Io credo che occorra partire dalla fine, e da lì tornare indietro. E allora comincerò dall’omelia che sabato, in una chiesetta di montagna strapiena, e i microfoni fuori ad amplificare le parole per le tantissime persone giunte a dare l’estremo saluto a Sergio Arneodo, padre, nonno, suocero, professore, scrittore, poeta, cantore della montagna, il prete ha pronunciato per il funerale di questo piccolo grande uomo. In una parola lui ha detto che quel che conta è l’eredità che lascia: e l’eredità di Arneodo non si misura certo in denaro, ma in opere, pensieri, libri e così via.
Arneodo era un grande uomo, e voleva bene alle sue montagne – terra povera e difficile, ma terra sua e dei suoi padri e dei padri dei suoi padri. Per questo mi sono commosso quando la salma, dopo la cerimonia, è stata portata per il paese per un addio monti semplice che vale più di tante parole. Tutto nel piccolo paese di Sancto Lucio de Coumboscuro era silenzio, un silenzio fatto di rispetto e commozione e presenza.
Presenza, non assenza: perché l’insegnamento del magistre è davanti a noi, pronto per essere colto.
Credo che il succo del discorso di questo magistre è che la montagna – la montagna del silenzio voglio dire, quella povera e sincera, non certo i centri sciistici rinomati – ti dà tanto. Come per il lavoro tu vieni pagato, la montagna ti paga per l’attenzione che le dedichi, ma lo fa con una moneta molto più importante del denaro: ti ricarica lo spirito.
Devi imparare ad ascoltarla, è chiaro. Devi dedicarle tempo. Ma ti ripaga, questo è certo. E penso anche che sia una risorsa preziosa in termini di posti di lavoro, di turismo e così via: qui però i discorsi si fanno molto articolati, richiedono amministrazioni illuminate e politiche sagge e accorte. Ne parleremo un’altra volta.
Certo la montagna è difficile. Metaforicamente è come una poesia di lou magistre (I avìho lou fuèc):
Sabìen qu’i avìho lou fuèc dins lis encrénos
de la mountagno, sout li mèrse e vrous
li bars, li pra, li estabi, sout li crous
dal cementièri. Avìhen guinchà
la tépo, se tubavo ente se féno,
se làuro, s’arpìo l’uèrge poursierous
per li òuchos de l’adréch. Derén es rous
chapuéi li gerp, despì a charamaià
sus nostro gént. Din ta néu, moun Deiniàl,
laissén la marco oulvro, sus lou lindàl,
di nuestes pihà.
È difficile (del resto il provenzale di oggi, come pure l’italiano, ha radici ben fondate nel trobar clus), ma ti ripaga in maniera molto più che proporzionale. A patto che tu sappia e voglia ascoltarla, naturalmente. Credo che questa, in poche parole, sia la lezione di Sergio Arneodo.
Arveire, magistre.
Sergio Arneodo, in memoriam http://t.co/kWOIVqdKvi [arveire, magistre]