Per me è iniziato tutto tanti anni fa.
Era il principio del 2007, il mio handicap era intorno a 18 – ero insomma quello che non volevo essere, un bogey golfer. Ho preso la strada delle buche approcci, ho iniziato a passare tantissimo tempo là sopra: colpi attorno al green, uscite dal bunker corte e medie, colpi da dietro le piante eccetera. È stato molto divertente. Il tutto supportato soprattutto da quello che reputo essere il miglior libro sul tema, Dave Pelz’s Short Game Bible.
Poi a gennaio di quest’anno, durante la prova campo del Trofeo Sanremo – ero con Lorenzo Guanti, Luigi Botta e Alessandro Catto, e pur potendo essere anagraficamente un loro genitore mi sentivo spettatore ad un evento golfistico –, arriviamo alla buca 9, un par 3 di 85 metri dove la precisione millimetrica è fondamentale: Lorenzo porta su le braccia nel backswing dicendo “questo è un colpo da 85 metri”, e poi portandole leggermente un po’ più in su dice “questo è un colpo da 90” (i dettagli sono qui).
Quella osservazione casuale ha scatenato dentro di me un ragionamento lungo e profondo. Insomma, sappiamo tutti che le distanze sotto i 100 metri sono importanti perché critiche eccetera; ma mettere in pratica questo semplice concetto, sapere la differenza tra un colpo da 60 metri e uno da 70 è un altro paio di maniche.
Mi sono messo a lavorare su questa cosa; e ho scoperto delle cose fantastiche. Se sapevo già che col pitch faccio 110 metri e che col gap (52°) ne faccio 95, non sapevo ad esempio che con lo stesso gap ma impugnato corto (2 centimetri) ne faccio 90. E sì, sapevo che 90 metri li faccio anche col 56° pieno, ma non che “pieno” con i wedge significa con le braccia a ore 9 e non oltre, altrimenti diventerebbe poco controllabile (basta guarda Mickelson e si capisce il concetto); non che col 56° impugnato corto faccio 85 metri e così via.
Sono arrivato in sostanza a coprire tutte le distanze critiche sotto i 100 metri. A questo si aggiunge il fatto che, sapendo con certezza il movimento da fare per ottenere – in condizioni ottimali, in piano e sul fairway – una data distanza, è facile adattare questo alle situazioni che il campo presenta (es. in rough, con la palla più alta o più bassa dei piedi eccetera).
(Che ultimamente abbia preso solo virgole e che ora il mio handicap sia ritornato ai livelli di un anno e mezzo fa, e che nel 2012 abbia fatto up and down solo nel 36% dei casi non mi preoccupa: sto lavorando su vari aspetti del mio golf, so che ad un certo punto i risultati verranno, in maniera naturale.)
To sum up all this: a inizio 2007 ho passato molto tempo agli approcci e ho visto i risultati, adesso faccio la stessa cosa e – matematicamente – so che a tempo debito tutti i pezzi verranno a comporsi come in un quadro.
Lascia un commento