Nov 02

biblioteca
Nei primi anni di Tesi & testi i libri sono stato uno strumento fondamentale, per me, per imparare il mestiere. Ovvero: il mestiere – qualunque mestiere – non basta impararlo sui libri, ma i libri sono fondamentali per darti visione e respiro. E comunque ci viene in soccorso il Nuto della Luna:

– Sono libri, – disse lui, – leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

Dapprima, nei miei primissimi anni (primi anni Novanta) apprezzai soprattutto i libri degli editori Franco Angeli e di Sperling & Kupfer. Franco Angeli, lui di pirsona pirsonalmente divenne quasi un mito per me, tant’è che quando fu ora di pubblicare il mio secondo libro fu uno dei primi cui proposi il progetto. Di Sperling & Kupfer ricordo soprattutto Wow! Un successo da urlo (Tom Peters era un altro dei miei miti dell’epoca).

Leggevo solo in italiano; il che era un po’ limitante, date tutte le risorse che provenivano da oltreoceano. Per questo ricordo con profluvio di dettagli la meraviglia che mi prese quando a Philadelphia nel 1998 scoprii “Inc.”, e nelle settimane seguenti altri libri mitici tra cui questo. E ricordo che, iniziatolo, pensavo che il futuro di Tesi & testi sarebbe dipeso in parte significativa da quello che avrei trovato in quel libro (pensiero che aveva le sue ragioni e che comunque si rivelò corretto).

Fu un’epifania chiara e profonda. Da quel momento iniziai a leggere quasi soltanto in inglese i libri in tema di imprenditoria e gestione aziendale. Troppo lungo sarebbe ora dire i principali, ma a chiudere gli occhi subito, at the blink of an eye, mi viene in mente questo.

Quei libri si sono ripagati mille volte, o forse diecimila. Ovvero, per dirla con Jim Rohn:

Cercate di leggere due libri alla settimana. E se vi sembra tanto, scegliete due libri di piccole dimensioni per iniziare. Facendolo per 10 anni, alla fine avrete letto più di 1000 libri! Pensate che acquistare delle conoscenze attraverso un migliaio di libri influenzerà le molteplici dimensioni della vostra esistenza? Avete proprio ragione.
Certo, è vero anche che, se negli ultimi anni non avete letto 2 libri alla settimana, siete rimasti indietro di 1000 libri rispetto a chi invece l’ha fatto. State iniziando a capire l’incredibile svantaggio che avrete tra 10 anni presentandovi sul mercato con un ritardo di 2000 libri? Ecco, per un paragone più azzeccato, si potrebbe dire che sarete carne da cannone. Vi masticheranno per poi sputarvi fuori.

Col tempo quello slancio sostanzialmente si esaurì, e io mutai il mio focus. Le pagine di questo blog, per chi ha voglia di scorrerle, ne sono una testimonianza chiara – quasi una prova. Ma il concetto fondamentale rimane: sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

Ago 10

F24
Non è solo un’ossessione mia, lo so. Di fatto siamo in milioni, tutti tormentati da un F24 dopo l’altro. Ne paghi uno ed è già ora del prossimo, e non metti mai un punto fermo al tuo lavoro.

Io in questi anni ho avuto difficoltà, e non tanto per via della cosiddetta crisi. Anzi, a ben vedere dal punto di vista del flusso lavorativo e del rapporto entrate/uscite la “crisi” è stata benedetta, per la mia attività: ha portato semplificazione e nuove opportunità. Ma io, io ho fatto errori, sono stato ingannato (i famosi “consulenti”), ho passato degli anni difficili.

Ma è tutto passato. Martedì della settimana scorsa mi sono messo tutto alle spalle. È successo con una lunga camminata in montagna, otto ore di pensieri leggeri e profumi e viste incomparabili. (L’ho raccontato qui, in piemontese perché il mercoledì è sempre giorno di GoPiedmont per me, e la gioia nel renderlo pubblico è stata simile a quella di un “parto” – per tipo e importanza paragonabile all’uscita dei miei libri, tanto per dire.) Ho pensato che ho pagato tutti i debiti e ora, dopo venticinque anni di lavoro, posso finalmente – de facto – entrare nella professione. Una gavetta un tantino lunga, ma non scopro oggi di essere lento in qualunque cosa.

Potrebbe sembrare un fallimento, ma è di fatto un nuovo inizio. È una sensazione magnifica quella di avercela comunque fatta, di essere comunque arrivato fino a qui con un’attività che funziona, soddisfa clienti, produce reddito e così via; anche se avrei potuto fare molto meglio, guadagnare di più eccetera.

(Ricordo un’intervista a Vasco Rossi, credo fosse l’estate del 1986 o giù di lì, in cui lui diceva più o meno non sono ricco ma ho comprato casa a mia madre e sono primo in classifica, i soldi arriveranno.)

Quindi va bene così e insomma io, noi, ce la possiamo fare. Ho quasi quarantotto anni ma sono lento in tutto, e poi ho fatto delle cose, ho capito delle cose. La cosa bella è poter essere qua a parlarne, avere delle prospettive future, poter ricominciare. Cominciare davvero.

Feb 16

donnie brasco
Il post di oggi nasce da un commento casuale fatto da un’insegnante sulla rinata lista Langit a proposito di un misero compenso percepito per un lavoro. L’occasione è casuale, ma il tema è generale – e anche ricorrente – e val la pena approfondirlo.

Io, per dirla con Nelo Risi,

vorrei solo che dall’urto
nascesse una più energica morale.

Ma so anche che Donnie Brasco direbbe: “Che te lo dico a fare?”

Il sottinteso di un misero compenso è questo: è bene accettare qualunque prezzo ci venga offerto, altrimenti non si lavora.

Ebbene, lasciamo da parte il bene della categoria, il rispetto verso i colleghi, considerazioni morali eccetera. Non parliamo di questo.

Parliamo “semplicemente” della convenienza economica e professionale, per un traduttore (o un insegnante, o un giornalista, o un web writer o i mille altri mestieri che oggi compongono “il popolo delle partite IVA”, è lo stesso), di accettare un compenso che sta ben al di sotto del livello di sopravvivenza.

(Occorre “spezzare l’assedio”, per dirla alla Luca Canali.)

Io capisco bene l’obiezione di chi sta entrando sul mercato del lavoro dopo aver fatto tutti i corsi del mondo, è perfettamente preparato/a ma riceve solo offerte a 3 euro l’ora.

Ebbene, c’è una notizia: quei 3 euro l’ora non ti porteranno da nessuna parte. Ti faranno solo del danno. A te, non al mercato. A te.

I 3 euro l’ora hanno senso solo se inseriti in un progetto, ovvero in cambio dell’imparare un mestiere, ovvero con una prospettiva reale e documentata. Realtà, non promesse.

Certamente dopo tanti anni di mestiere mi è “facile” parlare così. Però i problemi di liquidità ce li ho anch’io, gli errori li faccio anch’io e così via.

Ma questo è un assioma: i 3 euro/ora / i 3 centesimi/parola eccetera ti fanno un danno. Non ti portano alcun beneficio.
Eddie
Mi piacerebbe che chi si trova in situazioni del genere riflettesse su questo fatto, considerasse che farsi del male non è lecito (oltre che sciocco). Capisco le sue obiezioni ma mi piacerebbe che andasse oltre, che trovasse un’altra via perché questa non gli/le porterà del bene.

È difficile, lo so. Richiede tempo, sudore, lo so. Fortuna, anche. Ma un punto di arrivo sensato potrebbe, a mio avviso, essere riassunto nelle parole di Jack Walsh in Prima di mezzanotte:

Dammi quello che è giusto, Eddy, e te lo porterò qui entro venerdì a mezzanotte.

Io non sarò l’ennesimo “professionista” che si immolerà sull’altare del lavoro irretito da promesse e atterrito da quel che vede intorno a sé, e tu avrai quello che chiedi. In un rapporto corretto, dove guadagnerò quello che è giusto perché avrò portato valore al mio committente.

Lug 14

Se telefonando
Sono stato con il mio fornitore di telefonia fissa e ADSL (non importa il nome) negli ultimi sette – otto anni, da quando decisi di liberarmi dal giogo dell’incumbent (e giurai a me stesso che mai in vita mia, mai per nessun motivo, sarei tornato indietro; intendo restare fedele alla promessa).

Con questo fornitore ho passato due traslochi cambiando città, ma siamo riusciti a fare tutto in buona regola. Sono stato sempre discretamente soddisfatto.

Fino a quest’anno almeno. Ad aprile, in seguito ad uno spostamento interno, ho chiesto di traslocare la linea. All’interno dello stesso stabile, sullo stesso piano, tra due appartamenti confinanti. Il lavoro consiste nello spostare una borchia telefonica 10 metri [sic] più in là.

La mia richiesta è del 26 aprile o giù di lì. A oggi ancora nulla. Il problema è che telefono al numero verde e parlo con una malcapitata persona che non ha assolutamente alcun potere decisionale né autorità di alcun tipo. Ha le mani legate, legge uno schermo e probabilmente la più parte del tempo si domanda che cosa facendo lì. L’ultima volta, qualche giorno fa, l’operatore mi dava ragione, simpatizzava con me e con questa assurdità italiana del 2014, ma diceva che non poteva fare nulla. Lui capiva me e io capivo lui, ma di fatto stavamo perdendo tempo in due.

Simone Perotti l’ha detto bene qui. Il problema è che non ci si prende la responsabilità di quello che si fa. Questo provider – ma di fatto è assolutamente la stessa cosa per tutti gli altri – si trincera dietro il fatto di essere una grande azienda, che è un organismo senza testa e senza onore. Mi sovviene la mia diatriba di questi anni con l’INPS: io avrei voluto parlare con qualcuno da uomo a uomo ma invece no, o ci si parla per raccomandate, avvocati eccetera oppure… oppure niente, è così è basta.

Ora. La mia attività, sia lavorativa che professionale in genere che extralavorativa, passa per la sua quasi totalità dalla nuvola. Devo spostare un cavo di dieci metri e in quasi tre mesi questo non è stato possibile. Ha ragione Simone Perotti che se ne va in mare, hanno ragione – mille volte ragione – coloro che lasciano l’Italia: perché queste cose qui, che sono scandalose (perché questa è la parola), rimangono la normalità e non possiamo fare nulla. Perché di là c’è una grande azienda e di qua c’è una bottega.

Poi guardo le pubblicità di questo o quel fornitore di telefonia fissa e mobile e non mi arrabbio, no. Ho visto e toccato con mano il servizio pessimo offerto. Io scrissi la carta dei diritti del cliente di Tesi & testi il 1° febbraio 1995, e ogni tanto vado a rileggermela per cercare di essere all’altezza della situazione, di essere davvero quel professionista che dico di essere. Ma nel caso dei fornitori di telefonia no, non c’è carta dei diritti che tenga. Al di là di tutte le parole belle conta quello che vedi e che sperimenti, ed è il disastro totale.

In conclusione oggi firmo un contratto con un fornitore nuovo. Sarà meglio? Sarà peggio? Non lo posso sapere ora, ma almeno non sarò stato ad aspettare che un operatore parlasse con un tecnico, e che questi si mettesse d’accordo con un collega, firmassero un foglio d’ordine eccetera. Almeno l’avrò scelto io.

Gen 28

Lo spunto per questo post, della traduttrice Gabriella Gentile, è nato da un suo recente commento ad un mio vecchio articolo.

Ma il tema delle tariffe, si sa, è annoso e imperituro; e poi tocca ovviamente chiunque lavori per proprio conto. Ho chiesto allora a Gabriella di elaborare il suo pensiero sul tema. Il risultato è qui a seguire.

Enter Gabriella.

Lettera d’incarico, impegno, ricerche terminologiche, finalmente la consegna e la fattura: “siamo spiacenti ma il cliente ha limitato ulteriormente il budget e possiamo offrirle soltanto 0,05 centesimi a parola”.

La professione del traduttore, perché di professione si tratta, è oggi persa nell’ambiguità di un mercato in cui le agenzie cattive sono molte di più di quelle buone, in cui le tariffe da fame (inferiori rispetto agli anni precedenti) sembrano essere diventate uno standard di mercato.

Pensandoci su, come può essere possibile che negli anni le tariffe si abbassino invece di aumentare? È evidente che qualcosa non va. Medici, ingegneri e avvocati, hanno adeguato le tariffe al costo della vita così come sono aumentati i prezzi di beni e servizi e tutti pagano senza storcere il muso. Per le traduzioni però, sembra sempre che ci sia una certa difficoltà. A volte sono gli stessi traduttori (o presunti tali) che si svendono diventando pane per i denti delle agenzie a basso costo che promettono servizi accurati in 24 ore. L’agenzia ci guadagna e il presunto traduttore racimola, a fatica, un misero compenso che non garantisce nemmeno la sopravvivenza. A guardarli in cagnesco ci sono i traduttori professionisti, quelli che hanno alle spalle una solida esperienza tanto che possono rifiutare progetti low budget e conquistare la fiducia di clienti prospect.

Ebbene, più che una questione di budget è una questione di strategia. In sostanza, il mercato delle traduzioni di oggi non è né in crisi né in declino, è semplicemente in trasformazione, c’è l’esigenza del tutto e subito e dell’iper tecnologico che può risultare fastidioso al traduttore old school e del tutto normale al traduttore matricola. In questo nuovo equilibrio, vanno forte le agenzie che offrono servizi in tempo reale e traduttori cat tool muniti che grazie a basi terminologiche ben guarnite, riescono a rispettare tempistiche fino a qualche anno fa inimmaginabili. Il mercato, ormai liberissimo, è diventato teatro di guerra di traduttori che hanno l’astuzia di stare al passo con i tempi e che sanno rivendere la loro esperienza ai clienti giusti. Ma l’imperativo deve rimanere sempre quello di non praticare mai tariffe basse per vincere sugli avversari perché questo oltre ad essere una falsa vittoria è un attentato alla professione.

E il budget? Il budget è quella sottile linea rossa che separa il prodotto scadente dal prodotto di qualità. Succede sempre che una cosa pagata poco dura anche poco, quindi un cliente finale che risparmia su una traduzione non avrà un testo ben tradotto, mentre un’agenzia che paga poco non saprà tenersi né il cliente né il traduttore e non solo per una questione di prezzi ma anche per la cattiva gestione del lavoro. Un traduttore professionista si guarda bene dal farsi rappresentare da agenzie di questo tipo. Se il lavoro è accurato, pulito, e veloce, posso fare un prezzo da professionista senza paura di chiedere troppo, esiste ancora chi chiede e pretende qualità.

Per concludere, il mercato delle traduzioni benché libero, è ormai in una fase in cui andrebbero istituiti nuovi standard con l’appoggio e la garanzia di istituzioni e associazioni di categoria rinnovate. Chi vive di questa professione deve mantenere un livello qualitativo alto offrendo servizi riservati a clienti che possono permettersi di pagarli. Le agenzie e i clienti giusti che pagano il giusto esistono, ma è necessario che diventino la regola e non l’eccezione.

Dic 10


Questo post è dedicato a coloro che hanno in animo di intraprendere la professione di traduttore. È un suggerimento operativo che può avere valenza anche più estesa, nel senso che le considerazioni che farò valgono per tutte le professioni (i fondamenti sono sempre gli stessi).

Mi arrivano, ogni tanto (ma puntualmente), mail da studenti che mi chiedono informazioni di vario genere sul settore: prospettive sul mercato, informazioni sulla tal opera, domande sui CAT e compagnia cantando.

Sono di persone che stanno compiendo degli studi universitari, e che lavoreranno con la parola scritta. Dunque io mi aspetto alcune cose semplici: che il tono sia appropriato, che tutte (ho detto tutte, non quelle più elementari) ricerche siano state fatte e così via.

Ad esempio una mail indirizzata a me ma mandata all’indirizzo info e non al mio non va bene: il mio indirizzo si trova dappertutto sul web, non ci sono attenuanti.

Ad esempio che mi si chiami “signor Davico” non mi piace: o sono Gianni o sono dottore. (E so bene che occorre guardarsi dagli asini specie se dottori, ma lo dico nonostante.)

Lo so, lo so che lamentarsi vuol dire ammettere di essere vecchi, ma se sei in gamba certe domande non le fai, e se sei in gamba si vede subito. Bastano poche, pochissime frasi. (Il contrario è vero, ma non sempre.)

Quindi ragazzi, attenzione: dato che lavorate con le parole scritte, ogni virgola si conta e si pesa, ogni singola virgola può fare la differenza.

Detto questo, quel che so lo condivido volentieri, lo faccio con piacere – lo faccio qui e altrove da tempo immemore, per dire –, ma chiare devono essere le regole del gioco.

Anch’io certe volte ho consegnato lavori non perfetti e me ne pento. Anch’io certe volte non sono al massimo delle possibilità. Io sono bravo sul lavoro, molto bravo (absit iniuria verbis): voglio dare il 100%, sempre. E tu puoi fare lo stesso. Questo, in sintesi, è il mio invito per te, che potresti essere il “me stesso ragazzo”, per dirla con Franco Ferrucci (Lettera a me stesso ragazzo è un libro bellissimo, ed è un peccato che non si trovi più in giro).

Del resto che cos’è, veramente, il talento, ovvero ciò che – in questo specificio caso – ti fa adoperare le parole giuste? Da una parte rimando a Fuoriclasse, il libro di Malcolm Gladwell di cui ho parlato qui; e dall’altro lo si può dire con le parole di Bob Rotella:

In most of life’s endeavors, characteristics like persistence and self-discipline are much more important that the kind of talent measured by standardized tests.

Che aggiunge:

That’s why success in life correlates so weakly with success in high school.

Per riassumere: il talento è impegnarti al massimo, non è avere talento naturale. E quindi: le coordinate le hai. Ora tocca a te.

Ott 22

Fino a che qualcuno non muove un passo, nulla nel mondo cambia.

Se io lavoro per conto mio non devo solo essere bravo (no, bravissimo) a tradurre, ma anche bravo (no, più che bravissimo) a promuovere i miei servizi, a vendere, a far di conto, a fare le fatture, a usare i social e così via.

Di questo, in poche parole, parleremo a Pisa il 1 dicembre. Non dimenticando che il traduttore non è un dipendente, quindi deve assumersi i suoi rischi (come ciascuno nel mondo del lavoro di oggi e di domani). Alla fine trovare il proprio posto nel mondo non è complicato, ma ha le sue regole. Regole che vanno seguite e applicate.

Già, perché aveva ragione Gramsci, quando nelle Lettere dal carcere parlava del concetto di difficile (o, ciò che è lo stesso, di facile): difficile rispetto a che cosa? È l’impegno che fa la differenza. Sono le regole del gioco.

La prima edizione milanese di questo workshop è stata un successo. Questo a testimonianza del fatto che il problema è sentito, che c’è necessità di sapere che cosa fare.

Ma un punto dev’essere chiaro. Anzi due.

Primo punto: io non dirò che cosa fare, daremo “semplicemente” degli strumenti su cui lavorare. Nessuno potrà mai insegnare nulla a chicchessia (si può solo, al limite, imparare), ma questo workshop – pratico e diretto – intende essere uno sprone per coloro che decideranno di investire del tempo e del denaro nel loro progetto di carriera. (Io non sono l’esperto: sono l’esploratore e la guida.)

Secondo punto: do per scontato che chi deciderà di partecipare si considera professionista, ritiene di offrire un servizio non meno che eccellente. (Sarà dunque la relazione, il tocco personale, quel qualcosa in più che solo il professionista può offrire, a fare la differenza.)

Cambiare si può, imparare si può, migliorare si può – a patto che la decisione provenga da noi, dal nostro interno.

Qui tutti i dettagli.

Mag 14

Fatto: i traduttori in Italia sono troppi. (Sono troppi rispetto ai bisogni anche i notai, i panettieri e le auto, ma non divaghiamo.)

Fatto: ho pubblicato una richiesta – una RFP, per dirla in gergo tecnico – qualche giorno fa su Langit. Una ricerca specifica per un progetto specifico con dei requisiti precisi.

Fatto: la maggioranza delle offerte ricevute non ha potuto essere presa in considerazione. O per mancanza dei requisiti, o perché scritta in fretta, non accurata eccetera.

Redigere una proposta di lavoro, ovvero rispondere a un’offerta, è un lavoro preciso. Volumi interi sono stati scritti sull’argomento. (Tanti anni fa mi incantavano e affascinavano libri come questo, attraverso i quali è passata tanta parte della mia formazione relativa al marketing e alle vendite, e mi intimoriva un poco l’idea di quanto lavoro fosse necessario fare per conquistare il proprio pezzetto di mondo.)

Come spunto di riflessione, ecco qualche passo da non compiere.

1. Non mettersi nei panni dell’interlocutore. “Basta che vada sul mio sito, che scarichi questo e quello” eccetera.

2. Non fare ricerche prima di spedire. Chi è il mio interlocutore, quali esigenze ha? (Nello specifico: in rete c’è tutto del mio lavoro, bastano dieci minuti per capire qualcosa di più.)

3. Mandare proposte a casaccio. “Tanto spedire una mail costa poco”.

I miei venticinque lettori sono invitati a dire la loro e a continuare la lista.

Apr 23

Non è vero che non c’è lavoro.

Il problema principale rimane quello di aiutare le imprese a sviluppare e rendere disponibili quei posti di lavoro latenti, che per un motivo o per l’altro rimangono lì, come frutti ormai maturi su un albero, e che se non colti per tempo finiscono irrimediabilmente per andare sprecati.

Non dispongo di una formazione specifica in economia, né mi intendo in modo particolare di mercato del lavoro. Mi limito a filtrare quello che vedo e sento attraverso la mia personale sensibilità e quella briciola di esperienza che mi viene da otto anni di attività nel settore dei servizi linguistici in qualità di traduttore di testi tecnici.

E mi rendo conto di certi asfissianti colli di bottiglia, che impediscono alle piccole attività di diventare un po’ meno piccole e – magari – consentire a qualcuna di queste di assumere dimensioni di medio calibro o – addirittura – diventare grande impresa.

Dal mio punto di vista, un sistema economico sano e fertile dovrebbe consentire anche a chi non ha particolari capitali a disposizione di far nascere e far crescere un’attività imprenditoriale.

Forse altrove questo discorso è possibile, oltre che incentivato. Sempre più spesso, invece, ho l’impressione che da noi si faccia di tutto per evitare che il piccolo diventi grande; oppure che non si faccia nulla, ottenendo gli stessi effetti.

Un esempio è l’enorme disparità delle aliquote contributive, del cui innalzamento si parla in queste settimane, tra chi opera come lavoratore autonomo (33% di contributi) e chi invece riesce ad operare come società (tra il 20% e il 24%). Ripeto, non ho particolare esperienza di come funzionino questi aspetti economici in altri paesi, ma l’impressione che ho del sistema italiano è che si faccia di tutto per non promuovere la formazione e la crescita delle micro imprese o del lavoro autonomo, affinché queste quote di mercato si liberino a vantaggio degli attori economici maggiori. Non sempre, però, il salto di categoria è possibile, e anche chi ci prova non sempre riesce a svilupparsi come vorrebbe e potrebbe, ma deve accontentarsi della sopravvivenza della propria attività.

Si tratta forse di un tentativo di creare forzatamente un modello composto da un numero ridotto di grandi imprese ed eliminare il modello all’italiana caratterizzato da un enorme numero di piccole attività a conduzione singola o familiare?

A questo si aggiunge il problema del costo, di questo lavoro rimasto inutilizzato. Per esperienza diretta, sono a conoscenza di almeno tre piccole attività commerciali e una artigianale i cui titolari avrebbero bisogno di un aiutante, talvolta part-time, in altri casi a tempo pieno.

In due casi si è scelto di cercare stagisti, per i costi inferiori. Negli altri, semplicemente, non si cerca nessuno, per il fatto che, fra costi del dipendente, inasprimento dei parametri degli studi di settore eccetera, il titolare non “ci starebbe dentro”.

Se il lavoro costasse meno alle imprese, avremmo quattro occupati in più, con contratti e tutele di buon livello. Invece, così abbiamo (forse) due stagisti che si uniranno al calderone degli sfruttati e alimenteranno i discorsi sull’imprenditore profittatore, e due posti di lavoro inutilizzati con due disoccupati in più.

Discorsi che ormai non servono più a nulla, vuoti, come le parolacce ripetute in sketch e gag da cabaret, il cui canovaccio è ormai trito e ritrito. Non fanno più ridere, non suscitano emozioni. Solo abitudine, prevedibilità, rassegnazione.

Un altro modo per tarpare le ali alla voglia di crescere. Per quel che mi riguarda, serve un’inversione di rotta. Il prima possibile.

Apr 16


Dopo Milano, a corso terminato, la mia domanda a me stesso è stata: “Avrò consegnato abbastanza valore a chi ha speso dei soldi e del tempo per venirmi a sentire?” A giudicare dai feedback la risposta è positiva, ma rimane sempre qualcosa che si sarebbe potuto fare meglio, qualche dettaglio da aggiustare eccetera.

Qualche giorno fa ho sentito, non ricordo più da chi, un concetto del tipo “chi insegna ad un bravo allievo impara due volte”. Sì, alla fine l’essenza del trasmettere la conoscenza sta tutta nella conoscenza che di rimando se ne deriva.

Abbiamo parlato di marketing, naturalmente, di CAT, di fatture e quant’altro. Ho cercato di fare una panoramica il più possibile completa sulla professione. Già, perché l’idea fondante non è che il traduttore è bravissimo a tradurre e basta: no, il traduttore è bravissimo a tradurre e (almeno) bravo – molto bravo è meglio – a fare le fatture, negoziare, vendere e così via.

Un professionista è un professionista a tutto tondo, insomma. Questo è il concetto che abbiamo cercato di far passare.

Ma, come ha giustamente fatto notare una partecipante sabato, “perché io devo spendere dei soldi per dei concetti che, con la laurea che ho, dovrebbero essere dati per saputi?” Già, perché? Anch’io preferirei che non ci fosse il bisogno di seminari come il nostro: ma a giudicare dalla risposta del pubblico il bisogno c’è, e come!

Tanto abbiamo già fatto, tanto e ancora di più rimane ancora da fare. Infatti non è certamente finita qui. E lo dico con le parole di Chris Guillebeau:

I would do it again tomorrow. Next time I want to do a 7-continent book tour.

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