Egregio dottor Mondo (anche se l’appellativo “dottore” mi sembra assurdamente riduttivo per rivolgermi a lei),
questa sera, appena entrato all’Archivio di Stato di Torino alla presentazione coordinata dalla professoressa Masoero di Officina Einaudi, il volume dedicato alle lettere editoriali di Pavese, la prima persona che ho incontrato è stata lei, lei che mi aveva aiutato tantissimo mettendomi a disposizione l’archivio de “La Stampa” allorché tra il 1993 e il 1994 stavo preparando la mia tesi su Pavese; quell’archivio dove avevo passato un pomeriggio appassionante di letture di articoli e avevo ricavato tanto materiale utile per la mia tesi.
Ebbene, lei mi ha domandato se avevo seguitato ad occuparmi di Pavese. Io, confusamente, ho balbettato di no.
Ho scordato, però, di menzionare gli articoli che ho pubblicato su una rivista di primo piano nell’editoria subalpina, “Studi Piemontesi”.
E non le ho detto che Giulio Einaudi per lettera e Norberto Bobbio per telefono mi avevano incoraggiato a proseguire gli studi su Pavese, una volta che – fresco di laurea – cercavo il mio posticino nel mondo.
Poi le cose sono andate diversamente e oggi sono soddisfatto di ciò che faccio. Ma è altrettanto vero che ogni volta che vengo in contatto con Pavese – e questa sera tra il pubblico c’era anche Cesarina Sini, la nipote: dunque il contatto non era solo accademico, ma umano, troppo umano – ho, per dirla con Pavese, l'”effetto di toccare un filo di corrente”; e ritorno con la mente a quei momenti di un Gianni Davico acerbo che avrebbe voluto dedicare tutte le sue energie allo studio di Pavese, ma non ne ha avuto la possibilità/sorte/abilità.
E in questo senso vedevo in Silvia Savioli, la giovane studiosa che ha curato il volume, il me stesso di tanti anni prima, un futuro passato possibile.
E quindi la ringrazio per aver dato la stura con questa sua domanda semplice e innocente a un fiume di ricordi e di studi di anni ahimè lontani. Mi spiace che tutto ciò sia venuto fuori solo dopo, ma confesso di non avere la prontezza di risposta che sarebbe necessaria nelle conversazioni pubbliche. Direbbe Giovanni Giudici:
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
[…] (Pavese e Mondo a son gropà a fil dobi, për mi, përchè chiel a l’ha giutame tant butandme a disposission j’archivi dla Stampa për mie arserche për la tesi – i l’avìa parlane ambelessì.) […]