John Fante è uno tra i miei scrittori preferiti. Adoro il suo stile asciutto e diretto al punto. Ho letto e riletto diverse volte i suoi libri.
Fante si dilettava col golf, anche se non mi risulta che abbia mai raggiunto grandi vette. Era piuttosto per lui un passatempo divertente.
In ogni caso in un libro solo, La confraternita dell’uva, ha scritto di golf. È una scena in cui il protagonista incontra dopo tanto tempo l’odiata suocera, che gli chiede di portarsi via i suoi bastoni da golf (“mazze”, nella traduzione – il che è per me una trafittura nell’orecchio). Vediamola.
Le mie mazze da golf! Erano in un angolino di un armadio da letto. Le mie mazze! Le mie magnifiche Stan Thompson su misura: quattro di legno, nove di metallo, con impugnature speciali, coi manici di grafite leggeri come piume; attrezzi costosi dal perfetto equilibrio, in grado di sparare una pallina lontanissimo e con la massima precisione.
Eccole là, sul cotto umido della rimessa: la borsa di pelle si era strappata nel momento in cui l’avevo sollevata. Un brutto colpo. Un disastro. Una cosa sacrilega, come sputare sull’ostia consacrata. Soltanto un golfista poteva misurare tutta l’estensione di questo crimine brutale e immotivato. Le mazze erano tutte arrugginite, le impugnature venivano via dai manici. Era qualcosa di più che un assassinio di mazze da golf. Era un attacco a me, alla mia vita, ai miei piaceri. Soltanto uno squilibrato poteva concepire una simile dissacrazione.
La traduzione dei termini golfistici lascia qui alquanto a desiderare: ad esempio quel “manico” che traduce “shaft”, per dirne una. Del resto tradurre di golf per un non golfista è un’attività comprovatamente suicida. Ma al di là di questo mi piaceva porre l’accento sulla narrazione di una passione, per quanto tangenziale, di uno scrittore che è un mito.
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