Giu 20


Uno dei concetti golfistici che ho fatto più fatica a comprendere, in questi miei quindici anni di golf, è il bounce. Confesso che per anni non ho avuto un’idea precisa di che cosa si intendesse con “bounce”.

In tempi recenti sono arrivato ad alcune conclusioni (provvisorie – ormai mi è chiaro che nel golf non c’è nulla di definitivo), ovvero delle scoperte che cerco ora di illustrare.

Partiamo dalle definizioni. In un bastone, il bounce

è l’angolo tra la tangente ortogonale alla suola e il terreno. In genere i ferri fino al 9 hanno un bounce nullo, mentre è considerevole nei wedge (4-16°), soprattutto allo scopo di permettere una miglior uscita dalla sabbia e dal terreno umido.

(Qui un articolo che spiega bene di che cosa stiamo parlando.)

Per quello che so io del gioco corto il concetto di bounce si applica soprattutto alle uscite dal bunker e al gioco intorno al green, diciamo fino ai 50 metri. (Andando oltre la musica cambia, o quanto meno quello che ho imparato di recente lo trovo applicabile soprattutto a questi tipi di colpi.)

Un mio problema, di cui sono stato consapevole solo in tempi recenti, è stato l’aver usato per i wedge fondamentalmente la medesima posizione del bastone rispetto ai ferri, con le mani tenute verso l’obiettivo (grossomodo all’altezza della tasca sinistra dei pantaloni), di fatto eliminando il bounce e dunque creandomi dei problemi (attività in cui sono maestro; ma non divaghiamo). Confusamente sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non riuscivo a capire.

Un barlume di soluzione mi è giunta da un’osservazione letta su My Golf Numbers, che mi ha dato da pensare. Dice infatti Doctor Nick, al secolo Niccolò Bisazza, che tenere le mani molto avanti con i wedge è un peccato capitale, perché rende (insieme ad altri fattori) ingestibile l’angolo d’attacco. Poi, nelle ricerche mi sono imbattuto in questo video dove Silvio Grappasonni fa una breve lezione di uscita dal bunker (e non importa che non dica nulla di che, che si senta poco e che sia pure tagliato: quel che dice Grappasonni per me è oro colato e lo ascolto sempre con attenzione estrema), e quindi in altre letture che ora non sono in grado di citare.

E dunque rispetto alla mia antica posizione ho fatto un paio di aggiustamenti:
– innanzitutto bado a tenere le mani più indietro, ovvero più lontano dall’obiettivo, verso il centro del corpo;
– poi evito il più possibile di spezzare i polsi nella salita.

Questi sono i due aggiustamenti più importanti, cui ne vanno aggiunti quattro “minori”:
1. tenere i piedi stretti;
2. tenere il peso 60 e 40, ovvero favorendo l’appoggio sul sinistro;
3. badare di attraversare bene il colpo;
4. tenere le mani alte nel finish.

Non riesco sempre a mettere insieme tutti questi punti, e del resto non tutti sono necessari e certamente non sempre. Ma tenere le mani più indietro aiuta a far lavorare veramente il bounce, e così la palla parte più alta. Insomma un wedge fa veramente il wedge.

Poi certo, in questa maniera ho scalfito appena la superficie, mentre un inizio di lavoro scientifico vorrebbe dire passare una giornata con un maestro a provare diversi bounce in superfici diverse, con condizioni di campo differenti, e poi leggere e studiare molto di più di quanto non abbia fatto fino ad ora. Senza dimenticare il fatto che siamo ai confini tra arte e scienza, e che come dicevo prima il punto fermo non lo metteremo mai. (Del resto solo i morti non hanno il mal di pancia.)

Conclusione: con questo set up sento il bounce lavorare veramente come dovrebbe. Il rumore all’impatto è differente, più pieno e rotondo; la palla parte più alta e si ferma prima. Insomma il colpo diviene più controllabile e il margine di errore si riduce.

Benedetto bounce.

Ott 14

putt
Allora, le cose stanno così: un golfista che conosco, e anche lettore di questo blog, ha il problema tipico di tanti golfisti: che gira a destra anziché a sinistra. Ovvero: se andiamo con la mente alla struttura dei Ciliegi (luogo dove per me è naturale immaginare la pratica), arrivando in fondo alla discesa anziché proseguire diritto, cosa che lo porterebbe al campo pratica, gira a destra per il tee della uno.

È una situazione assolutamente tipica, propria di tantissimi golfisti. E, intendiamoci: non c’è nulla di male in questo. Non sei sempre alle Olimpiadi, puoi scegliere benissimo di giocare solo per divertirti, stare con gli amici in un bel luogo eccetera senza voler arrivare a diventare il golfista migliore che tu possa diventare.

Ma lui vuole andare oltre. Mi ha chiesto di dargli una mano, di preparargli una scheda.

Allora, mio caro Beppe, facciamo un patto: tu ti impegni a fare quello che è scritto qui sotto e quel che ti dirò nelle settimane a venire, senza riserve e senza scuse, e io ti garantisco che l’obiettivo che dà il titolo a questo post verrà raggiunto.

Prima cosa (questo l’abbiamo già detto a voce, ma lo ripeto qui per beneficio di chi legge): ci concentriamo sul gioco corto e sul putt. Solo sul gioco corto e sul putt, di fatto dimenticando (o quasi) il gioco lungo. Questo perché se un handicap medio desidera perdere velocemente qualche colpo bisogna che si concentri sul gioco dai cento metri in giù, mentre il gioco lungo farà solo una differenza assolutamente marginale. Quindi anche se tu nei prossimi mesi non andrai mai a praticare lo swing pieno non infrangerai il nostro patto.

Visto che tu puoi dedicare una certa quantità di tempo al golf, stabiliamo tre sessioni di pratica la settimana da un’ora e mezza: 30 minuti di putt e un’ora di gioco corto. Ecco come per ora le strutturiamo.

Putt
Dopo 2-3 minuti di riscaldamento sui putt medi e lunghi, solo per acquisire il feeling del giorno, iniziamo a lavorare sui putt da 8-10 metri. Dieci minuti, con l’obiettivo di mettere il putt in un cerchio da 60 centimetri (anche se il pensiero deve essere sempre quello di imbucare – l’accosto è il nemico di chi vuole scendere di handicap).
Poi facciamo dieci minuti di putt da 2-4 metri, con l’obiettivo di imbucarne il più possibile.
Finiamo con cinque minuti di putt da un metro, colpo che è in assoluto il più difficile – per chiunque – nel golf: l’obiettivo qui è imbucarne un certo numero di fila, e poi migliorare quel numero ricominciando ogni volta daccapo. (Phil Mickelson docet.)
Fai questo tre volte la settimana per almeno tre settimane. Dopo di che passeremo agli esercizi strutturati, ai giochi, alle competizioni (no, non con gli amici, con te stesso – il tempo passato in campo pratica con gli amici non conta come pratica). Ma prima bisogna che tu passi questo scalino.
gioco-corto
Gioco corto
In questo settore di gioco si possono applicare e inventare tantissimi giochi (li vedremo), ma per ora cominciamo così:
– mezz’ora di approcci, cominciando dai 100 metri per scendere fino ai 15-20. Esempio: 10 colpi da 100 metri, e ti annoti quanti green prendi. Idem da 80, 60, 40 e 20. L’obiettivo della sessione di allenamento successiva sarà di migliorare quella percentuale;
– un quarto d’ora di chip, sperimentando diverse lunghezze e diversi bastoni. (Io un tempo adoravo il ferro 9 per questo colpo, ora preferisco il pitch; ma è tutta questione di feeling e di pratica.) Suggerimento: prova dei colpi “assurdi”, colpi che non farai mai in campo ma che ti possono aiutare a sviluppare sensibilità. Esempio: chip di 5 metri col ferro 5;
– un quarto d’ora di uscite dal bunker, variando spessissimo i colpi (uscita corta, media, lunga; sponda alta e bassa; palla infossata eccetera).

Tra un esercizio e l’altro prenditi un paio di minuti di relax: questo ti serve sia per interiorizzare quello che stai imparando, sia per non sovraccaricare la mente.

Tieni un diario.

E se piove? Se piove si pratica lo stesso. E anche se fa freddo; e anche se fa molto freddo. Se nevica sei scusato (ma puoi praticare sul tappeto del salotto).

Ora per un po’ hai da lavorare, mio caro Beppe… E ricorda che monitoriamo i risultati. Fino alla prossima puntata!

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Ago 15

short game
Parlavo qualche settimana fa delle opportunità per superare la noia che può a volte prendere in campo pratica. Là si parlava del putt; oggi la seconda puntata tratta del gioco corto, o più precisamente degli approccini intorno al green. (Nota laterale: questa parola, “approccini”, mi fa sempre e automaticamente tornare in mente le telecronache di Mario Camicia, che col suo “approccino delicato” ha segnato un’era.)

Ad ogni modo il “gioco” (adattato sempre a partire da questo libro) è questo: occorre segnare un raggio di tre metri intorno ad una buca degli approcci (io adopero un rotolo di nastro fatto da me, fermato con dei tee) e porre dei “tee di partenza” a 20, 30 e 40 metri. Poi si tirano dieci palle da ciascuno degli indicatori di partenza, ma mai consecutivamente: ovvero si parte dai 20, poi si va ai 30, infine ai 40 e si ripete il tutto per dieci volte.

Un buon obiettivo è di mettere il 70% di palle almeno all’interno del raggio. Ed è meno facile di quel che sembra! Al mio primo tentativo, ad esempio, io ne ho messe 19 (63%). Gli obiettivi successivi saranno poi di migliorare il risultato ottenuto.

Trenta palle sembrano niente; ma poiché ogni volta è bene ripetere la routine eccetera (altrimenti l’esercizio sarà meno utile, e fors’anche meno divertente), dopo la trentesima si sarà parecchio drenati nelle energie, anche perché negli ultimi colpi la tensione aumenta per forza.

Buona pratica! (E chi legge non dimentichi che, da qualche parte in uno speduto campo pratica di periferia, anche il giorno di Ferragosto c’è un golfista che si sta allenando per migliorare.)

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Nov 29

Pelz
Il problema è questo: quale bastone usi per fare 60 metri? E per farne 70?

La considerazione di partenza è questa: golf is a game of circles. Insomma gira e rigira le questioni si ripresentano: le puoi accantonare per un po’, ma poi loro puntualmente tornano a bussare alla tua porta.

Ebbene, dai cento metri in giù – nell’area critica dello score, nonostante l’autorevole e di certo non ignorabile parere contrario di Edoardo Molinari (qui un approfondimento in inglese) – sapere come fare una determinata distanza è fondamentale.

Rimando a quel che dicevo 19 mesi fa. E illustro ora come sono arrivato a determinare in maniera precisa le distanze critiche (senza dimenticare quel che dicevo prima, ovvero che tutto va e torna – ovvero che quel che appare vero oggi potrebbe non esserlo tra 18 mesi – o anche molto prima).

Dunque, sono partito dal gap (52°) pieno, col quale faccio 100 metri esatti. I metri sono considerati in un giorno con temperatura normale (diciamo 20 – 25°), senza vento, con un colpo dal fairway in piano; con “pieno” intendo impugnato normalmente, ovvero all’estremità superiore dell’impugnatura, come si fa per un ferro o un legno. Nel colpo con un wedge le mie braccia non superano mai la posizione a ore 9, ovvero il braccio sinistro arriva fino alla posizione parallela al terreno nel backswing ma non va oltre: questo perché ho capito che altrimenti perderei molto in controllo senza un vero guadagno (questi sono colpi di precisione e la distanza deve essere un dato di partenza, non ha importanza fare 10 metri in più).

Provando, riprovando e riprovando ancora sono arrivato a stabilire queste distanze:

– 90: gap ore 9 impugnato a metà;

– 80: sand (56°) ore 9 pieno;

– 70: sand ore 9 a metà;

– 60: lob (60°) ore 9 a metà, oppure sand ore 8:15 a metà;

– 50: qui ho diverse opzioni, ma le mie preferite sono il sand ore 7:30 a metà oppure il lob ore 8:15 a metà.

Sotto i 50 metri la questione cambia, perché aumentano le variabili. Rimanendo nel campo degli approcci per me è generalmente un colpo col lob, dove chiaramente diminuisce l’angolo del backswing e posso variare l’impugnatura tra quella a metà oppure quella corta, ovvero all’estremità verso l’inizio della canna.
Ben Hogan at Merion
Il mio obiettivo attuale è di rendere queste distanze automatiche: quando mi trovo di fronte ad un colpo da 65 metri voglio sapere esattamente che cosa fare, senza dovere fare troppi calcoli, o comunque facendo calcoli semplici (ad esempio: il green è sopraelevato dell’8%, allora occorre aumentare la distanza della stessa misura; c’è un leggero vento a favore, allora diminuisce del 5% – chiaramente sono numeri indicativi).

A me, inoltre, manca ancora il trigger mentale di cui parlava Lorenzo Guanti qui:

Ho fatto un grosso lavoro col mio maestro Elena Polloni, che mi ha permesso di memorizzare le varie distanze fatte con un dato wedge portato ad una determinata altezza, ancorando una determinata posizione ad una precisa sensazione. Risultato: tra gli 80 e i 100 metri la mia palla picchia sempre nello stesso posto, e soprattutto questo mi evita di fare scatti col corpo, perché quando arrivo nel punto desiderato so che posso girarmi sapendo già dove va la pallina.
Questo colpo ti fa fare birdie ai par 5, ti fa recuperare il par ad un par 4 dove sei andato storto col tee shot… può fare la differenza.

Come sempre, e per fortuna, c’è da lavorare. Per un approfondimento su questi temi non posso che consigliare di partire da qui: è un libro che riprendo in mano ogni volta che ho un dubbio o una curiosità sul gioco corto; poi, si capisce, tutto quello che si legge e si sente e si vede va filtrato con le proprie conoscenze, e ordinato all’interno del sistema di quel che sappiamo perché abbia senso per noi. Un altro ottimo punto di partenza è il blog di John Graham.

E tu? Quando ti trovi in fairway a 65 metri dalla bandiera, in piano, in un giornata calma e senza vento, temperatura normale, 1) che cosa pensi e 2) che cosa fai?

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Nov 01

DSCN6630
“What gets measured gets done” è uno dei mantra della gestione ottimale di un’azienda, ma si applica anche al golf. La differenza è che il golf è in parte scienza e in parte arte; cionondimeno i numeri aiutano a capire i fenomeni, e come!

Scopo di questo articolo non è dunque “convincere” il lettore di questo fatto, che do per assimilato, ma presentare uno strumento tra i tantissimi disponibili che credo utile alla bisogna.

Mi sono imbattuto qualche settimana fa, tramite la lettura di questo libro, nel Tucker Short Game Test, una prova – ideata da Jerry Tucker – che serve a verificare in maniera completa lo stato del proprio gioco corto, e di conseguenza scoprire quali sono le aree che richiedono miglioramento nell’ottica finale di abbassare lo score.

È un semplice foglio. Un esempio si trova qui. La versione contenuta nel libro di Gio Valiante è qui.

La sostanza è questa: si effettuano cento colpi (coi wedge, col pitch e col putt) che simulano tutte le condizioni che virtualmente possono capitarci in un giro in campo dalle 90 iarde in giù. Per ogni colpo che raggiunge l’obiettivo (esempio: putt imbucato da 9 piedi, messo dato da 20, uscita dal bunker messa entro i 4 piedi da 20, wedge messo entro i 9 piedi da 90 iarde e così via) si ottiene un punto, e il risultato finale sarà dunque un numero compreso tra 0 e 100 che esprime il nostro handicap virtuale sul gioco corto.

Ma di più: saranno immediatamente chiare le zone specifiche del gioco corto su cui occorre lavorare.

Alcuni dettagli su come effettuare il test di trovano qui (tra parentesi: ho già parlato altre volte di John Graham, ribadisco che è un maestro da seguire).

E ora via, a misurare.

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