Oggi vorrei suggerire uno spunto sul quale sto meditando da tempo, qualcosa che non credo abbia un vera e propria soluzione (quantomeno in parole). Lo farò mettendo insieme due citazioni su Ben Hogan.
Dice Curt Sampson:
From a performance standpoint, Hogan understood himself better than any athlete ever. That was Hogan’s Secret. It didn’t become a book or a magazine series because mental toughness, self-control, focus, and the connection between mood and performance couldn’t be photographed.
Gli fa eco Andy Brumer:
They said Ben Hogan refused to tell his supposed secret of his superior ball striking because he didn’t want to give his competitors the same advantage it gave him. […] I think he didn’t tell anyone his secret because he couldn’t, since he didn’t experience it in words.
Sono completamente d’accordo. E me ne rendo conto per esempio in campo pratica, quando cerco di fissare sulla carta le sensazioni ricavate dalla pratica stessa, in maniera da comporre una sorta di “manuale di auto-aiuto” a mio uso e consumo futuri. In parte funziona, ma troppo di quel che vorrei eternare sulla pagina va in realtà perso, perché capisco di non avere gli strumenti adatti. Il movimento corretto e ripetuto serve a interiorizzare quel feeling, a farlo diventare parte di me; ma certamente la parola scritta è ahimè troppo rudimentale per essere davvero utile in ciò.
E lo dico io che penso che se una cosa non è scritta non esiste! Però questa consapevolezza mi agevola: sapere che le parole non potranno mai descrivere in maniera compiuta quel che vorrei mi aiuta a fare il meglio che posso con ciò che ho a disposizione. Far passare dei concetti è estremamente difficile – credo sia per questo che non si può insegnare, si può solo imparare –, ma questo strano rapporto maestro-allievo (dove io sono entrambi) mediato dalla carta ha una sua logica.
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