Venerdì 18 maggio, in sull’ora del desinare. Mi avvio in campo pratica con un piano preciso in mente (mai andare in campo pratica senza un’idea su che cosa si praticherà, o si finirà per tirare palline e basta): gioco corto – putt – gioco lungo, un’oretta per ciascuno. Il tutto nella logica della rifinitura prima della gara di circolo del giorno dopo e lasciando tempo per il binomio golf – paternità (di cui parlerò in uno dei prossimi post).
Mi porto nella buca executive più alta, dove sono solitario e tranquillo, con 42 palline (due gettoni). Le prime 42 vanno bene: provo dei colpi tra i 20 e i 50 metri sia col sand che col lob, tutto funziona. Raccolgo e riprovo. Parte uno shank. Sarà un caso. Ne parte un secondo. Mmmm. Un terzo. Ah. Un quarto, un quinto, un sesto… ad libitum et permulta.
La mia mente analitica si allarma. Provo, riprovo e riprovo ancora ma si sa, in questi casi l’insistere non fa che peggiorare le cose. Il pomeriggio termina con ansie di un tipo per me sconosciuto (e poi dai, esiste colpo peggiore nel golf dello shank?).
Il giorno dopo arrivo con ampio margine al circolo, per darmi tempo di fare un lungo riscaldamento e sperabilmente capire quel che mi succede e aggiustare le cose. Applicare una sorta di cerotto, insomma; ma ho poche speranze, e infatti parto con tutti i dubbi del caso. Tremo all’idea di quando mi capiterà un colpo da 80, 60, 50, 30 metri.
Succede alla 3. Mi parte uno shank imbarazzante, che provoca una X. (Non è per il risultato, è la frustrazione di non capire la meccanica del colpo, e soprattutto la sensazione di non avere il controllo del mio corpo.)
Alla 5 ne faccio tre di fila [sic]. Shank, shank, shank. Alla 6 un altro. Da lì in poi la gara si rimette sui binari (3 bogey e 9 par nelle restanti buche: non il massimo ovviamente, ma date le premesse sono contento).
La sera rimugino, la notte non dormo, la mattina dopo prima delle 8 sono in campo pratica, da solo (la situazione ideale; e non perché abbia paura delle brutte figure, cui non penso, ma perché posso parlare a voce alta, raccogliere le palline dal prato – vietatissimo! – eccetera).
Le cose a tutta prima si aggiustano. Ma proseguendo il maledetto shank ritorna. Alla fine, sia grazie all’aiuto dei maestri sia grazie ad articoli pescati in rete (come questo, ottimo), capisco alcune cose:
– devo stare un poco più lontano dalla palla, e quindi tenere le mani più basse;
– devo tenere le gambe ferme e per contro ruotare i fianchi (questo è, in piccolo, lo stesso difetto che ho nello swing completo – il maggiore dei due o trecento, voglio dire);
– devo avere la sensazione di schiacciare la palla verso il basso;
– devo mantenere il peso sui talloni.
Insomma tutto si è aggiustato – più o meno! sull’aspetto mentale della questione c’è da lavorare ancora – nel giro di tre giorni. Verranno altri problemi (golfistici, tutto è relativo), mi emozionerò e preoccuperò, gioirò e farò altri errori ma la cosa fondamentale dello shank l’ho capita: lo shank così come via se ne va. E così sia.
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