inutili, parole incantevoli. Pavese:

Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro.

Capisco, però, che le lingue sono comunque argomenti delicati, perché entra in gioco l’identità della persona. In più, credo che l’etichetta di “piemontese” abbia per molti un’accezione negativa, perché da un lato fa venire in mente il contadino e le montagne, dall’altra ricorda pagine controverse della storia d’Italia.

Ebbene, il mio piemontese è semplicemente un altro paio di occhiali per guardare il mondo. Se fossi nato da un’altra parte avrei un’altra lingua a dare forma ai miei pensieri. Non ho nessuna pretesa di superiorità, nessun desiderio di rivalsa di nessun genere, niente da insegnare a chicchessia.

E poi credo che questa lingua, come tutte le lingue del mondo, sia un’apertura verso l’esterno, certamente non un chiudersi a riccio in un castello dorato dove le persone parlano solo la mia lingua. Il mio bilinguismo insomma mi aiuta a cercare di capire chi è diverso da me; e mi fa apprezzare lingue – e dunque culture – distanti e diverse.

Tutto qui. In maniera molto semplice e tranquilla.

Mar 05

Torno sul mio bilinguismo, di cui ho parlato lunedì scorso, per precisare il concetto dal momento che temo di non essere stato sufficientemente chiaro.

In primo luogo capisco che le lingue sono sempre argomenti delicati, perché entra in gioco l’identità della persona. In più, credo che l’etichetta di “piemontese” abbia per molti un’accezione negativa, perché da un lato fa venire in mente il contadino e le montagne, dall’altra ricorda pagine controverse della storia d’Italia.

Ebbene, il mio piemontese è semplicemente un altro paio di occhiali per guardare il mondo. Se fossi nato da un’altra parte avrei un’altra lingua a dare forma ai miei pensieri. Non ho nessuna pretesa di superiorità, nessun desiderio di rivalsa di nessun genere, niente da insegnare a chicchessia.

E poi credo che questa lingua, come tutte le lingue del mondo, sia un’apertura verso l’esterno, certamente non un chiudersi a riccio in un castello dorato dove le persone parlano solo la mia lingua. Il mio bilinguismo insomma mi aiuta a cercare di capire chi è diverso da me; e mi fa apprezzare lingue – e dunque culture – distanti e diverse.

Tutto qui. In maniera molto semplice e tranquilla.

Feb 27

Mi sono interrogato su che cosa significhi, per me, il mio bilinguismo. (Forse è un pensiero che mi torna spesso, ma non credo in maniera molto conscia.) L’occasione mi è venuta da un commento casuale sulla mia pagina Facebook. Io avevo citato qualche brano di una splendida traduzione del Piccolo principe, e mi si è fatto notare che i piemontesi sono “proprio convinti”, dal momento che abbiamo due diverse traduzioni di quel libro.

Ora, la storia di quella doppia traduzione non è importante qui. Ma il mio bilinguismo è qualcosa che non serve a nessuno se non alla mia identità, a vivere una vita mentale più ricca. Apparentemente, non farebbe nessuna differenza se non parlassi e scrivessi piemontese: questa lingua non serve a nulla, per così dire. Ma il pericolo – parlo per me – è di trovarmi senza lingua materna e non voglio che accada, tutto qui. Il pericolo è per esempio di colui che è emigrato e ha perso la sua lingua senza trovare davvero la lingua del paese che l’ha accolto, e ad un certo punto si è trovato senza identità.

(Prescindo qui da tutte le opportunità che mi provengono dal conoscere altre lingue oltre alla prima e alla seconda, parlo solo delle mie lingue materne.)

Chi sei tu, veramente, senza una lingua tua, quale che sia? Una lingua ti definisce, è il tuo paese, sei tu. Quando penso alle parole che vivranno almeno fino a che vivrò io mi sembra un bel posto, il mondo. E mi sovviene GianRenzo Clivio:

Mia part i l’hai fala, ij mè cit a parlo piemontèis e fin ch’i vivo i l’avrai da parleje piemontèis a quaidun.

Parole, parole, parole. Parole inutili, parole incantevoli. Pavese:

Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro.

Queste due lingue in cui mi sono rimescolato e mi sono conosciuto mi definiscono, qualunque cosa accada; sono una compagnia e una difesa, una consolazione e un mezzo. Le parole.

Dic 24
foto di Cesare Matta

foto di Cesare Matta

‘L piemontèis a l’é mè pais.
Tuta la resta a l’é mach d’anviron.
(Tavo Burat, Piemontèis che mi i son)

Pochi giorni fa, in una mattina freddissima nella sua Biella, è scomparso Tavo Burat, i cui pensieri, opere e soprattutto azioni hanno avuto un impatto profondo sulle vite di tante persone.

Il collegamento con Brainfood è molteplice. Innanzitutto era un mio amico, anche se tremo un pochino a pronunciare questa parola, per il fatto che sto parlando di un mito di spessore assoluto nel panorama linguistico e non solo, e non certamente solo italiano.

Poi è stato un difensore delle lingue minacciate, e questo non da oggi, ma a partire da tempi non sospetti: negli anni Cinquanta – aveva venti e pochi anni – andava con la sua Lambretta valle per valle a cercare di risvegliare nei montanari la coscienza della loro identità, e questo ben prima che “occitano” fosse una parola di moda.

(Ricordo un giorno, qualche anno fa, in cui, intorno a Draguignan, in piena Provenza, mi ero perso e cercavo informazioni sulla strada da prendere. Incontrai un vecchio, una persona che sembrava un tutt’uno con le rocce bianche di quella zona, e che pareva essere lì da sempre. Iniziai a chiedergli indicazioni in francese, ma faceva fatica a capirmi. Proseguii in piemontese, lui mi rispose in provenzale e la conversazione andò avanti per qualche minuto liscia e fluente.)

Poi (dove “poi” significa qualcosa come “da ultimo ma non per ultimo”) il legame con Tavo è dato dalla lingua piemontese, che è anche stata l’occasione scatenante della nostra conoscenza. Ho ricevuto talmente tanto da quest’uomo, e con me un numero impressionante di persone, come ho avuto modo di vedere al suo funerale, che oggi mi sento una persona più completa grazie a lui. E dunque – in maniera scontata, ma autentica – dirò: grazie, Tavo.

Un anno fa c’era stata alla Provincia di Torino la presentazione di Poesie, volume edito dal Centro Studi Piemontesi che raccoglie la sua produzione poetica. Ebbene, in quell’occasione Tavo Burat non pronunciò molte parole, ma tutte molto significative. Disse che non si considerava un poeta nel senso che diamo normalmente al termine, ma solo (“solo”? “mach“?) un poeta nel senso dell’umanità che era dentro a lui come a ciascuno di noi. Ecco, anche se sono troppe le cose che non capisco, troppe le volte in cui devo dire “non so”, credo che in una parola il suo insegnamento sia qui, nella poesia che è la vita dentro ciascuno di noi.

Già, perché una delle mille qualità di Tavo era la sua umiltà, ma alla famiglia ha lasciato precise indicazioni su ciò che avrebbero dovuto scrivere sulla tomba:

Tavo Burat – poeta an piemontèis.

(Un invito, insomma, a guardare dentro noi stessi, a meditare in silenzio. Grazie, Tavo.)

Dic 10

L’ultimo numero di Multilingual pubblica un mio articolo sullo stato della lingua piemontese oggi. Si può leggere qui.

Piedmontese, an endangered language è una breve storia della lingua piemontese; e parla di grammatica, musica, letteratura e soprattutto di quello che ritengo essere il punto essenziale per la conservazione di questa e altre lingue minacciate dalla globalizzazione: ovvero il fatto che le si parli ai propri figli.

In GoPiedmont, il mio blog dedicato all’argomento, il discorso è ovviamente più articolato. (Anche la foto mi sembra più naturale.)

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