Mi sono messo a riflettere, in maniera disincantata e per quanto possibile lucida, sul mio primo ventennio di golf. L’ho fatto soprattutto perché senza obiettivi è difficile andare lontano nello sport; e dunque ho cercato di mettere insieme tutto quanto soprattutto per individuare e analizzare le mie aree di debolezza e capire come tamponarle, nello stesso tempo facendo leva sui punti di forza.
Quindi credo di poter dire che ho guardato indietro di vent’anni per cercare di guardare avanti di vent’anni. I miei capelli grigi e la mia mezza età potrebbero far alzare più di un sopracciglio; però allora mi viene bene ricordare le parole di Padraig Harrington in Mind Game:
I remember watching Arnold Palmer, playing the Champions Tour at seventy. He was getting giddy with excitement that he had suddenly found something. I know I’m cynical, but sometimes golf is pretty good, isn’t it?
[Ricordo Arnold Palmer giocare nel Champions Tour a settant’anni. Era pieno di gioia ed eccitazione perché all’improvviso aveva scoperto qualcosa di nuovo. So di essere cinico, ma a volte il golf non è così male, no?]
Quindi tra vent’anni potrei essere morto da tanto tempo, oppure potrei non essere più in grado di giocare a golf e così via. Ma fino all’ultimo giorno in cui il fisico me lo permetterà il golf continuerà a essere per me una scoperta, un’avventura, un gioco molto più mentale che fisico, un’attività che comunque, tirate tutte le somme, potrò dire che mi avrà insegnato una quantità incredibile di cose su me stesso. E dunque sarà bene affrontarlo come si deve, perché – come qualunque bambino sa molto bene – il gioco è un affare molto serio.
Aggiungo che queste riflessioni non possono prescindere dalle tante lezioni prese da tanti bravi maestri in tutti questi anni. Sarò più specifico nel prosieguo di questo articolo, ma in linea generale devo dire almeno che ritengo ci sia un limite invalicabile per le lezioni, ovvero: in un mondo ideale avremmo il maestro personale a disposizione ogni volta in cui siamo in campo pratica, ma nel mondo reale un maestro sta con noi per una percentuale molto piccola del tempo che passiamo ad allenarci e a sperimentare; e dunque non all’inizio, ma da quando siamo in grado di conoscere almeno grossomodo il nostro swing, il nostro golf e il nostro gioco la sua importanza decresce per forza. Senza contare che lui/lei non è dentro di noi, e che le parole non possono che essere approssimative; dunque le lezioni sono imprescindibili a qualunque livello, ma le nostre aspettative devono tenere conto della realtà.
Tornando a bomba. Ritengo che il gioco vada diviso nei punti seguenti:
- putt;
- gioco intorno al green (fino ai 20 metri);
- gioco corto (dai 20 ai 90 metri);
- gioco con i ferri;
- gioco lungo con ibridi e legni;
- driving;
- parte mentale;
- gestione della gara.
Va subito detto che è una divisione arbitraria, e che non esiste un ordine specifico. Esamino a seguire i singoli punti; per ciascuno do anche una stima dell’importanza delle lezioni su quella parte di gioco (si tratta ovviamente di un giudizio personale e soggettivo, valido per me) e del mio handicap relativo alla medesima parte.
Il putt
Non credo di avere mai preso una lezione di putt: E si vede: il mio stile di putt è poco ortodosso (indice destro tenuto lungo il grip, problemi di percezione che mi fanno puntare gli occhi a sinistra, rallentamento verso l’impatto). Tuttavia nel putt sono preciso, vedo le linee e le pendenze in maniera chiara. A volte – rare, per fortuna – mi capita di fare tre putt, certo; ma allora mi faccio coraggio e mi sovvengono le parole di Seve durante il Masters del 1986, allorché un giornalista gli chiese un’analisi di un suo 4-putt a non so quale buca:
I miss the putt. I miss the putt. I miss the putt. I make.
[L’ho mancata. L’ho mancata. L’ho mancata. Ho imbucato.]
Importanza delle lezioni: nulla
Stima del mio handicap: tra lo 0 e il 2 (anche tenendo in considerazione il fatto che Mark Broadie ha messo in luce da tempo l’importanza relativa del putt rispetto ad altre aree del gioco, e nella fattispecie il gioco dalla media distanza, che per un pro è tra i 135 e i 180 metri e per noi si situa tra i 90 e i 135: il settore che fa davvero la differenza).
Il gioco intorno al green (fino ai 20 metri)
Anche qui le lezioni sono state pochissime, ma nel corso degli anni ho sperimentato per mio conto ogni aspetto possibile di questo settore del gioco. Il manuale di riferimento per me, per quanto datato, resta Pelz. Questo settore di gioco è tutto fatto di sottigliezze; ma soprattutto devo dire che per me è un divertimento incredibile stare alla zona approcci e provare tutte le situazioni possibili.
Prendiamo l’uscita dal bunker: non ricordo con esattezza, ma sono sicuro di aver preso più di una lezione nei primi anni. Però poi nel tempo ho sperimentato da me, e oggi l’uscita dal bunker è per me un colpo del tutto naturale, paragonabile forse alla leggerezza del putt. Mani molto indietro e attaccate al corpo, lama molto aperta, palla in avanti e peso sulla sinistra: a me sembra tutto qui. Ma trasmettere una conoscenza del genere non è semplice, me ne rendo conto. Ed è anche per questa consapevolezza che dico che le lezioni possono avere utilità solo fino ad un certo punto: al di là delle basi, che è semplice trasmettere perché si lavora su un cervello vergine, illustrare le sottigliezze di un colpo a qualcuno che si è già fatto una sua idea di colpo è tutt’altro affare.
Importanza delle lezioni: scarsa
Stima del mio handicap: tra lo 0 e il 3
Il gioco corto (dai 20 ai 90 metri)
Qui valgono considerazioni molto simili al punto precedente. Li ho però voluti tenere distinti per il fatto che li trovo due settori differenti, che impiegano tecniche e bastoni in parte (significativa) differenti.
Una nota: ho scritto 90 e non 100 metri. Parrebbe logico arrotondare, anche per semplicità; ma per me oggi sono due distanze completamente diverse. I 100 metri sono un colpo pieno con il pitch, mentre i 90 richiedono degli aggiustamenti (per esempio impugnare il bastone più corto, oppure non completare il backswing). (E qui si aprirebbe il capitolo fondamentale dedicato ai mezzi colpi; che però esula dal discorso attuale e che riprenderò in futuro.)
In questo settore credo che il mio apprendimento sia andato per salti, perché ricordo distintamente dei momenti in cui ho imparato per conto mio dei “segreti” che funzionano e che hanno dato risultati pressoché immediati. Sono microimpostazioni che è molto complicato trasferire in parole: sono di fatto sensazioni. (Non mi stupirei se vedendomi a video fare dei movimenti li scoprissi del tutto differenti rispetto a come li percepisco.) Qui mi sovviene Andy Brumer che parla di Hogan:
They said Ben Hogan refused to tell his supposed secret of his superior ball striking because he didn’t want to give his competitors the same advantage it gave him (or because he was miserly by nature). I think he didn’t tell anyone his secret because he couldn’t, since he didn’t experience it in words.
[Si dice che Ben Hogan si rifiutasse di rivelare il presunto segreto del suo tocco di palla superiore perché non voleva dare ai suoi avversari lo stesso vantaggio che dava a lui (o perché era avaro di natura). Io credo che non abbia rivelato a nessuno il suo segreto perché non ne era in grado, dal momento che non riusciva a sperimentarlo in parole.]
Importanza delle lezioni: discreta nei primi anni, nulla oggi
Stima del mio handicap: tra lo 0 e il 3
Il gioco con i ferri
Ovvero i colpi pieni. Per semplicità intendo qui tutti i ferri dal pitch in giù, anche se a voler essere precisi bisognerebbe distinguere i ferri corti (un tempo erano 7, 8 e 9, oggi potremmo dire pitch, 9 e 8) da quelli medi (diciamo dal 7 al 5). È scontato che un pitch non rientra nel gioco lungo, ma trattandosi di colpi pieni lo swing non cambia, e dunque li tratto alla stessa stregua.
In questo settore non possiamo prescindere dalla tecnica, è ovvio, ma io mi affido soprattutto alle sensazioni: perché sento lo swing come una cosa viva, che si trasforma, che ha degli alti e bassi, che sperabilmente col tempo migliora. Dunque non mi sono mai soffermato più di tanto ad analizzare il movimento; sì, ci penso a volte, ma uso soprattutto l’immaginazione e il feeling, come se dovessi diventare una cosa sola con lo swing e col bastone.
Importanza delle lezioni: fondamentale nei primi anni, nulla oggi (ma forse devo farmi delle domande)
Stima del mio handicap: 4-7 (è una zona che devo migliorare, perché almeno un paio di volte a giro non riesco a prendere il green con un ferro dal fairway, il che vuol dire almeno un paio di colpi in più rispetto al ragionevole)
Il gioco lungo con ibridi e legni
Nei miei primi anni, ricordo, avevo un ibrido che in teoria avrebbe dovuto essere più semplice da giocare rispetto ad un ferro 4 o 5, ma che per non so quale motivo non riuscivo a giocare. (Gli ibridi erano sostanzialmente una novità allora, tanto che ricordo che il mio primo maestro in una delle primissime lezioni, quando si trattava di comprare l’attrezzatura, riferendosi agli ibridi mi disse: “Non mi chiedere. Io di quella roba lì non ci capisco niente”. Il che dentro la mia testa crea una trafittura enorme, stride con il ricordo che ho della conoscenza del TrackMan di Baldovino Dassù che ho sperimentato di persona lui sessantacinquenne, e del suo entusiasmo rispetto ad esso.)
Ad ogni modo con i miei due ibridi e il legno, che sono datati (2013 – sarà il prossimo passo nella sostituzione dell’attrezzatura), mi trovo benissimo. Certo lo swing col legno 3 è diverso dallo swing fatto con un ferro 8 (ma vallo a spiegare! L’impalpabilità delle parole), però mi rendo conto che nella maggior parte dei casi in cui faccio errori è perché non ho messo abbastanza pensiero in quello swing. Il che vuol dire, credo, che il mio grado di conoscenza dell’uso dello strumento è migliorabile, perché mai in un putt o in un’uscita standard dal bunker mi metterei a pensare in maniera analitica; semplicemente reagisco alla situazione. Mentre il legno mi porta ansia, che combatto pensando – ma a volte non a sufficienza. Dunque è semplice: Gianni, mettiti in campo pratica e tirane 10mila (e magari mille in campo), poi parliamo.
Importanza delle lezioni: fondamentale nei primi anni, discreta oggi
Stima del mio handicap: 3-5
Il drive
Un mio grande cruccio. Ancora oggi, ogni tanto dal nulla mi partono degli slice imperiali, oppure dei colpi bassi, dritti e corti a sinistra, entrambi imbarazzanti oltre ogni dire. E dire che in questo settore, grazie ai miei due aiutanti magici, ho fatto passi da gigante, tanto che oggi il mio colpo standard è un fade, non lunghissimo ma molto affidabile. Vorrei imparare a fare draw con il driver, ma al momento più in là del ferro 7 non sono in grado di andare.
Importanza delle lezioni: fondamentale nei primi anni, più che discreta oggi
Stima del mio handicap: 5-8
La parte mentale
Io ho avuto la fortuna di avere nei miei primi anni di golf un grande maestro, Roberto Cadonati (per la cui conoscenza devo ringraziare l’amico e maestro Andrea De Giorgio). Averlo conosciuto quando il mio handicap era in discesa rapida, e con tutto l’entusiasmo per le scoperte golfistiche che avevo allora, è stato un grande acceleratore per il mio golf. Tanti concetti appresi allora oggi li ho dimenticati, o per meglio dire sono sedimentati dentro di me. (Certamente avrei bisogno di un ripasso.) E quelle esperienze, unite alla lettura di moltissimi libri sulla psicologia sportiva applicata al golf (da Rotella in avanti), e forse anche alla mia naturale tenacia nel fare le cose, hanno dato come risultato una forza mentale durante la gara che mi sono sentito invidiare più di una volta. Perché alla fine credo abbia ragione Luca Ruspa quando dice che non puoi dirti un vero golfista se alla 14 sei a +4 e non pensi di poter portare a casa quattro birdie nelle buche rimanenti per chiudere in par.
Importanza delle lezioni: fondamentale
Stima del mio handicap: non è così pertinente, ma diciamo tra lo 0 e il 2
La gestione della gara
Innanzitutto, è importante intendersi. Col sintagma gestione della gara mi riferisco alle decisioni prese riguardo a casi dubbi, come ad esempio se usare il driver oppure un legno 3 da un determinato tee, se mirare alla bandiera in presenza di ostacoli oppure fare lay up, se fare un chip oppure un approccino oppure ancora usare il putter trovandosi a qualche metro dal green e così via.
Ecco, io mi rendo conto che è raro il caso di un giro in cui non faccia errori del genere. Ogni volta che succede, però, ricordo a me stesso che sono un dilettante e non un professionista, e per questo motivo questi errori sono sì frustranti ma accettabili; e infatti in genere li accetto e passo oltre. Perché poi il rischio è quello di portarsi dietro l’errore per i colpi seguenti, con tutte le conseguenze del caso. Ebbene, questo a me per fortuna non succede (o non succede quasi mai).
Importanza delle lezioni: fondamentale (ma per me si tratta soprattutto di letture)
Stima del mio handicap: come per la parte mentale non è così pertinente, ma direi 2-4
Tirando le somme
1. Le lezioni di golf sono concentrate in maniera molto preponderante (non voglio dire esclusiva, ma insomma siamo lì) sullo swing, che è una parte importante del golf; ma soltanto una parte. Ma imparare lo swing ci farà diventare dei giocatori completi? A mio modo di vedere no, perché gli altri settori del gioco sono complessivamente troppo rilevanti per essere ignorati. (Per dire: quando parlo di psicologia dello sport ricevo invariabilmente degli sguardi stralunati e un pochino anche offesi, come se andare dallo psicologo sportivo fosse una sorta di ammissione che c’è qualcosa che non va nella nostra testa, mentre di fatto si tratta di apprendere delle tecniche da utilizzare in campo: nessuna alchimia e nessuna stranezza, solo tanto lavoro e tanta applicazione.)
2. Come dicevo sopra parlando del gioco corto, trasmettere la conoscenza da maestro ad allievo è affare complicato. Non ai livelli iniziali, ma da un livello medio in poi. Perché il problema non è tanto ciò che l’allievo non sa, ma quello che sa già e che potrebbe confliggere con le idee che il maestro sta cercando di far passare.
3. Di conseguenza, penso che da un certo livello di handicap in poi (diciamo dal 14 in giù) noi stessi dobbiamo essere i nostri principali maestri. Seguire una linea, certo; ascoltare pareri competenti, certo; ma essere noi e non altri alla guida del nostro apprendere.
4. Non ci deve (dovrebbe) abbandonare mai l’idea di diventare sempre un po’ più bravi rispetto al giorno prima. Il che vuol dire da una parte lavorare al mantenimento dell’esistente, e dall’altra andare a studiare parti sempre più minute del gioco.
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