Sabato 22 novembre si è tenuta una conferenza – brillante e viva, molto più di quanto mi sarei aspettato – che è stata di fatto un fare il punto sulla lingua piemontese oggi. Ne ho scritto qui; ne ho scritto in piemontese perché mi viene difficile conversare della mia lingua in una lingua altra, sia pure quella dominante e quella che è per me normale per i pensieri pubblici.
Ora, passato qualche giorno, vorrei fare qualche considerazione un pochino più distaccata. (Per quanto ciò sia possibile, perché con Tavo Burat so che “‘L piemontèis a l’é mè pais. / Tuta la resta a l’é mach d’anviron”.)
Prima di tutto, occasioni come queste sono utili per fare la conta delle cose e delle persone: guardarci in faccia, noi rari nantes in gurgite vasto, riconoscere che c’è un problema (e sì, mi rendo conto che al mondo ci sono questioni ben più pressanti, ma è il tempo che ho dedicato alla mia rosa a rendere la mia rosa così importante, insomma).
Il problema esiste, questo è certo. La diminuzione dei parlanti (tacciamo degli scriventi, visto che il 98% dei parlanti la mia lingua è di fatto analfabeta – absit iniuria verbo –, ovvero non è in grado di scriverla) è fatto noto e riguarda tantissime lingue del mondo, non certo solo la piemontese.
Però vorrei dire: il mio rapporto con il piemontese è tranquillo, non è fatto di battaglie o di aspettative. Il piemontese è il mio paese, è la lingua in cui penso quando mi arrabbio, è quell’idioma che vorrei conoscere meglio in tante sfumature che mi sfuggono ma che alla fine penso va bene così, ho iniziato a sentire questa lingua dal mio primo giorno di vita, è lingua normale di comunicazione e di pensiero e di fatti, per me. Certo mi dispiace vederla denigrata ma insomma costituisce la mia normalità, non c’è giorno che non la adoperi parlata e scritta, mi accompagna, mi porta verso la maturità e sperabilmente mi porterà verso la vecchiaia. La so parlare, la so scrivere, la parlo e la scrivo correntemente ma non devo dimostrare alcunché a chicchessia, non devo convincere nessuno.
Né penso che ci sia una cesura tra l’ieri e l’oggi. Questa lingua è un continuum lungo dieci secoli, ha attraversato miseria e guerre ed è ancora qui, oggi tante persone le vogliono bene e la adoperano. Per me, per me personalmente è una necessità; no, di più, è una normalità. Questa lingua mi definisce, mi aiuta a sapere chi sono e da dove vengo.
Che FB porti a un appiattimento, che questa lingua venga adoperata a sproposito non è rilevante, a mio modo di vedere. Ovvero: vista dall’interno questa lingua è viva, e come! L’appiattimento vale per tutte le lingue, mica solo per quelle regionali.
Dice: “non serve a nulla”. Be’, io sono la prova vivente che non è così, serve a definire il mio mondo e questo mi basta. La politica potrebbe fare mille cose belle ma non le farà, non arriverà la cavalleria a salvare una cultura e dunque ognuno di noi farà la sua parte e andrà bene così.
L’appiattimento delle lingue regionali (la mia, innanzitutto): http://t.co/HWOH8F2MZa
[lla normalità di una lingua cosiddetta minoritaria]