Dic 19

Mentre entravo per la solita lezione settimanale di pilates ai Ciliegi oggi, come tutti i lunedì del mondo, davanti a me camminava un signore distinto, di mezza età, i capelli brizzolati, vestito di tutto punto nel suo bel cappotto blu, le scarpe lucide, e sotto il braccio un fascicolo di un certo spessore, che ho immaginato essere un catalogo con un listino prezzi o simile. Evidentemente era diretto all’hotel per un incontro di lavoro.

È stato un attimo. Ho visto in lui il me che avrei potuto essere, che potrei benissimo essere oggi, un executive con lo stipendio a tanti zeri, tante responsabilità, tanto potere e tanto rispetto da parte dei propri pari e dei sottoposti. Immodestamente dico che ne avrei avute le doti.

Invece nel fotogramma successivo lui è andato diritto all’albergo e io ho girato per il golf, e riflesso nel vetro della porta ho visto Gianni Davico con un berretto comprato al Decathlon per pochi euro, con la tuta e le scarpe da ginnastica come ho quasi sempre durante un giorno normale. Insomma un me stesso mite, semplice, fors’anche dimesso, come in effetti sono io.

È stato spontaneo fare un raffronto: là un uomo di successo e qui un ragazzo semplice. Ma non ho dovuto pensare: non cambierei mai e poi mai e poi mai la mia posizione magari instabile con la carriera e le responsabilità di quell’uomo. Preferisco la mia tuta e le mie fide Adidas, preferisco essere semplice e lineare.

Mi sono venute in mente le parole di Jakob Burak:

La decisione più difficile per un uomo di successo è rinunciare alla propria strepitosa capacità di accumulare denaro per fare spazio a una vita più equilibrata, più umile, nella quale avere il tempo per dedicarsi a cause che con gli affari non hanno niente a che vedere.

Mi tengo le mie scarpe da ginnastica, non ho nessuna invidia, va benissimo così.

Nov 14

l'andata

l’andata


Sono stato qualche giorno con mia figlia piccola a Venezia.

Papà e figlia, figlia e papà in un dialogo fitto e continuo, lungo quattro giorni. Io tutto preso dalla meraviglia delle sue scoperte, come gli occhi dilatati dalla sorpresa quando si è resa conto che il ponte di Rialto è così alto; o una lunghissima passeggiata nel sestiere Castello, dove i turisti sono rarissimi, e Michela che mi dice che per lei quella è la zona più bella di Venezia, pareggiata forse solo dai canali dietro l’isola di Torcello, oltre la chiesa, in un luogo dove ci arrivi solo andandoci apposta e/o molto per caso.

La magia è negli occhi di chi guarda, insomma. E penso a Venezia come città in piena difficoltà, perché è di fatto un albergo gigante, un luogo dove vivere è complicato, è resistenza, è un atto d’amore.

E penso a me stesso, anche, a come sono cambiato in questi anni (questo diario è uno specchio abbastanza fedele di questa trasformazione): pubblico e ingessato un tempo, intimista e lieve oggi. E con tanti capelli grigi, è vero; ma che mi paiono quasi medaglie al valore.

il ritorno

il ritorno


Ma soprattutto penso a che cosa significa essere genitore, che in poche parole mi sembra l’essenza della vita stessa. E ritorno a un punto centrale, qualcosa che capisco col cuore ma non ho mai inteso bene con la mente:

This bus ride was it.[…] This was life itself.

Il viaggio in treno, il gatto dentro il negozio, il Canal Grande attraversato di sera, la pioggia e la notte che scendevano, il tramonto visto dalla Giudecca. Questo era. Questo è.

Ott 03

Madonna della Neve, Narbona

Madonna della Neve, Narbona


Col presupposto che tante volte questo mio diario pubblico è anche il mio diario personale, sono andato a riprendere alcuni vecchi post che riguardano il mio rifugio tra i monti. Ho riletto, pensato, provato dei sentimenti. Nei giorni scorsi, soprattutto grazie alle parole di Batista, l’amico mio più caro, e di Gyorgyi, una traduttrice che mi è ugualmente molto cara anche se non l’ho mai incontrata de visu, ho capito che dopotutto posso fare a meno di quel luogo. A molto malincuore, si capisce: ma il fatto è che io amo quella valle, quella cultura, quei silenzi (i silenzi sopra tutto, questo non è prescindibile), e in parallelo che non ho più l’età per fare tanti compromessi.

(Di quel che è successo di preciso dirò quando l’avrò metabolizzato per intero.)

Per quel che si può, però: perché noi pensiamo di fare delle cose e trighiamo e brighiamo eccetera ma poi ciò che succede, i risultati delle nostre azioni, è una combinazione di fatti quasi assolutamente casuali e quasi del tutto slegati tra di loro. Quindi io penso di non volere fare compromessi ma poi fatalmente ciò accade. E pazienza; ma per quel che posso controllare il mio pensiero è semplice e lineare: io voglio andare diritto alle radici dell’essenza delle cose. Posso non riuscirci, o non riuscirci sempre, o riuscirci solo qualche volta, ma questo è l’obiettivo.

E quindi voglio finire di preparare la lista delle cento cose da fare. E poi farle. (Domani, ad esempio, con un amico – idea sua e lode quindi a lui – porto papà in un luogo di montagna dove lui soggiornò da piccolo e di cui conserva tante belle memorie. Questo è un fatto forse minimo ma molto importante.) Questo è fondamentale. Mi sto applicando proprio per quello, anche perché non c’è più tempo da perdere: ho bighellonato anche troppo.

E poi, tornando alla montagna, questo ancora voglio dire: quando faccio delle cose che mi danno soddisfazione intrinseca ed estrema – cose autoteliche, diciamo – sono spesso da solo. (Camminare per le montagne è appunto la prima attività che, chiudendo gli occhi, mi viene in mente.) Questo da una parte mi dispiace, ma dall’altra mi dice che gli accadimenti importanti e significativi, veramente importanti e significativi della nostra vita non vanno nella direzione consueta, non vanno nel senso comune, non vanno nel senso delle cose che fanno tutti.

Set 19

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Oggi vorrei sviluppare – abbozzare, almeno – un pensiero, che è quello della pianificazione a lungo termine.

Ovvero (la vedo dal mio punto di vista, ovviamente): penso che nonostante tutti i miei anni, nonostante le magagne, le cose che non vanno eccetera ho ancora tanto di bello da dare e da ricevere dagli anni a venire. Tanto, tanto davvero; a condizione, però, che il tempo sia inserito in un “disegno”, nella convinzione di fondo che quel che desideri, presto o tardi, si avvera.

Mi rendo conto che troppo spesso sono preso dai problemi del momento, dalle mille faccende di cui domattina mi sarò già completamente dimenticato – dunque affanni che non hanno importanza reale. E questo, credo, accomuna tutti quanti.

Mi ero dato un compito per la Corsica: la stesura di un file che ho chiamato “le 100 cose”, che è l’elenco di ciò che voglio fare da vivo. Ho cominciato, ma prende del tempo perché richiede tanto pensiero, tanta concentrazione. (E i miei capelli grigi sono un segnale non equivocabile che io di tempo non ne ho poi così tanto.) E ho capito anche che il risultato migliore posso averlo con brevi periodi di pensiero, in momenti di totale rilassamento e pensieri svuotati.

Sono convinto che questo è un punto importante: per questo ne parlo qui, adesso, pubblicamente, anche se ho solo mezze risposte, solo punti abbozzati, solo sette dei cento punti fissati. Ma è fondamentale.

E nel dettaglio ho capito che le direzioni che voglio prendere sono due soprattutto: una che riguarda il mio corpo (il camminare, lo sport) e l’altra che concerne lo scrivere (questi blog sono terapeutici, gli articoli sono terapeutici, sì; ma io voglio andare oltre, mangiarmi una collina – o forse più esattamente mangiarmi una montagna, un passo per volta).

Cerco di fare spesso questa attività, credo sia utile. Di più, sostanziale (“strategica”, avrei detto un tempo, nel tempo in cui volevo creare un’azienda che immaginavo di riempire di persone e progetti). Mi permetto di consigliarla a chi legge. E chiedo anche a chi legge qual è la sua strada in questo senso, ovvero come cerca di andare oltre al quotidiano, di lasciare un segno del proprio passaggio, di morire da vivo.

Set 05

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Oggi è un giorno di confine.

Oggi è il giorno del ritorno dalla montagna in mezzo in mare, da quel luogo di incantagione che amo in maniera sconsiderata, una partenza che spera – di più, confida – in un ritorno.

Se il momento dello sbarco al porto di Bastia è un momento pieno di luce, di sole e di colori, di attese e di promesse (che poi puntualmente si avvereranno), il momento dello stacco dal medesimo porto – che accadrà da qui a poche ore – è un momento non triste, no, triste non di può dire, ma certo carico di pathos, di sentimenti pieni.

In più, come ormai tradizione negli ultimi anni, quando ritorno dalla Corsica ho anche per l’anagrafe un anno in più (ciò aggiungendosi a questo preciso momento dell’anno in cui, soprattutto con la ripresa della scuola dei figli, più chiaro che a Capodanno si avverte che un altro anno è passato; e se per avventura sei nato proprio in questo periodo le cose si sommano). In sostanza sono partito che avevo IIL anni e torno avendone IL. Ma un tempo tenevo maniacalmente al compleanno, ora invece mi sembra qualcosa che accade come tante altre cose, che non richiede grande considerazione. (Però accade, e questa tradizione familiare la trovo ormai molto mia, mi appartiene.)
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Invece più importanti – estremamente più importanti – sono le sensazioni di questo soggiorno, quelle provate camminando soprattutto. Di quando me ne stavo seduto a guardare le montagne. Di quando entravo in un paesino come in punta di piedi, per non disturbare l’armonia del luogo. Dei grandi silenzi, immensi, come quello della piazza di Serra di Scopamene all’imbrunire, interrotto solo dal gorgogliare della fontana; e poco più in là una signora che raccoglieva le foglie secche. Della vista dal faro di Senetosa, luogo un tempo abbandonato e ora riportato a nuova vita nell’accogliere viandanti. Di Marmuntagnja, ovviamente.

il faro di Senetosa

il faro di Senetosa


La Corsica. Il mal di Corsica. Lascio questa terra già pensando al ritorno prossimo, e comunque con gli occhi e la mente pieni di gioia.

Ago 29

Questo fatto angosciante mi ha colpito qui, nella mia patria seconda, in uno dei periodi che è tra i più belli dell’anno, in un luogo che amo immensamente, pieno com’è di luce e di silenzio.

Nei giorni successivi ho pensato tanto a quello che era successo. Come tutti mi sono sentito piccolo e insignificante. E non ho avuto nulla da dire a proposito che paresse intelligente o che fosse di un minimo di consolazione.

Allora ho cercato di rispondere come potevo. Correndo un po’ più forte, camminando per qualche chilometro in più, restando un poco di più in silenzio. Tutte cose che non servono a nulla, lo capisco bene, ma un poco sono servite a me per interiorizzare un fatto che – per quanto ci si possa aspettare che accada – al suo accadere ci trova del tutto impreparati.

Ho pensato a me e alla mia famiglia, al sicuro nella nostra stabilità, come contraltare al disastro di quelle povere famiglie. Non ho voluto nel modo più assoluto leggere articoli o guardare foto di quei giornalisti-sciacalli che si precipitano sui luoghi delle disgrazie per “sentire le impressioni”. Non voglio entrare nelle loro storie estorte “per dovere di cronaca”.

Insomma questo, che sarebbe stato per periodo dell’anno un post leggero, pieno di quella luce di cui la Corsica abbonda, è invece una raccolta di pensieri che non hanno un senso compiuto, proprio perché il fatto è troppo recente perché possa già essere stato “digerito”. Poi lentamente la vita riprenderà il suo corso, ce ne faremo una ragione – e del resto per noi, che non siamo toccati direttamente dalla sciagura, non è cosa così ardua –, passeremo oltre. Ma oggi volevo, anche se l’ho fatto in maniera scomposta, registrare un pensiero per coloro che sono stati colpiti da questa tragedia.

Ago 15

A quei tempi non mi capacitavo che cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare delle cose difficili – come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedere morire, ritrovare la Mora com’era adesso.
Cesare Pavese, La luna e i falò

Punta Zilia

Punta Zilia

Giorni del tutto sereni, questi. Sono immerso nella natura della terra che probabilmente amo sopra tutte, la montagna in mezzo al mare che mi ha accolto la prima volta quattordici anni fa e dove ogni volta ritorno sempre come fosse la prima e nello stesso tempo l’ennesima.

Qui cammino corro respiro, passeggio lungamente, ho i pensieri svuotati. Mi sento a casa. A volte penso alle vacanze di tanti anni fa, quando la mia lettura preferita era “Il Sole 24 Ore”, e anche se tante cose non le capivo pensavo che avrei dovuto, per fare quello che volevo fare – costruire una grande azienda con tante persone a lavorarci dentro eccetera eccetera eccetera. Poi gli anni sono passati e il percorso è stato molto diverso da come me lo immaginavo all’inizio, ma assolutamente più appassionante e interessante.

Oggi penso che ora avrei la maturità per ampliare l’azienda, costruire qualcosa che potrebbe assomigliare a quello che avevo in mente tanti anni fa. E lo penso qui perché in questo luogo immerso nella serenità e quindi privo di qualunque pensiero negativo mi viene più semplice cercare di costruire e immaginare il futuro come potrebbe essere e come vorrei che fosse.

Tante cose non le posso più fare e questo mi è chiaro, gli anni sono passati e sono nelle mie seconde nove. Tuttavia, ho lavorato sempre con passione e desiderio, come sempre con passione e desiderio sono venuto e torno in questa terra.

Tradicetu

Tradicetu


Ciò che mi manca rispetto ad allora probabilmente sono le ambizioni, perché adesso non ritengo più necessario fare tutte quelle cose come costruire una grande impresa: a me interessa molto di più osservare, camminare, respirare. Credo sia per questo che in luoghi come questi, così come nella Valle Grana, mi trovo assolutamente a mio agio. E se qualcosa manca, e se quella grande azienda comunque non verrà mai costruita, non lo considero un problema: è andata in questa maniera, ho fatto un milione di errori ma non mi rammarico di nessuna decisione presa, e tutto quello che ho fatto di sbagliato è servito per portarmi fino a qui: di questo sono molto contento. Quello che succederà vedremo, ma comunque vada sono soddisfatto.

Ago 08

Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua.
Eduardo

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Ieri, appena finito il raduno, la luce era meravigliosa nel mio rifugio tra i monti. Questo però non mi aiutava molto.

Già, perché da una parte c’era l’elaborazione di un lutto – per quanto piccolo – che era dovuto alla fine di questa bella giornata e delle piacevolezze che ha portato con sé; da un’altra c’era il pensiero che era l’ultima domenica d’estate che passavo in questo luogo che amo; da un’altra ancora c’era l’idea incombente che questo possa essere l’ultimo anno che trascorro qui; e infine (ma in ordine sparso) c’era il fatto che la mia prima iscrizione a Langit è di vent’anni fa.

Insomma ho pensato alla mia vita che scorre rapida, e al fatto che non riesco a lasciare il segno come vorrei.

Quindi c’era l’idea delle cose che finiscono. E quindi mi ha preso una malinconia fortissima, pensando alle cose che avrei potuto fare e non ho fatto, alle parole che avrei potuto dire e non ho detto. Alle possibilità avute e non sfruttate.

La malinconia delle cose che finiscono, la malinconia delle cose che non sono state.

Tutto quello che avrei potuto fare in più e invece non ho fatto.

E ho pensato a me stesso, alle mie forze declinanti come la vista, alle possibilità che non avrò più. Questa era la mia malinconia completa e piena di ieri pomeriggio, non appena il raduno è finito.

Allora questa mattina ho puntato la sveglia molto presto, ho fatto colazione al caldo buono della stufa e poco prima delle otto lasciavo l’auto qualche chilometro sopra il Santuario. Poco dopo le nove, da Punta Parvo, il panorama era questo:
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Ho camminato senza pensare per quasi cinque ore, percorrendo tredici chilometri e mezzo, scollinando, salendo, scendendo e scarpinando. Alla fine mi è sembrato – non l’ho pensato, ma mi è sembrato – che Eduardo abbia ragione, e insomma che forse da qui si possa ripartire con una consapevolezza nuova, che è quella dei tanti anni che sono trascorsi. Non ho più la gioventù con me, ma ho probabilmente dentro tanta forza per fare le cose che si potranno fare.

Lug 18

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Avevo un problema grosso. Per tutta la settimana scorsa avevo continuato a pensare a quello che era successo la domenica precedente, a casa mia nel mio rifugio tra i monti. È qualcosa che sono riuscito ad elaborare solo l’altro ieri, sabato, salendo al bivacco Rousset, che è un luogo che mi dà pace e tranquillità.

Sì, un fatto molto simile mi era successo l’anno scorso, quando salendo lassù avevo avuto la sensazione magnifica di liberarmi completamente dei problemi avuti con l’INPS che mi avevano tolto il sonno per un paio di anni: fu proprio come togliermi un peso, una splendida metafora della leggerezza dopo il tormento.

Questa volta è stato un po’ diverso, nel senso che sono salito lassù magari un po’ inconsciamente ma di fatto con l’idea di pensare, di riflettere, di sistemare le cose dentro di me. E quando sono arrivato in cima a quelle montagne sono stato in grado di capire quello che non riuscivo a razionalizzare.

(Non era #ER16, come hanno paventato alcuni amici! I bambini non hanno fatto alcun disastro, e nessuno si è lamentato!)

Ho capito che il nostro padrone di casa ha compiuto un atto sbagliato. (Non interessano qui i dettagli, basterà dire che ha avuto un atteggiamento che colpisce e offende una famiglia – la mia – che dalla notte dei tempi anima quel luogo.) Mi sono messo il cuore in pace, ho capito che posso anche rischiare di “perdere” il mio rifugio e pazienza, però devo dire a lui come stanno le cose e come la vedo io, perché quello che ha fatto non è giusto.

E insomma una volta che ho capito questo semplice fatto sono stato molto più tranquillo. Ho capito veramente perché ero salito fin lassù: in effetti era proprio per quel motivo lì.
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E allora il discorso generale, al di là di quello che è successo a me, che può essere importante o meno, è che camminare chiarifica i pensieri. Camminare in montagna li chiarifica ancora di più, li pulisce veramente.

E quindi l’andare nel mio rifugio tra i monti mi sembra già un’ottima occasione per sistemare le cose; ma a volte può non bastare, e allora devo salire un po’ più in alto, per esempio ai 2300 e rotti del monte Grum, e sedermi lassù in perfetto silenzio. E così certamente le cose – almeno dentro di me, e senza fare alcunché di particolare – si risolvono.

Giu 20

estate
Abbiamo fatto la pazzia, e la responsabilità è innanzitutto mia.

Tutto trae origine da un pensiero: vedere mia figlia piccola così spensieratamente bambina, innocente e felice nei suoi giochi (“La vita è fatta solo di giochi”, ha detto alla mamma non più tardi di un mese fa), e capire, sapere che è al limitare dell’infanzia, che questa sarà forse l’ultima sua estate di bambina; e allora cercare di fermare il tempo, e fermarlo io so che si può solo mirando a viverlo nella sua pienezza intera, nel suo andare, nel suo flusso naturale, con l’idea (forse infantile, e certamente ingenua) che tutto questo contribuirà a rinforzare i miei ricordi di lei quando bambina non sarà più.

Allora abbiamo invitato nel nostro rifugio tra i monti la sua classe intera, per una settimana che è quasi qui. Ed è stato un successone di adesioni: nella prima settimana di luglio saremo in compagnia di ventidue diconsi ventidue bambini scorrazzanti, urlanti, ridenti, felici intorno a noi.

Bambini felici.

Ecco, alla fine delle fini mi sembra che essere genitore sia questo. Cioè mi sembra che in accadimenti come questi sia nascosta una risposta – provvisoria e parziale, per carità – al motivo per cui esistiamo.

(Già, quella notte in cui nacque Roberta capii – intuii, forse, è più preciso – che attraverso quell’angelo di respiro e sangue sarei diventato immortale.)

Sarà una settimana superimpegnativa, ma dove c’è gusto non c’è perdenza. Ne parlerò ancora più di una volta, è sicuro. Ma insomma oggi volevo fissare in questo diario questa idea, rendere chiaro anche a me stesso che fare delle pazzie, a volte, vuol dire esser vivi.

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