Dic 12

Come al solito, per cercare di spiegarmi devo prenderla da lontano. Precisamente da qui:
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Era il 21 luglio 1953, a Ben Hogan mancavano pochissimi giorni ai quarantun anni, e quella celebrazione – che allora poteva parere una giusta consacrazione di risultati raggiunti e una spinta per il futuro – fu – a posteriori ci è chiaro – un addio, perché la sua carriera golfistica era di fatto finita.

Ecco, allora parallelamente al mio dolce mito mi sento un grande avvenire dietro le spalle, per citare Gassman. La mezza età è insomma questo dibattersi tra ciò che non è più e il fare i conti con quello che si è fatto e quello che ancora si vuole (vorrebbe) fare (i montaliani nonfatti); e in mezzo ci sono, pesanti e pressanti, le responsabilità e le attese che altri ripongono, legittimamente o meno, in te.

Io vedo la mia posizione nel mondo, stabilita, sostanzialmente solida, rotonda. Quello che ho fatto, più o meno, l’ho fatto; ora mi restano delle esplorazioni differenti, ma anche mi resta la sensazione che troppe cose sono al di là delle mie possibilità (appunto per gli anni che sono passati). Non è colpa di nessuno se il tempo scorre ma sono andato troppo in là, sono sulla strada dove non c’è ritorno.

Se dovessi sintetizzare tutto questo in una frase, direi che il sentirmi cinquantenne pur essendo quarantanovenne fa l’intera differenza.

Il mio corpo è una buona metafora del mio intero essere: perché com’esso giorno per giorno perde agilità, elasticità, reattività (la vista cala, mi tolgo e metto continuamente gli occhiali perché con gli occhiali non riesco più a leggere; corro un po’ più piano e un po’ meno a lungo di prima; e un giorno è un dente e un altro la schiena, un giorno il fianco e un altro le caviglie, ecceterissima), la mente fa altrettanto. E io mi ripeto, ridico le cose; ma del resto l’ho appena detto che questo è il diario di un cinquantenne, con ciò che di positivo e di negativo (e il tanto mezzo e mezzo) che la mia esistenza porta con sé.

Sono spunti interessanti per qualcuno? Sono solo pensieri che girano in tondo? Non so dare un giudizio preciso, io li registro e basta.

Ott 17

brooks
Oggi parlo di un argomento che occupa in maniera piena i miei pensieri, e che certamente continuerà ad occuparli negli anni a venire. È rivolto in primo luogo a chi ha grossomodo la mia età: semplicemente perché espone sensazioni che puoi descrivere fin che vuoi, ma se non le sperimenti su di te non possono restituirti significato. (Ho tentato l’esperimento ieri sera, con una persona di una quindicina di anni più giovane di me: ma quando le narravo delle gioie dell’età di mezzo mi ha risposto – com’è comprensibilissimo che sia – “ma dai, sei ancora giovane” e tirate del genere.)

Leggendo questo libro ho capito di essere giunto alla mezza età. E la cosa fondamentale è che questo mi rende felice, mi dà sensazioni molto positive che ora cercherò di spiegare. (Cioè, non è che mi occorra un libro per sapere che ho quasi cinquant’anni, ma secondo il mio personale assioma per cui una cosa è vera quando è scritta mi è più chiaro capirlo leggendo parole, ben scritte, di altri.)

La mezza età vuol dire maturità. Il che significa che posso dimenticare tante paranoie della gioventù, o per meglio dire lasciarle andare. Letting go. Ovvero: i sogni di gioventù sono stati fondamentali, mi hanno tenuto in vita, ma ora posso passare oltre, posso essere più consapevole, posso perdonarmi se non sono riuscito a fare tante cose che avrei voluto fare.

Le preoccupazioni materiali non sono più così importanti, o quantomeno non sono più in primo piano. Trasmettere la conoscenza, passare del sapere invece, questo sì. (È per questo che si fanno dei figli, e – su un piano diverso – è per questo che si scrivono libri e articoli.)

La mezza età è insomma una sensazione molto piacevole.

Del libro dirò ancora due cose. (È possibile che ne parlerò in maniera più approfondita in futuro, ma devo rileggerlo per discuterne con maggior cognizione di causa: è un libro profondo, pieno, la maggior parte dei concetti non puoi sperare di afferrarli alla prima passata.)

La prima è una citazione, da una poesia di Matthew Arnold:

Sotto la corrente, superficiale e leggera, di ciò che diciamo di provare – sotto la corrente,
così luminosa, di ciò che pensiamo di provare – laggiù scorre
con forza silenziosa, oscura e profonda, la corrente centrale di ciò che davvero proviamo.

La seconda è la descrizione dell’ultimo giorno di vita di Harold, che è un personaggio fittizio che l’autore utilizza per illustrare le sue tesi. David Brooks ne immagina le sensazioni:

Harold aveva ormai capito che il sé cosciente – la voce che aveva in testa – era più un servitore che un padrone. Era emerso dal regno nascosto ed esisteva per nutrire, curare, contenere, accudire, affinare e rendere più profonda l’anima che c’era dentro. […]
La percezione del proprio sé stava svanendo. Gli sembrava di tornare bambino, nella sua camera, a spostare soldatini sul pavimento, immerso in chissà quale grandiosa avventura. […]
A questo punto le sue domande sul senso della vita se ne erano andate, ma avevano avuto risposta. […]
Ciò che c’era in principio c’era alla fine: un groviglio di sensazioni, percezioni, spinte e bisogni che, asetticamente, chiamiamo inconscio. Questo complesso intreccio non era la parte “inferiore” di Harold, un elemento secondario da oltrepassare. Era il suo centro assoluto, difficile da vedere, impossibile da comprendere.

Ecco perché parlo spesso – sempre più spesso – di sensazioni: so che non riuscirò a definire quella massa inconoscibile che è il mio inconscio, ma so che è il centro di tutto. E il mio ultimo giorno di vita me lo raffiguro più o meno così. Ma per intanto mi godo la mia mezza età e i regali che essa porta con sé.

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Ago 08

Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua.
Eduardo

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Ieri, appena finito il raduno, la luce era meravigliosa nel mio rifugio tra i monti. Questo però non mi aiutava molto.

Già, perché da una parte c’era l’elaborazione di un lutto – per quanto piccolo – che era dovuto alla fine di questa bella giornata e delle piacevolezze che ha portato con sé; da un’altra c’era il pensiero che era l’ultima domenica d’estate che passavo in questo luogo che amo; da un’altra ancora c’era l’idea incombente che questo possa essere l’ultimo anno che trascorro qui; e infine (ma in ordine sparso) c’era il fatto che la mia prima iscrizione a Langit è di vent’anni fa.

Insomma ho pensato alla mia vita che scorre rapida, e al fatto che non riesco a lasciare il segno come vorrei.

Quindi c’era l’idea delle cose che finiscono. E quindi mi ha preso una malinconia fortissima, pensando alle cose che avrei potuto fare e non ho fatto, alle parole che avrei potuto dire e non ho detto. Alle possibilità avute e non sfruttate.

La malinconia delle cose che finiscono, la malinconia delle cose che non sono state.

Tutto quello che avrei potuto fare in più e invece non ho fatto.

E ho pensato a me stesso, alle mie forze declinanti come la vista, alle possibilità che non avrò più. Questa era la mia malinconia completa e piena di ieri pomeriggio, non appena il raduno è finito.

Allora questa mattina ho puntato la sveglia molto presto, ho fatto colazione al caldo buono della stufa e poco prima delle otto lasciavo l’auto qualche chilometro sopra il Santuario. Poco dopo le nove, da Punta Parvo, il panorama era questo:
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Ho camminato senza pensare per quasi cinque ore, percorrendo tredici chilometri e mezzo, scollinando, salendo, scendendo e scarpinando. Alla fine mi è sembrato – non l’ho pensato, ma mi è sembrato – che Eduardo abbia ragione, e insomma che forse da qui si possa ripartire con una consapevolezza nuova, che è quella dei tanti anni che sono trascorsi. Non ho più la gioventù con me, ma ho probabilmente dentro tanta forza per fare le cose che si potranno fare.

Apr 18

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Parlavo qualche settimana fa del fatto che nel mio paese “d’adozione”, là nel mio rifugio tra i monti, si comincino a vedere piccoli segni del cambiamento: ovvero che finiti una società e un mondo, con tutto ciò di doloroso e triste che ciò comporta, inizi una società nuova, basata su regole e condizioni e opportunità nuove. (In due parole: vivere in paesi come Montemale di Cuneo è conveniente, non soltanto piacevole, per tanti motivi che non elencherò ora.)

Ebbene, la settimana scorsa c’è stata un’altra piccola prova di questo fenomeno in atto. (È un fenomeno di lunghissimo termine, e dunque i segni non sono semplici da cogliere nel presente; ma cionondimeno esiste, e come!) L’occasione è stata una conferenza tenuta presso la Trattoria del Castello in cui si è parlato delle associazioni fondiarie (AsFo), e di come queste possano fare da volano per lo sviluppo economico delle nostre montagne.

Da fuori si potrebbe pensare: “Ma cosa vuoi che si possa organizzare, in un paesino così?” Invece…

Invece, dopo un’introduzione storica a cura di Lele Viola, che ha illustrato il concetto di bene comune in queste valli nei secoli scorsi, e che ha fatto capire che l’idea non è certamente nuova, ma è piuttosto l’ammodernamento di qualcosa che esisteva secoli fa, il professor Andrea Cavallero ci ha spiegato come funzionano, nella pratica, le associazioni fondiarie. Francesco Pastorelli ha portato la sua esperienza della prima AsFo italiana, a Carnino. Alberto Valmaggia, assessore regionale alla montagna, ha concluso i lavori, sia da politico (la politica è necessaria, per queste cose) sia da persona competente e appassionata. Il tutto introdotto dal “nostro” sindaco, Oscar Virano, e moderato con grazia, competenza ed efficacia da Fabrizio Ellena.

foto di Roberto Acchiardo

foto di Roberto Acchiardo


Ma non è tanto fare dei nomi e ringraziare delle persone che importa qui – per quanto sia cosa da fare. Mi importa soprattutto porre in luce alcuni concetti che ho portato via dalla serata.

1. Le associazione fondiarie superano il problema dei terreni incolti e abbandonati, una tra le piaghe principali di queste montagne, perché uniscono in un grande insieme tanti piccoli appezzamenti che, singolarmente presi, non hanno valore economico né sono di interesse per chicchessia.

2. Le AsFo sono un’opportunità di impiego per giovani, impedendo così un’ulteriore spopolamento delle nostre montagne e anzi favorendo esattamente il fenomeno contrario, quello che dicevo all’inizio (sarei decisamente e completamente sorpreso se tra dieci anni gli abitanti di questo paesino non saranno aumentati del 10% almeno rispetto ai 240 attuali).

3. Le AsFo possono fare da volano all’economia del luogo: io penso soprattutto all’aspetto turistico, e dunque a sentieri attrezzati e puliti, strutture ricettive e quant’altro. Questo perché so bene, e lo so per esperienza diretta di una vita (vengo in questi luoghi ininterrottamente dal 1974), il valore umano e personale ma anche economico delle risorse che si trovano qui.

Tanto volevo dire per introdurre l’argomento. Il tutto, poi, è per me stato ancora più di valore perché si è svolto “a casa mia”, e ho provato sensazioni magnifiche derivanti dal semplice fatto dell’essere lassù; ma di questo, eventualmente, dirò alla prossima puntata.

Feb 29

Daniel
Gli agenti del cambiamento sono un vecchio pallino di Daniel Tarozzi.

Ma ora, ora le cose si fanno serie. Si parla di visione, di dare una mano concreta a costruire una nuova Italia. Di aprire il portafoglio, di donare del tempo per questo progetto.

Daniel spiega tutto qui.

Io ho aderito subito, perché Daniel ha la mia fiducia totale e incondizionata (fiducia che non viene dal nulla, ma da tutto quanto ha dimostrato di saper fare in questi anni). Con l’età che ho, gli anni che pesano su queste spalle come rami pieni di neve, non sono sicuro che tutto questo porterà effettivamente a qualcosa (ho visto tante visioni e promesse finire in bolle di sapone, e in questo senso “la storia non è magistra / di niente che ci riguardi”, per dirla con Montale).

Ma proprio la mia età, la mia età di mezzo diciamo, mi dà la forza per credere a questo progetto, alla sua visione 2040.

(Ripenso alla mia visione del mondo quando pavesianamente ero un “giovane dio” e volevo costruire una grande azienda di traduzioni con tante persone da coordinare e motivare per fare, creare, produrre: non ho fatto tutto quello che volevo, anzi molte cose non le ho fatte, e certamente ho commesso una montagna di errori; ma qualcosa di buono, insomma, rimane. E tutto parte prioprio da una visione.)

Perché come ho detto più volte il mio vero valore aggiunto pubblico è nella descrizione di sensazioni: e le sensazioni che questa visione mi dà sono assolutamente positive.

I numeri crescono, il denaro raccolto aumenta, le ore offerte anche, e questo è del tutto positivo. Vada come vada, io delego volentieri una parte del mio futuro a Daniel.

Gen 18

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La settimana scorsa sono stato travolto – positivamente travolto – dalle reazioni a questo post, ovvero all’intervista fattami da Daniel Tarozzi nel mio rifugio tra i monti e all’articolo scritto da Paolo Cignini. Ne faccio ora qualche considerazione.

Innanzitutto, un plauso va a queste due persone che hanno svolto un lavoro professionale e appassionato. Io ho solo raccontato la mia storia; e in seguito alle reazioni e ai commenti mi rendo conto (non che non lo sapessi, ma insomma è una conferma) che alla fine delle fini tutti abbiamo problemi e aspirazioni simili. Quindi qui vorrei dare alcune indicazioni che potrebbero essere utili a terzi.

Partiamo dalle precisazioni, tanto per sgombrare il campo.

La vita 2.0 è un processo che si affina nel tempo, che richiede metodo, costanza, lacrime, sudore e sangue (sudore soprattutto). Non è detto che sia così per tutti: a volte rimango stupito (non dovrei, lo so) nel vedere persone che ci mettono un attimo a fare passi che a me hanno richiesto anni. Ma in ogni caso non puoi pretendere di trovare la ricetta pronta: ciascuno dovrà adattare le conoscenze, le strategie e le tattiche al suo proprio caso.

Alcuni punti di partenza (senza un ordine particolare):

il libro di Tim Ferriss (fondamentale);

il principio di Pareto;

la legge di Parkinson;

– la tecnologia;

– tanto pensiero, tanto lavoro su di sé.

Una parola sulle “ricette”. Le ricette non esistono! Questo percorso è una faccenda laboriosa, un percorso da compiere prima di tutto su se stessi. Un cammino lungo anni, costellato (parlo per me) di errori e di strade sbagliate. “Se devi sbagliare fallo in fretta”, come dice Greg Norman.

Nessuno dice che è facile. È un percorso che si può compiere ma che costa fatica e richiede tempo – anni, non mesi o giorni. Occorre fare un grosso lavoro su di sé, occorre mettere in discussione assiomi consolidati della propria vita. Occorre pensare tanto, occorre sperimentare. Occorre essere consapevoli del fatto che si farà una marea di errori, che si prenderanno mille strade che non portano da nessuna parte. Occorre leggere tantissimo. Alla fine, applicando le conoscenze apprese e con un po’ di fortuna si arriverà a un risultato. Le maniere per cambiare esistono, poi sta a noi darci da fare.
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Altro punto: mi trovo a fronteggiare obiezioni che ho già sentito mille volte. Sempre le stesse. La più tipica è “eh, beato te che lo puoi fare…” Sul punto vedi anche qui. Via tutte le balle: se tu mi dici “beato te” vuol dire che preferisci il tuo cuscinetto comodo, le tue abitudini consolidate a una strada impervia ma che può essere piena di sorprese positive.

Oppure mi dici che questa è roba per ex-manager che mollano tutto e vanno a vivere in Nepal. Allora non hai capito un cazzo.

Io non ho ricette né doti particolari, ho “solo” organizzato informazioni e conoscenze per arrivare a un risultato concreto. E so per certo che chiunque può farlo; ma so anche che la maggior parte delle persone dirà cose come “eh, beato te che puoi permetterlo”, “sì, ma io lavoro come dipendente” eccetera eccetera. Sono discorsi che sento da anni; ma intanto il tempo passa per tutti.

L’esperienza è condensata nel libro. Ma il libro oggi, passati cinque anni (Where has time gone?), mi soddisfa solo fino a un certo punto. È per questo che sto pensando alla versione 2.1, di cui darò conto nel tempo. Per ora mi accontento di condividere i miei pensieri, i miei successi e i miei fallimenti. Servirà a qualcuno? Non lo so, questo puoi saperlo solo tu.

Lug 27

Meaningoflife
Gestisco la mia attività da oltre vent’anni. Vent’anni sono un tempo lunghissimo, un periodo in cui succedono tante cose, in cui assisti a tanti fenomeni.

Dal 1992 a oggi ho avuto una miriade di consulenti. Intendo qui questo termine nella sua accezione più ampia possibile, a includere notai, avvocati, commercialisti, informatici, meccanici e via dicendo: ovvero chiunque abbia utilizzato la sua esperienza professionale (vera o presunta) per consigliarmi sul da farsi rispetto a problemi specifici dell’attività.

Ebbene, di tutte queste persone che si sono avvicinate a Tesi & testi posso dire che la stragrande maggioranza è stata in buona fede. Solo in qualche caso c’è stata una sorta di dolo, materializzatasi nell’approfittare di uno stato di bisogno. Se chiudo gli occhi mi vengono in mente due casi eclatanti: una società di informatica che mi vendette come indispensabile un servizio di cui non avevamo assolutamente bisogno e che di fatto consisteva nel nulla, solo che fu brava a presentarlo come necessario (come non pensare alla macchina che fa “ping” di montypyphoniana memoria?); e uno studio di avvocati che presentò il suo servizio come toccasana, quando tali professionisti sapevano per certo – ora lo so senza ombra di dubbio – che sarebbe stata la mia rovina.

Tolti questi due casi, per tutti gli altri il desiderio di aiutare era sincero. E se in tanti casi il valore è corrisposto al costo, in alcune evenienze ha prodotto danni notevoli; danni che in determinati casi ho scoperto soltanto anni dopo (il Cigno nero torna inesorabile).

Quindi ho riflettuto non sul latte versato, punto sul quale non ho maniera di intervenire, ma sulla seconda parte della mia attività lavorativa, sugli anni che mi restano per produrre valore e sul come non ripetere (cercare di non farlo, perlomeno) gli errori marchiani fatti in passato.

E la risposta è una sola: maggiore attenzione da parte mia. La fiducia va bene, ma vigilare anche. Prometto a me stesso che sarò più attento, tutelerò meglio la mia attività, sarò vigile e cauto: la mia esperienza servirà – e tanto, suppongo – al me stesso che verrà.

Mar 02

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Ieri mattina la caldaia, per la prima volta nell’anno, ha raggiunto la temperatura e dunque si è spenta prima del tempo. Questo significa una cosa bella e precisa: che la settimana che inizia oggi è di fatto quella che segna la fine dell’inverno e il passaggio verso la nuova stagione.

Sono sceso sotto e ho respirato dell’aria differente. Già, l’aria, ieri mattina, era differente: più lieve, meno greve, più piena. E la luce era più calda e più intensa.

Questa è una delle settimane dell’anno che preferisco, perché questo passaggio è molto importante. Il carnem vale è ormai alle spalle, un clima più mite è dritto di fronte a noi. Da studente universitario questo cambiamento lo avvertivo sul pullman che mi portava a casa da Palazzo Nuovo, perché il colore delle foglie sul Po mutava in maniera decisa nel giro di quei – questi – pochi giorni; ora è la caldaia, ma il risultato non cambia.

Quando esprimo questo concetto, invariabilmente mi sento dire: “Ma la primavera inizia il 21!” Lo so che il calendario dice questo, però allora mi costringi a citare Montale:

le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Primaveristicamente parlando, la realtà non è quella che si vede, ma quella che si sente. Ieri mattina ho avuto la gran gioia di sentirmi proprio leggero.

Feb 16

donnie brasco
Il post di oggi nasce da un commento casuale fatto da un’insegnante sulla rinata lista Langit a proposito di un misero compenso percepito per un lavoro. L’occasione è casuale, ma il tema è generale – e anche ricorrente – e val la pena approfondirlo.

Io, per dirla con Nelo Risi,

vorrei solo che dall’urto
nascesse una più energica morale.

Ma so anche che Donnie Brasco direbbe: “Che te lo dico a fare?”

Il sottinteso di un misero compenso è questo: è bene accettare qualunque prezzo ci venga offerto, altrimenti non si lavora.

Ebbene, lasciamo da parte il bene della categoria, il rispetto verso i colleghi, considerazioni morali eccetera. Non parliamo di questo.

Parliamo “semplicemente” della convenienza economica e professionale, per un traduttore (o un insegnante, o un giornalista, o un web writer o i mille altri mestieri che oggi compongono “il popolo delle partite IVA”, è lo stesso), di accettare un compenso che sta ben al di sotto del livello di sopravvivenza.

(Occorre “spezzare l’assedio”, per dirla alla Luca Canali.)

Io capisco bene l’obiezione di chi sta entrando sul mercato del lavoro dopo aver fatto tutti i corsi del mondo, è perfettamente preparato/a ma riceve solo offerte a 3 euro l’ora.

Ebbene, c’è una notizia: quei 3 euro l’ora non ti porteranno da nessuna parte. Ti faranno solo del danno. A te, non al mercato. A te.

I 3 euro l’ora hanno senso solo se inseriti in un progetto, ovvero in cambio dell’imparare un mestiere, ovvero con una prospettiva reale e documentata. Realtà, non promesse.

Certamente dopo tanti anni di mestiere mi è “facile” parlare così. Però i problemi di liquidità ce li ho anch’io, gli errori li faccio anch’io e così via.

Ma questo è un assioma: i 3 euro/ora / i 3 centesimi/parola eccetera ti fanno un danno. Non ti portano alcun beneficio.
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Mi piacerebbe che chi si trova in situazioni del genere riflettesse su questo fatto, considerasse che farsi del male non è lecito (oltre che sciocco). Capisco le sue obiezioni ma mi piacerebbe che andasse oltre, che trovasse un’altra via perché questa non gli/le porterà del bene.

È difficile, lo so. Richiede tempo, sudore, lo so. Fortuna, anche. Ma un punto di arrivo sensato potrebbe, a mio avviso, essere riassunto nelle parole di Jack Walsh in Prima di mezzanotte:

Dammi quello che è giusto, Eddy, e te lo porterò qui entro venerdì a mezzanotte.

Io non sarò l’ennesimo “professionista” che si immolerà sull’altare del lavoro irretito da promesse e atterrito da quel che vede intorno a sé, e tu avrai quello che chiedi. In un rapporto corretto, dove guadagnerò quello che è giusto perché avrò portato valore al mio committente.

Dic 29

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Ho visto il mio corpo, negli ultimi anni, cambiare. Lo sento, soprattutto: perché i capelli grigi si vedono, ma lo scricchiolare delle giunture si sente.

È cambiato il mio animo: verso i trent’anni, quando muovevo i primi passi nella professione, ero sicuro di me, un ragazzo giovane in giacca e cravatta che sapeva il fatto suo. Poi qualcosa è cambiato: l’ultima volta che credo di essere apparso giovane è stato al congresso dell’AITI. Avevo quarantun anni allora e stavo cambiando, naturalmente; ma poi il processo ha acquistato momento.

È cambiata la mia anima, come conseguenza di tutto ciò che è successo e non successo in questi anni. Oggi tutto mi pare più difficile, mi pare di vivere al 5%, di esprimere solo la superficie delle mie possibilità reali.

Ma alla fine, sebbene nel mio cuore nessuna croce manchi, non credo sia così grave. Alla fine credo che Sabina esprima bene lo stato delle vite di coloro che giovani non sono più, ma per i quali la vecchiaia è ancora di là da venire:

Il premio degli anni che passano è la capacità di accogliere ogni giorno, benigno o severo, di trovargli un milione di pregi e un magro difetto.

Cioè insomma ho preoccupazioni materiali – all’età mia dovrei già essere sistemato e non fare sempre i conti con i centesimi di euro – e nell’animo, luogo dove difficilmente le cose sono strutturate come piacerebbe a me (mi sarebbe piaciuto, per dir meglio: perché ora anche se non tutto è al posto giusto va bene così), ma non importa: essere qui a registrare i miei pensieri, vedere il mio corpo e il mio spirito, io, trasformarsi ha un che di magico e va bene così.

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