Apr 27

Sulla base della mia credenza generale che una cosa è vera fondamentalmente quando è scritta, nel golf ho cercato per anni il libro perfetto, quello che finalmente mi avrebbe permesso di craccarne il codice in maniera definitiva. Le recensioni, il blog, il libro sono state tutte conseguenze naturali; ma prima, per me, per il mio proprio golf questo è stato fondamentale. Per anni ho scavato nelle librerie, librerie fisiche, librerie polverose di libri usati, librerie online, alla ricerca del libro, quell’unico libro che mi avrebbe finalmente spiegato come poter giocare a golf.

Credo di esserci andato vicino in alcuni casi. Con le Five lessons, ovviamente, che però ho scoperto tardi perché non credevo, nella mia supponente ignoranza, che un libro di sessant’anni prima avrebbe potuto veramente dirmi qualcosa; ma prima in Pelz, e certamente in altri volumi (o parti di essi) che sono percolati dentro di me e di cui ora non ho memoria.

Ho avuto qualche risultato negli anni; minime soddisfazioni personali. Sono stato hcp 2.9 per un giorno, ad esempio. Il che mi porta direttamente ai pavesiani Mari del Sud:

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.

Per una settimana, tanti anni fa, ho giocato a fare il professionista.

Marco Mascardi un giorno mi scrisse:

Io non gioco più, ovviamente, ma davanti a un 4,1 ho ancora sufficienti energie per togliermi il cappello da solo.

Il mio handicap, insomma, è sempre stato pari alla stella da sceriffo che da bambino appuntavo summo cum gaudio sulla camicia a quadrettoni. Ma – è sempre Pavese a venire in soccorso:

Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

E quel tempo mi ha fatto capire che quel libro non esiste. O più precisamente che aveva ragione il mio dolce mito, ovvero che il mio swing – come quello di chiunque – esiste già, cristallino e perfetto, solo che è nella polvere del campo pratica, da dove io soltanto posso estrarlo. Con l’aiuto di un maestro, ovvio; e di libri, naturalmente, e altre fonti; ma il libro perfetto non esiste. È stata una scoperta.

E intanto ho passato 6mila ore e sedici anni di vita a respirare golf. E sono ancora qui a coltivare la mia rosa.

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Feb 07

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Cesare Pavese, I mari del Sud

TPC Valencia


Scrivo questo post per mettere una sorta di pietra miliare al mio golf. In questo stesso giorno di quindici anni fa prendevo in mano per la prima volta in vita mia un bastone da golf per la prima lezione. Oggi cerco di volgere lo sguardo al passato per capire un pochino che cosa hanno significato questi 5.479 giorni, e nel contempo di proiettarmi con lo sguardo al futuro.

Il golf mi ha cambiato tanto. Mi ha dato, com’è ovvio, divertimento e amici; è stato soprattutto una sfida con me stesso, io novello Don Chisciotte che non si vuole arrendere nemmeno davanti all’evidenza più lampante; è stato, ed è, e immagino diventerà sempre di più in futuro, un lavoro, sia pure di una categoria sublime, immaginifica e creativa.

Ero un giovane uomo allora, ora sono un uomo di mezza età con i capelli grigi (“Ma nel cuore / nessuna croce manca”, direbbe Ungaretti; e anche se questo non è in linea col discorso è comunque un punto fondamentale).

Ho cercato la foto più antica che io abbia mai scattato relativa al golf. Era domenica 19 giugno 2005, l’unica volta in cui io ho giocato negli Stati Uniti, grazie al mio amico Don (sul quale si aprirebbero finestre e storie infinite, che in gran parte non saranno mai raccontate). Ricordo che il mio handicap era intorno al 30 allora, e il golf era un bel passatempo.

Poi è diventato un affare serio, anche se io da subito mi nascondevo alla vista di terzi per non fare vedere il mio gioco orribile (il primo anno andavo spessissimo ai Ciliegi alle 7:30 di mattina, ero un vero, ancorché inconsapevole, dewsweeper). Alla seconda gara, era settembre, presi l’handicap, e di quel giorno ricordo solo le due Inesis spedite in acqua sia alla 9 che alla 18.

Poi tutto il resto. Il desiderio di diventare professionista, l’aver giocato per una settimana a fare il pro, le clinic con Andrea e Roberto, le varie collaborazioni con le riviste di golf.

Questo blog, che ha compiuto da poco dieci anni.

Lo studio del golf sopra tutto, l’idea di essere un perenne studente dello swing (e del putt, e del putt). Le 6mila ore passate in campo pratica, il freddo il caldo la solitudine la soddisfazione la gioia. (E quel lato del carattere che mi manca, o quantomeno mi è mancato fino ad ora, ovvero l’essere compagnone e amico dei compagni di gioco, ovvero avere lo sguardo non rivolto dentro di me ma all’esterno. Bere una birra con gli amici per il sapore e il piacere dello scambiare quattro chiacchiere con loro, dimentico di qualunque altra cosa.)

Il golf è stato una moltitudine di sensazioni, per me. Non rimpiango nulla.

E il futuro, ora che sono nel mio cinquantaduesimo anno di età, è un po’ più breve di allora, ma non per questo meno interessante. Mi mancano tre anni e mezzo e 4mila ore di pratica. A cinquantacinque anni vedrò la fine dell’arcobaleno – o almeno questo è il sogno che mi è rimasto nel sangue; e se non lo vedrò pazienza. Don Chisciotte, Ben Hogan e il Piccolo principe: questo è il golf per me.

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