Castelconturbia, domenica scorsa, secondo giorno della patrocinata. Il primo giorno era stato discreto, mentre il secondo inizia alla grande con birdie – par – birdie. Le prime nove buche scorrono in the flow, col risultato lordo di -1 (ho aggiunto uno stupido bogey – ma quando mai i bogey sono intelligenti? – alla 5, un par 5 senza particolari difficoltà).
Inizio le seconde nove, più difficili (il percorso rosso), con un paio di bogey e proseguo non bene. Con errori di diverso tipo (uno paio di strategia, un paio di tecnica, uno di misclubbing, uno di semplice stanchezza) cerco di portare avanti il giro al meglio che posso, e sono sul tee delle 18 con 35 punti stableford e +7 sul giro.
A quel punto il mio obiettivo è l’handicap: con un par scenderei di 0,1, con un birdie di 0,2. Ma il birdie è un pensiero azzardato, penso ad assicurarmi il par senza fare errori. (E penso anche a tutta la fatica per un misero 0,1 – but that’s golf! :-))
La 18 è un par 5 facile: un tee shot che richiede un carry di 200 e pochi metri sull’acqua, un green raggiungibile con un bel legno 3 (a condizione, ovviamente, di mettere il tee shot in fairway). Così avevo fatto il giorno prima, chiudendo col birdie.
Ma il golf è fantastico anche per questo: ciascun giorno è diverso dall’altro. Il mio tee shot risente della stanchezza, forse più mentale che fisica, e in questi casi tendo ad aprire il colpo: un fade molto pronunciato, al limite dello slice, fa atterrare la pallina nel rough di destra. A quel punto il green è da dimenticare. Ai lati del fairway ci sono due grossi bunker, uno a 180 (a destra) e uno a 200 metri (a sinistra) da me. Un ibrido tirato così così finisce nel rough di sinistra, a 100 metri esatti dalla buca.
Non mi preoccupo di quello che potrebbe essere considerato army golf (un colpo a destra e uno a sinistra, come quando sei a militare), corro letteralmente invece fino al green per vedere la situazione. Il pitch è il bastone da usare.
Il colpo parte bene, incito la palla a volare, e lei si ferma a quattro metri abbondanti dall’asta. Esamino con cura il putt da entrambi i lati, mi distendo anche dietro alla pallina (un gesto che ho visto fare all’ex-caddie di Robert Rock e che domenica – giorno in cui i putt sono stati complessivamente 24 – è stato particolarmente fruttuoso). Il putt è in leggerissima discesa, ha una lieve pendenza verso destra all’inizio e poi verso sinistra nei pressi della buca. Decido la linea: bordo sinistro interno.
Il colpo parte esattamente come l’avevo immaginato, quando arriva a 30 centimetri dalla buca capisco che entrerà. Alzo la testa del putt di una trentina di centimetri verso la buca in segno di esultanza. La palla entra, io mi dico “38!” (i punti fatti, ovvero -0,2 sull’handicap) e – pensando alle magie di Seve, colui per il quale queste cose erano il pane quotidiano – sono molto soddisfatto di me.
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