Come segno di auspicio per la nuova stagione di gare che sta prendendo l’abbrivio – dalla finestra del mio studiolo vedo da pochissimo peschi ed albicocchi in fiore – oggi non parlo io, ma parla un libro che in teoria parla di tutt’altro ma in pratica parla della stessa cosa: a che cosa pensiamo quando mettiamo l’asticella solo un po’ più su.
Le nostre vite giravano intorno alle gare. Dormivamo e mangiavamo il giusto per poterci allenare e ci allenavamo al massimo per poter gareggiare e cercare di ottenere i migliori risultati possibili. Tutte le nostre entrate […] erano destinate al pagamento dell’appartamento e all’acquisto del miglior materiale. […] Il punto culminante fu a marzo, quando, senza luce nel monolocale, poiché la ritenevamo meno importante di un buon paio di bastoncini di carbonio, un mercoledì, insieme ad Àlvaro, il compagno di appartamento e di corse, sul pavimento della camera, con i duecento euro di affitto di quel mese sparsi sulla moquette, discutevamo se fosse più importante darli a Madame Levy, la proprietaria, o partire quella sera stessa per Arêches-Beaufort, che per noi, in quel momento, era il centro del mondo, il luogo dove l’indomani cominciava la Pierra Menta (p. 31).
Mi diverto a gareggiare. E gareggiare è vincere. È la sensazione di tagliare il nastro d’arrivo. Fare l’ultimo giro della corsa e vederlo in fondo al rettilineo finale. Girare indietro la testa per l’ultima volta e constatare che nessuno ti rovinerà quel momento. Guardare avanti, chiudere gli occhi e accelerare, per sentire come il pubblico mi spinge verso la vittoria, dimenticando il dolore, dimenticando il corpo, avendo coscienza solo del mio spirito, che vibra per le emozioni degli ultimi secondi prima di notare come il mio petto, ancora bagnato di sudore, spinge il nastro e lo fa cadere per terra. È la rabbia per la tanta pressione vissuta per anni, per mesi e durante le ultime ore della corsa, che esplode in questi ultimi metri nel vedere che tutti i sacrifici e il lavoro sono valsi la pena. È sentimento, quello di tutta la gente che mi ha accompagnato durante la mia carriera, che ha contribuito a costruire questa vittoria. È cuore, quello che mi ha detto che avrei potuto farcela e che ora mi dice che ce l’ho fatta. È tutto questo, pochi secondi prima di tagliare il nastro della vittoria, a far sì che il mio corpo abbia una forza impressionante e sia capace di correre veloce come non mai, che sia capace di saltare più in alto, più lontano o di alzare il peso più grande e, al tempo stesso, ciò che fa sì che la mia mente crolli e mi faccia ridere, piangere, cadere, baciare senza controllo. È la pelle d’oca e le lacrime di felicità. È incredibile. E per questo valgono la pena tutti i sacrifici fatti e ancra di più (pp. 33-34).
Sono seduto accanto al letto, spogliato e pronto per andare a dormire. […] Faccio un ripasso veloce della corsa. Immagino di essere sul percorso, il tracciato che troverò e il passo che terrò in ogni momento. Cerco di immaginare in che stato sarà il mio corpo in ognuna di queste parti. Determino il luogo esatto in cui mi prenderò ognuno dei gel, in quale momento mi idraterò e in quale momento dovrò accelerare o far decidere agli altri il ritmo della corsa. È tutto sotto controllo (pp. 34-35).
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