Nov 14

l'andata

l’andata


Sono stato qualche giorno con mia figlia piccola a Venezia.

Papà e figlia, figlia e papà in un dialogo fitto e continuo, lungo quattro giorni. Io tutto preso dalla meraviglia delle sue scoperte, come gli occhi dilatati dalla sorpresa quando si è resa conto che il ponte di Rialto è così alto; o una lunghissima passeggiata nel sestiere Castello, dove i turisti sono rarissimi, e Michela che mi dice che per lei quella è la zona più bella di Venezia, pareggiata forse solo dai canali dietro l’isola di Torcello, oltre la chiesa, in un luogo dove ci arrivi solo andandoci apposta e/o molto per caso.

La magia è negli occhi di chi guarda, insomma. E penso a Venezia come città in piena difficoltà, perché è di fatto un albergo gigante, un luogo dove vivere è complicato, è resistenza, è un atto d’amore.

E penso a me stesso, anche, a come sono cambiato in questi anni (questo diario è uno specchio abbastanza fedele di questa trasformazione): pubblico e ingessato un tempo, intimista e lieve oggi. E con tanti capelli grigi, è vero; ma che mi paiono quasi medaglie al valore.

il ritorno

il ritorno


Ma soprattutto penso a che cosa significa essere genitore, che in poche parole mi sembra l’essenza della vita stessa. E ritorno a un punto centrale, qualcosa che capisco col cuore ma non ho mai inteso bene con la mente:

This bus ride was it.[…] This was life itself.

Il viaggio in treno, il gatto dentro il negozio, il Canal Grande attraversato di sera, la pioggia e la notte che scendevano, il tramonto visto dalla Giudecca. Questo era. Questo è.

Set 26

ieri
C’è una poesia che mi gira in testa per descrivere la giornata di ieri, un giorno in cui io sono stato semplice spettatore. Purtroppo non ne ricordo l’autore né riesco a ricordarmi quelle tre-quattro parole chiave che sarebbero sufficienti per ritrovarla, ma comunque la sensazione del tempo lunghissimo che è passato e che passa che quel testo irradia mi è ben presente dentro.

Cinquant’anni ieri, ovvero domenica 25 settembre 1966, papà e mamma si sposavano. Cinquant’anni, ieri, una vita – anzi due.

Ho sfogliato l’album, l’ho confrontato nella mente con le immagini di oggi. Ho pensato alla circolarità del tempo, alle cose che cambiano e ritornano e rimangono le medesime. Ho pensato a queste due persone miti, indifese ma comunque oneste – l’onestà è sopra tutto il valore per cui le ringrazierò sempre di avermi passato, qualunque cosa succeda.

Ho pensato alle loro vite tribolate, alle fatiche. Ora mi sovviene qualche verso di Attilio Bertolucci:
oggi

Finita l’opera sei tornato a casa
ti ringraziamo
riposa in pace.

Ma forse Nelo Risi direbbe ancora meglio:

Ci stai accanto senz’ombra e col sorriso
di chi ha creato un lento paradiso.
Il dare l’avere il debito l’esempio
un vano confinarti;
saperti viva oggi ci compensa
del vuoto che saremo.
Siediti un momento
chiudi gli occhi all’indietro all’avanti
riposati dentro
o se proprio ci tieni
dividi coi figli
anche quest’ansia, l’ultima
di saperti viva.

Rinunceremo alla memoria per prolungarti
in vita e non in morte, cara.

Insomma mi dà forza il fatto che siate qui, oggi. E dato che non so dirlo bene in parole lo scrivo, questo minimo grazie.

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Giu 20

estate
Abbiamo fatto la pazzia, e la responsabilità è innanzitutto mia.

Tutto trae origine da un pensiero: vedere mia figlia piccola così spensieratamente bambina, innocente e felice nei suoi giochi (“La vita è fatta solo di giochi”, ha detto alla mamma non più tardi di un mese fa), e capire, sapere che è al limitare dell’infanzia, che questa sarà forse l’ultima sua estate di bambina; e allora cercare di fermare il tempo, e fermarlo io so che si può solo mirando a viverlo nella sua pienezza intera, nel suo andare, nel suo flusso naturale, con l’idea (forse infantile, e certamente ingenua) che tutto questo contribuirà a rinforzare i miei ricordi di lei quando bambina non sarà più.

Allora abbiamo invitato nel nostro rifugio tra i monti la sua classe intera, per una settimana che è quasi qui. Ed è stato un successone di adesioni: nella prima settimana di luglio saremo in compagnia di ventidue diconsi ventidue bambini scorrazzanti, urlanti, ridenti, felici intorno a noi.

Bambini felici.

Ecco, alla fine delle fini mi sembra che essere genitore sia questo. Cioè mi sembra che in accadimenti come questi sia nascosta una risposta – provvisoria e parziale, per carità – al motivo per cui esistiamo.

(Già, quella notte in cui nacque Roberta capii – intuii, forse, è più preciso – che attraverso quell’angelo di respiro e sangue sarei diventato immortale.)

Sarà una settimana superimpegnativa, ma dove c’è gusto non c’è perdenza. Ne parlerò ancora più di una volta, è sicuro. Ma insomma oggi volevo fissare in questo diario questa idea, rendere chiaro anche a me stesso che fare delle pazzie, a volte, vuol dire esser vivi.

Feb 15

Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto
sempre in uomini saldi, signori di sé,
e nessuno sapeva rispondere e tutti eran calmi.
(Cesare Pavese, Antenati, vv. 8-10)

Ho sensazioni strane, in questo periodo. Metterle su carta non è semplice. Credo che ciò sia connesso con la mezza età, il vedere – immaginarla, almeno – la fine del tempo, la trasformazione del corpo e della mente. E con la casa che è della mia famiglia da cento anni.
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Cento
anni.

Da quando le sette suore Rosine rimaste lasciarono il convento per prendere la via di Torino, correva l’anno 1920, e il nonno Giovanni comprò l’immobile per impiantare la sua fabbrica.

E c’è questa foto con papà e nonno che mi attrae tanto. Stimo sia della primavera avanzata del 1937, papà aveva 8 anni all’epoca, il nonno era negli ultimi mesi di vita – ma non lo diresti guardando la foto, né nessuno poteva prevederlo in quel momento.

E penso che il tempo è circolare. Io sono il padre (il nonno qui) e sono anche il figlio (il padre, qui).
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E questa casa è una sorta di tramite tra le generazioni. Lo so da sempre, ma me ne sono accorto un po’ di più in questi giorni in cui sto curando dei progetti interni alla casa, tocco con mano mattoni che cent’anni prima certamente ha toccato mio nonno, che è anche la persona che mi ha insegnato il senso di giustizia e rettitudine anche se non l’ho mai conosciuto. L’ho sognato, sì; e tanto. Mi ha ispirato.

Sono sensazioni che non so esprimere bene con parole. Le devo elaborare, ma in parte – in grossa parte, temo – rimarranno inespresse. Ma questi mattoni anche tra cent’anni parleranno.

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Gen 11

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Ho tardato a pubblicare oggi perché l’idea per il post mi è nata solo ieri sera tardi, e avevo bisogno di elaborarla, di “cucinarla” nel mio laboratorio di scrittura, e di chiedere – prima che fosse fuori – il parere e i consigli di mia figlia piccola nella maniera di cui dirò tra poco.

Tutto nasce da una combinazione di due fatti:

– sto leggendo questo libro. L’autore lo conosco bene (ne ho parlato ad esempio qui), il suo concetto di flow è un pilastro per le prestazioni in diversi campi;

– ieri, domenica, ho passato tanto tempo con mia figlia piccola a giocare insieme e fare altre cose (ma giocare soprattutto, anche perché per lei ogni cosa del mondo è un gioco). E se ieri nel gioco c’era solo il gioco e nessun’altra considerazione, pensandoci oggi ho capito che lei mi insegna tante cose del flow che sa per istinto, per natura: e dunque frutto laterale del giocare con lei è l’imparare come se si stesse leggendo un libro. (Ciò vale per tutti i bambini del mondo, naturalmente.)

Faccio un passo indietro: che cos’è il flow? Una buona definizione iniziale si trova qui, ma in parole povere è uno stato della mente in cui la persona è talmente assorta nel suo compito da dimenticarsi del mondo esterno e dal ricavare massima soddisfazione da quello che sta facendo.

(Nota laterale: mente e corpo non sono due entità distinte, ma un unicum, un uno tutto, un continuo. Questo il golf me lo ha fatto presente in maniera netta: dopo anni di deliberate practice mi è stato chiaro che la persona è un continuum, che non c’è confine tra il corpo e la mente. E questo vale nello sport, nella professione e in qualunque attività.)
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E per traslare questi concetti nel lavoro, dirò che il “buon business” auspicato da Csikszentmihalyi è ciò a cui da sempre, per istinto prima che per ragione, tendo. Ovvero, alla radice delle cose il concetto è questo: avere buoni rapporti con tutti gli stakeholder relativi al tuo lavoro (clienti, fornitori e così via) è una sana pratica di lavoro e di vita perché arricchisce dal punto di vista mentale la tua vita, la rende piena di significato, ti gratifica; e dopo, ma solo dopo e solo come conseguenza, è un vantaggio dal punto di vista economico.

In soldoni: lavorare bene si deve e conviene perché si vuole lavorare bene, perché si ha piacere e gioia nel farlo. Il guadagno viene soltanto dopo, solo come conseguenza. Lo dice bene Pavese:

L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa.

Nel corso della vita i soldi si guadagnano e si perdono, le cose vanno bene e vanno male, ma non è questo il punto. Il denaro è decisamente sopravvalutato da questo punto di vista. (Non che non sia importante, non venirlo a dire a me dopo questi anni di tribolazioni e gente che, anche se non lo farà mai, dovrebbe chiedermi perdono; ma non è il cuore delle cose.)

Anni fa, quando dopo un lungo viaggio ritornai al punto di partenza, riportando la sede di Tesi & testi proprio nel luogo dove era nata, che è lo stesso luogo che fu sogno imprenditoriale e di vita di mio nonno Giovanni, il palazzo che ha segnato la storia della mia famiglia negli ultimi cento anni, scrissi:

Uno dei motivi più inconfessati e reconditi del mio essere imprenditore è proprio il seguire le orme del nonno, la sua idea di giustizia e rettitudine a prescindere da qualunque altra cosa.

Insomma capisco che le cose sono circolari, che tutto ritorna, che fare le cose in maniera giusta è il cuore del nostro lavoro e, probabilmente, della nostra intera vita. Tutte cose che mia figlia piccola sa per istinto. È per questo che, prima di pubblicare, le ho chiesto di leggere il pezzo e di darmi la sua opinione:
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Quanto a me, io ci metto anni ad arrivare allo stesso punto perché sono lento in tutto ma ci arrivo, ci arrivo.

Mag 11

Bimbimbici
Metti un pomeriggio di sole pieno, una di quelle giornate dove la primavera è talmente sbocciata e rotonda che pensi di essere di essere in estate. (Ieri.)

Prendi una bici per te e una per tua figlia piccola.

Metti un evento come questo. L’impegno di tante persone sorridenti, l’idea che la bicicletta è divertente, economica, utile, anche maestra.

Tua figlioletta ti pedala accanto, tutta impegnata a farti vedere che anche nelle salite più ripide usa la marcia numero 3, e tu pensi che è vero quel che scriveva Sinisgalli, che la felicità si può prendere per la coda come un passero e che la vita, a ben vedere, è più o meno tutta qui.

Apr 27

Avvertenza per il lettore: questo è un post molto personale. Cioè, credo che molto di quel che scrivo affondi le radici nella mia esistenza (giusto o no che sia, io so scrivere così), ma qui vado forse ancora un po’ più in là.

Faccio un sogno ricorrente, in questo periodo. Credo che sia il segno – la figura, per ricordare ancora una volta Auerbach – che la mezza età è già qui con me. Che ci stia per entrare, che ci stia entrando o che ci sia già entrato fa poca differenza. Nel sogno, che è articolato e piuttosto indistinto, ci sono tre personaggi: io da piccolissimo e papà e mamma da giovani. Probabilmente è di una sorta di eden felice, del tempo precedente la mia consapevolezza.

Mi sovviene Bernard de Chartres:

Siamo come nani sulle spalle di giganti, ed è per questo che possiamo vedere più cose di loro e più lontane: non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.

Poi, da sveglio, mi guardo allo specchio e vedo un uomo maturo con i capelli grigi, con il volto che cambia, con i segni dell’età. (Non che li voglia nascondere, semplicemente li vedo.) Più d’uno mi dà del lei, e infastidirmi non mi porta a nulla. E poi vedo papà e mamma e il loro milione di anni in due, il passo stanco, i movimenti che costano fatica, la mente meno brillante giorno dopo giorno.

Nel mio eden, in quel paradiso, non esiste il tempo. Ci sono io piccolo e inconsapevole, esisto e registro quel che vedo e tocco, null’altro. Non ho paure di nessun genere perché ci sono quei due giganti al mio fianco. Non sarebbe nemmeno pensabile, la paura.

Forse quel sogno è la mia maniera di dire “grazie”, un piccolo grazie a quelle due persone che hanno fatto per me tutto quello che hanno potuto e saputo. Forse è un modo di tornare indietro a quando il tempo non esisteva ancora, non aveva confini né limiti.

Il mio sogno ricorrente è espressione delle mie paure, ma anche dell’accettazione delle responsabilità che mi toccano. Si fanno le cose perché tocca farle, nient’altro. E mi sovviene quel proverbio:

Muore il padre, muore il figlio, muore il nipote.

Il mio sogno ricorrente è la mia imperfezione fatta persona, i miei limiti che accetto, i miei punti deboli che fanno parte di me.

Il mio sogno ricorrente sono io.

Dic 15

TF
È morto un amico, qualche giorno fa.

Un ragazzo di 82 anni, sempre col sorriso sulla bocca e una parola buona per tutti. Sempre di buonumore, qualcuno che portava gioia ovunque andasse.

Se n’è andato così, in un momento, senza nessun tipo di preavviso.

Per il giorno del funerale mi sono tornate in mente le parole che Simon Turner pronunciò all’orazione funebre per David Henderson:

Oggi farò un buon pranzo e berrò un buon bicchiere in onore dell’amico scomparso. Forse potrò anche ubriacarmi, perché così lui avrebbe voluto.

Allora proprio in quel momento ho scelto di fare l’attività che amo di più, giocare a golf. Ho giocato a golf durante il suo funerale, perché la sua volontà sarebbe stata la gioia e non certo le lacrime.

Il giorno dopo sono andato a trovarlo al cimitero. Ho cercato a lungo la tomba, poi grazie ad un aiutante magico che si è materializzato nella forma della signora dei fiori l’ho trovata. Sono stato con lui per un po’, gli ho parlato, ho versato qualche lacrima. Poi sono andato a casa sua a fare le condoglianze alla famiglia, e a portare la mail che gli avevo scritto qualche settimana fa dopo il nostro ultimo incontro e che – poiché non avevo ricevuto risposta – avevo in animo di portargli di persona giovedì scorso all’inaugurazione di questa mostra, dove ero certo che l’avrei trovato. Ma la sera prima è arrivata la ferale notizia, e questo non è più stato possibile. Ho pianto a dirotto di fronte alla figlia, l’emozione mi impediva di trattenermi ma ho detto le poche parole che intendevo dire.

La lezione che lui ci lascia – che mi lascia – è che la morte possiamo sconfiggerla solo volendoci bene tra di noi e sorridendo sempre. Domani sarà troppo tardi per qualunque cosa.

In più, non dobbiamo avere paura, non dobbiamo scappare. Non è stato gioioso andare a casa sua ma è stato bello.

Con tutta la gioia che ci hai portato il sonno, mio caro Tòjo, ti sarà leggero.

Set 15

famiglia
(Rielaboro qui alcuni pensieri della settimana scorsa.)

A volte mancano le parole.

Io, pur essendo di fatto cresciuto nella famiglia di mamma, ho sempre avuto l’idea che la mia famiglia fosse quella di papà, forse perché poco o tanto mi vergognavo di quelle origini povere e campagnole.

Ma quella famiglia – la mia famiglia – ha radici profonde e salde, e i cui anelli tengono. Allora incontrarsi, come mi è successo mercoledì scorso, al funerale di una zia mi ha fatto, come una madeleine, tornare alla mente tanti episodi della famiglia, soprattutto di quando ero bambino e il mondo finiva più o meno a Tetti Lusso.

A volte mancano le parole ma se ci penso bene no, non è che manchino: è soltanto che noi facciamo tante cose, ci immaginiamo dei monti lontani, facciamo la guerra, facciamo il giro del mondo ma alla fine ci troviamo sempre sul sagrato di quella chiesa a ricordare chi non c’è più.

La famiglia è sangue, è terra, è vento e nebbia e fatica e travaille qui dure victoire qui vient: ma la vittoria non è nulla, è soltanto fare le cose come vanno fatte e poi trovarsi ogni tanto, salutarsi, riconoscersi, dire una parola insieme, rispettare gli antenati e fare il bene. Perché ha ragione Cesare Pavese quando nella Luna scrive:

L’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa.

E lo stesso si può dire per la brava persona: la vita è lunga, e quel che fai parla per te molto più forte che non quel che dici.

Qualche anno fa Camillo Brero mi disse:

Com ch’am disìa mia mama, ‘ricòrd-te Lino che a sto mond a venta fé bin, fé ‘d bin, vorèj bin, dì ël bin, përchè ël Bin an veuja bin. Butlo për orcin e pòrtit-lo dapress sempe’. E ti it ses un testimòni.
[Come mi diceva mia mamma, ‘ricordati Lino che a questo mondo bisogna comportarsi bene, fare del bene, voler bene, dire il bene, perché il Bene ci voglia bene. Legatelo al fazzoletto e portalo con te per sempre’. E tu sei un testimone.]

Allora io sono soltanto un semplice testimone, nulla più; e dentro di me, per riprendere le parole di Gustavo Buratti, come un imbuto il sangue di tutti coloro che sono passati di qua prima di me cola. Soltanto questo.

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Set 08

La Corsica dunque misura la mia vita. I pensieri che provoca, così facendo, sono a volte gioiosi e a volte un po’ tristi. Sia gli uni che gli altri sono però sempre sereni: questo posso giurarlo (Stefano Tomassini, Amor di Corsica)
Marmuntagnja
Non è stato diverso rispetto all’anno scorso – non poteva esserlo.

Per giorni prima della partenza avevo immaginato quel “pellegrinaggio”, il sabato pomeriggio, a salutare, rendere omaggio, vedere per una volta ancora i luoghi della “mia” Corsica. (No, la Corsica non è mia, sarò sempre un ospite qui, ma l’incantagione che mi provoca la rende parte di me.)

Quando è venuto il momento ho preso l’auto. C’era mia figlia piccola con me, il che rendeva meno doloroso quel distacco. Siamo andati verso i luoghi che fanno parte della nostra mitologia corsa: Porto Pollo (ça va sans dire), Serra di Ferro (per via di U San Petru), Marmuntagnja (dove, e non so spiegarmi con precisione perché, c’è una casa che è per me l’epitome perfetta dell’idea che ho della Corsica).

Della nostra mitologia, perché è assolutamente vero quel che scrive Stefano Tomassini (Amor di Corsica):

In un certo senso posso però dire di averli già fregati. Il mal di Corsica è una malattia familiare: non so se l’hanno ereditata ma è certo che i miei figli non potranno mai fare finta che la Corsica sia per loro un posto qualsiasi.

Pochi luoghi, sempre i medesimi. Adoro le novità ma in un giorno come quello non potevo non voler camminare ancora una volta in quei luoghi che mi hanno visto felice, tanti anni fa come pochi giorni fa.

Ancora Tomassini:

Forse misuravo il mio rapporto con quell’isola che un’altra volta lasciavo e che un’altra volta mi promettevo di rivedere.
Forse, quasi di nascosto, segretamente, scoprivo che la Corsica era la mia misura, la misura della mia vita.

Ecco, queste parole definiscono con sufficiente precisione i motivi di quel mio vagare: è stato quasi un ripercorrere i miei pensieri di questi dodici anni corsi, ripercorrere con la mente episodi magari non significativi ma che comunque fanno parte di una vita, anzi di più vite. E in quella parola, “misura”, c’è probabilmente la chiave (via, una chiave) del mio attaccamento all’isola.
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Poi, mia figlia e io, da soli, avevamo un “appuntamento” al calar del sole: accendere un lumino proprio in quel giorno e proprio in quel momento (è una vecchia tradizione piemontese che ricorda il voto di Superga fatto nel 1706 da Vittorio Amedeo II). È stato un arrivederci sereno ai “nostri” luoghi di Corsica.

Sempre Tomassini dice che le partenze sono “sopportabili finché ci saranno ritorni, o almeno l’idea di poter tornare”: ecco, quel pellegrinaggio è stato un salutare quei luoghi e quelle persone, un arrivederci. Mi sono salutato, per così dire: mi sono rimescolato e mi sono riconosciuto, direbbe Ungaretti. Questo percorso mi ha portato pace, e la partenza è stata sopportabile.

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