Nel nostro golf non va sempre tutto per il meglio, e la strada non è per forza sempre lineare. Oggi desidero parlare di un argomento che per me è un pochino controverso; mi viene facile fare un parallelismo con la classica crisi matrimoniale del settimo anno, pensando al mio ventesimo anno di golf che si avvicina alla conclusione e alle mie sensazioni contrastanti riguardo al golf medesimo.
Nell’ultimo mese e mezzo sono stato in campo una volta sola, e un paio di volte ho praticato. Il che, se lo guardo da una prospettiva storica, sta tra l’aberrante e il sensazionale: proprio io, Gianni Davico, colui che della pratica ha fatto una sorta di religione, ora si allontana così tanto dal golf?
Eppure non voglio giudicare, ma solo analizzare i miei pensieri relativi alla questione. Perché il golf è sempre stato, ed è tuttora, assolutamente magico per me; tuttavia sono arrivato in una fase del mio percorso in cui non trovo più gioia piena nel praticare o nel giocare, o quantomeno non così tanta. Per dire, per il Gianni di adesso non c’è partita tra il giocare a golf e il camminare.
Una facile causa da individuare per questa situazione è il plateau che probabilmente ho toccato. Ho raggiunto un handicap di tutto rispetto, e questo è innegabile; però è chiaro che nel golf, come in qualunque altra attività umana, se non vai verso l’alto l’alternativa di fatto è scendere. E sebbene creda in maniera ferma nel fatto che posso imparare ancora tante cose nuove, obiettivamente è difficile combattere con l’età che avanza, e al contempo è onesto accettare i miei limiti.
Un altro fattore che mi viene in mente è costituito dai vent’anni come durata indicativa di una carriera professionistica del golf. E poi mi sovviene, facendo un paragone irriverente, il Ben Hogan del 1953 quando – poco più di vent’anni dopo essere diventato un professionista di golf – aveva vinto tutto quello che umanamente era possibile ed era osannato dai grandi cerimonieri ma nella sua testa c’erano altri pensieri, nella fattispecie relativi a quel figlioletto che non ebbe mai e che sublimò nella Ben Hogan Golf Company.
Detto tutto questo, considero questo periodo come un basso negli alti e bassi di un percorso comunque pieno di soddisfazioni e gioie. In vent’anni succedono tante cose. Non va sempre tutto bene, ci sono periodi floridi e periodi di stanca. Ma ciò che Cesare Pavese scriveva il 14 ottobre 1932 a E. si applica in toto al mio golf:
Io qui farò tant’altro. Studierò e lavorerò per fare della mia vita la cosa migliore e più bella di cui sarò capace. Per ora vedo quest’avvenire un po’ confusamente, ma non mi spaventa. Ho passato dei momenti atroci nella mia vita e sono ancora qui.
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