Mar 05

Sono partito da un mio problema specifico.

Ma vorrei allargare il discorso a beneficio del lettore: perché si tratta di un problema proprio di qualunque golfista che giochi almeno da qualche tempo.

Il mio problema specifico è questo: non so fare draw col driver. Ma il problema generale è questo: quando giochiamo da un po’ di tempo (e a maggior ragione se giochiamo da tanto tempo, e a ragione ancora maggiore se pratichiamo tanto) si formano in noi degli automatismi di gioco, grazie ai quali non dobbiamo ogni volta pensare come si tira un bastone; ma semplicemente ripeschiamo in maniera automatica e inconsapevole le informazioni dalla memoria e le utilizziamo allo scopo. Chi più e chi meno a seconda del livello di abilità, ma questo vale per tutti.

Però… però quando abbiamo praticato a lungo un colpo specifico quello che sappiamo in maniera automatica può essere di grave intralcio, se non va nella direzione desiderata.

Nel mio caso il problema col driver mi è molto chiaro. Perché la teoria la so: fare draw col driver vuol dire allinearsi, per esempio, quattro gradi a destra rispetto all’obiettivo e avere la faccia del bastone che all’impatto punta due gradi a destra dell’obiettivo (ovvero aperta rispetto al bersaglio ma chiusa rispetto alla direzione dello swing). Questo è chiaro e pacifico e dimostrato dalla scienza (TrackMan in primis). Se il colpo è eseguito in questa maniera, la palla partirà in una direzione compresa tra la linea dello swing e la direzione della faccia (più vicina alla prima) e poi curverà verso l’obiettivo. Il classico draw perfetto, quello che un giocatore professionista è in grado di eseguire scientificamente senza pensarci più di tanto, o anche istintivamente senza pensarci per nulla.

Allora il problema non è più fare draw col driver, ma è prima disimparare tutte le conoscenze – tutte, via, tante, tutte quelle non corrette – che ho a proposito del driver, stratificate in lustri di pratica e letture e riflessioni e chiacchiere, e poi fare draw, perché nel mio caso (ma suppongo di essere in buona compagnia) la seconda cosa non può esistere senza la prima.

Un bel punto interrogativo. Certo, se il denaro non fosse un problema, allora penso che un paio d’ore di lezione alla settimana con un maestro per sei mesi potrebbero risolvere il problema, o quantomeno avviarlo a soluzione decisa. Ma il denaro è un problema, quindi la soluzione è da scartare a priori. (E del resto in passato ho preso molte lezioni dicendo al maestro che questa era la cosa prioritaria che volevo correggere/imparare, ma comunque non ci sono riuscito.)

Per partire da esempi sommi, mi viene in mente quanto David Leadbetter fece con Nick Faldo a metà anni Ottanta, prendendo un gran giocatore che era però insoddisfatto del suo swing e trasformandolo in un giocatore eccellente, in qualcuno che rimane nelle pagine centrali, e non nelle note, dei libri di storia del golf.

Però: in pratica?

Ogni tanto ascolto pareri che mi paiono sensati, oppure leggo o vedo qualcosa e mi metto lì di buzzo buono a provare e riprovare. L’ultima volta una settimana fa: ho tirato 85 drive tutti pensati. Ma poi il risultato non viene, questa è la realtà con cui mi scontro. O, più precisamente, mi trovo davanti ad un picco di crescita decisamente forte, davanti ad un muro che non so scalare.

Quindi la teoria mi è chiara: so che dovrei disimparare prima di imparare, e in quella maniera riuscirei a scavalcare quel muro e procedere oltre. Ma la pratica è diversa: la pratica è che sono arrivato ad un punto dove molto probabilmente è decisamente più saggio accettare i miei limiti e convivere, semplicemente convivere con l’idea che determinate azioni non sono in grado di farle. Un po’ teatralmente potrei qui citare Eduardo:

Piccerì, a passà nun passa, ci si abitua.

Sì, perché qui si innesta un’altra sensazione che mi prende ogni tanto, quando mi rendo conto che per quanto possa impegnarmi e praticare ci sono cose che comunque non imparerò. E c’è una ragione molto precisa per questo, che per me è diventata limpida tanti anni fa quando Silvio Grappasonni in una telecronaca stava commentando un’uscita dalla sabbia di Ernie Els e disse qualcosa del genere: si vede che quel movimento l’ha praticato all’infinito sin da bambino, e dunque per lui è del tutto naturale. Al contrario le mie uscite dal bunker (ma col drive è esattamente la stessa cosa, soltanto un poco amplificata), per quanto praticate e raffinate col tempo e la pazienza, saranno sempre “costruite”, avranno sempre e comunque un che di posticcio, di appiccicato che le rende immediatamente riconoscibili.

E quindi la soluzione a questo problema non esiste. Non esiste per me come, credo (ahimè), per tanti dilettanti della mia età, per quanto bravi. O per meglio dire esiste: ed è nell’accettazione stoica dei limiti personali e del fatto che nessuno potrà mai veramente possedere il golf. E dico questo a consolazione di tutti noi, perché vale anche per i giganti del golf. Ad esempio Colin Montgomerie ha dichiarato che è stato veramente in the zone una volta sola, all’Open del Portogallo nel 1989, dove vinse per undici colpi. “La buca – ha detto – era come un secchio. Alla fine ho smesso di allinearmi per i putt – e sono entrati lo stesso. Non è più successo da allora”. E se lo dice Monty…

Feb 19

Josh Waitzkin


Questo è un post interlocutorio. L’obiettivo mio generale – ambiziosissimo, ma senza sogni grandi che cosa ci stiamo a fare in un campo da golf? – è quello di craccare il codice dell’imparare nel golf, ovvero di raggiungere veramente nel giro dei prossimi quattro-cinque anni il mio massimo potenziale golfistico, per il vero obiettivo ultimo: dimostrare a me stesso fin dove posso arrivare.

Fare questo è un affare molto complesso, che richiede delle competenze intellettive che vanno molto al di là, o quantomeno al di fuori, della mera tecnica golfistica. Nel senso che questo processo non prescinde, non può prescindere dall’affinare la tecnica, ma soprattutto il punto è quello che devo arrivare a migliorare la maniera di pensare. Pensare in maniera creativa, pensare a un livello superiore per ottenere dei risultati di un ordine di grandezza superiore.

Ovviamente questo è un progetto valido nel lungo termine, e comunque dai confini e dai risultati assolutamente incerti. Cionondimeno sono sicuro che valga la pena percorrerlo, perché da qualche parte laggiù c’è la fine dell’arcobaleno che aspetta di essere vista, sotto forma di cura e salvaguardia e tutela della rosa del Piccolo principe.

Una spinta notevole mi viene da questo libro, e più in generale dal pensiero di quest’uomo. Il libro mi ha portato ad alcune sue interviste che sto ascoltando e studiando (questa e questa tra le altre – senza dimenticare le chiacchierate tra lui e Tim Ferriss che me lo ha fatto scoprire).

Josh Waitzkin mette insieme tanti argomenti pesanti, e l’assimilazione di quei concetti richiede molto tempo e molto pensiero. Occorre respirarli, sognarli, farli propri. Non puoi avere fretta. Di tutti quei concetti al momento mi colpisce soprattutto quello di andare incontro al dolore (sia fisico che mentale), ovvero ritenere che gli errori sono benvenuti perché ti insegnano delle cose, ti insegnano ad andare oltre, ad andare solo un po’ più in là. E questo è un concetto olistico, per così dire, perché si applica in tanti campi: per esempio nella ginnastica, resistere gli ultimi cinque secondi quando i muscoli bruciano o aggiungere due ripetizioni fatte bene quando sei al limite ti spinge in maniera naturale un po’ più in là. È una sensazione splendida, che sto sperimentando più volte in questi giorni.

Sì, ma come si applica questo al golf? Be’, partiamo per esempio dalle parole di Anthony Kim:

Even when you don’t want to hit that last bucket or two of range balls, physically you can, and then maybe you find something in that last part of the session. After a while, those somethings add up.
[Anche quando non vuoi tirare l’ultimo secchio o paio di secchi di palle, fisicamente ti è possibile, e poi può essere che trovi qualcosa in questa ultima parte della sessione. Dopo un po’, tutte queste piccolezze si sommano.]

E, portando il ragionamento un po’ più in là, ho il sospetto che una parte almeno del tempo che passo in campo pratica sia poco efficace dal punto di vista dell’apprendimento: perché il punto dovrebbe essere quello di essere sempre o comunque spesso verso i limiti della conoscenza, ovvero con l’obiettivo di provare colpi e sperimentare situazioni in cui la sicurezza è minima, e grande il rischio di errore. E questo perché tirare colpi che sappiamo eseguire alla perfezione alimenta il nostro ego, ma non ci aiuterà dopo un errore in campo in una situazione in cui dovremo recuperare. Ne ho il sospetto e qualche indizio ma non le prove certe: ecco perché Josh Waitzkin ha molte cose da dirci (da dirmi, almeno), ecco perché in questo mio diario di bordo continuerò ad annotare pensieri e scoperte.

Feb 14


Ho fatto una gara ieri, ne ho tirati 86 [sic].

Nel dopogara non ci stavo bene, ripassavo le buche, i miei errori, le ingenuità. Posso dire che non conoscevo bene il campo (l’ultima volta, e forse l’unica, ci ero stato oltre dieci anni fa), posso dire che ho avuto un paio di sbordate, posso trovare altre scuse ma questo non mi porterà da nessuna parte.

Allora ho pensato a uno splendido libro che ho terminato da poco, e ai concetti che esso porta. Questo sì è interessante, Questa sì è una chiave di lettura decente e gravida di significato.

Prima di tutto ieri ho giocato male e basta. È stata colpa mia. Ma il punto non è questo, le giornate storte al golf capitano, e come! Quel che devo fare – quel che, credo, ciascuno dovrebbe fare dopo una gara andata male, se veramente vuole migliorare, se veramente vuole diventare il golfista migliore che possa diventare – è analizzare davvero le cause. Lasciando da parte l’ego, mettendo da parte l’immagine di golfista che ho di me. Ovvero non proteggermi pensando a quanto comunque sono bravo, ma sfidarmi pensando a come e dove posso migliorare.

E questo mi porta ad almeno due conclusioni.

La prima è che fisicamente sto cambiando. A cinquant’anni. In meglio, già. Nonostante l’età, io non sono mai stato così flessibile, così preparato atleticamente, così in forma. Mai nella mia vita. E di conseguenza anche il mio swing sta cambiando: le sensazioni nello swing sono piacevolmente inedite, provo un senso di leggerezza soprattutto nel finish; e questo si traduce – si può tradurre, almeno – in un movimento che deve ancore essere messo a punto. Io sul fatto che il mio swing è un work in progress che invecchiando migliora non ho dubbio alcuno, perché ora golfisticamente mi sento pronto per quell’agognato “due virgola, stabile” di cui vado scrivendo da anni.

Il secondo punto riguarda l’imparare. Josh Waitzkin in questa intervista esprime numerosi concetti interessanti, sviluppa gli spunti del libro ma va anche oltre. Parla (semplifico) di un lavoro lungo, lento, costante, faticoso, mai finito ma sempre pieno di gioia e di soddisfazioni.

E nell’imparare c’è il succo di tanto golf – del mio, almeno. Anche perché quando qualcuno mi dice (o pensa senza magari osare dirlo) “perché passi così tanto tempo a cercare di abbassare il tuo handicap?”, la risposta non è in un numero, per quanto lo 0 entro i 55 anni è comunque la carota che ho sempre davanti agli occhi; né sono l’ammirazione, che certamente fa piacere, né la possibilità di essere di esempio, ovvero un testimone da passare. Probabilmente la risposta non è nemmeno da ricercare nel campo del golf: io passo così tanto tempo in campo pratica per le sottigliezze e i dettagli che il golf mi insegna.

E quindi io le cerco, quelle occasioni, perché non voglio proteggere l’esistente ma voglio andare oltre, pavesianamente parlando mangiarmi una collina, e questo solo per il piacere di farlo, per la gioia dell’imparare, che è poi un segno dell’essere vivo e presente a me stesso.

E allora è questa la chiusura del cerchio, è per questo che di un 86 mi vergogno sul momento, ma dopo un giorno tutto mi è passato; dopo un giorno sono di nuovo in campo pratica a lavorare su di me. Perché il campo pratica è in poche parole uno specchio della vita.

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