Set 06

Irons are control clubs. How far you hit a particular iron is irrelevant.
Philip Moore, The Mad Science of Golf

La versione breve di questo post è questa: i ferri sono strumenti di precisione, dove conta molto di più sapere la distanza che ciascun ferro ci permette di fare che non aggiungere qualche metro ai singoli ferri. Mooolto di più.

Per scendere nel dettaglio, dirò che sabato ne ho avuta la prova reale; ma per spiegarmi devo partire da lontano, ovvero da una decina di anni fa, quando il mio handicap e il mio gioco si erano sufficientemente stabilizzati e io avevo in testa dei numeri ben precisi per la distanza fatta per singolo ferro: 110 metri per il pitch, e da lì a salire di 10 metri per ferro, quindi fino ai 160 per il ferro 5. Qualche anno dopo, ovvero qualche anno fa, mi sono probabilmente allungato ancora un pochino e dunque partivo da 115. Per me questi erano numeri reali, gli stessi che ho usato in Campo pratica per illustrare come misurare la distanza effettiva con i ferri (e i legni).

Però… però la realtà, sempre molto prosaica e sempre poco disposta a negoziare, mi è venuta incontro. Nelle ultime settimane mi ero reso conto che quelle distanze non erano reali – rimanevo troppo spesso corto nei colpi al green –, e che ragionare sulla base di quelle mi avrebbe portato (mi portava, a dirla tutta) più danno che altro.

Allora venerdì scorso, il giorno prima della gara, ho fatto qualche buca per conto mio, con lo scopo specifico di misurare le distanze effettive che i miei ferri facevano. Mi stavo creando nella testa dei numeri nuovi, più bassi rispetto a quelli detti prima. Alla buca 14 mi sono messo a 110 metri esatti dalla bandiera, ho tirato un ottimo pitch che ha colpito l’asta ed è entrato. Al di là della sensazione magnifica della palla che incoccia il metallo, quello è stato il punto di svolta, perché mettendo insieme tutto quello che sapevo ho “deciso” che le mie distanze attuali con i ferri sono di 108 metri con il pitch e poi salgono di 9 metri per ferro (117 ferro 9, 126 ferro 8 fino ai 153 del ferro 5; a loft più bassi anche la dispersione cresce, ma per ora ho scelto di ignorare questo fatto per non complicarmi troppo la vita). Di fatto si tratta di parecchi metri in meno rispetto ai numeri che avevo in testa prima, ma sono distanze reali.

A corollario, sabato prima della gara in campo pratica prendevo un ferro e prima di tirarlo ripetevo a voce alta (fatto del tutto insolito per me) i metri che avrei fatto. Sono convinto di aver trovato una risposta efficace al mio gioco attuale. (Forse come conseguenza, il mio handicap attuale è il più basso di sempre, 2.0).

Ora, se penso che quando sono a 135 metri il bastone ideale è un ferro 7, mentre prima lo ritenevo un 8, certo il mio ego ne esce un pochino bastonato; ma la sicurezza che deriva dal fatto di prendere più green più che compensa quel danno.

Quindi il suggerimento è quello di predisporre una sessione in campo (non in campo pratica, perché le palline devono essere il più possibile simili a quelle che usiamo di solito; ovviamente con tutte le cautele del caso, sia per non creare intoppi nel gioco e badando a riparare tutti i pitch mark provocati) per misurare le distanze effettive che facciamo con i ferri. Il nostro gioco ringrazierà.

Giu 23

Roberto Guarnieri mi segnala questo articolo. È una lettura lunga, ma per il golfista seriamente intenzionato a migliorare il proprio gioco – che presumo essere il lettore “ideale” di questo blog – ne vale decisamente la pena, perché offre molti spunti. Ne consiglio dunque caldamente la lettura. (Chi non dovesse conoscere a fondo l’inglese potrebbe avvalersi di strumenti come DeepL, che restituiscono un testo ovviamente non perfetto ma comprensibile.)

Espongo il mio pensiero a seguire, sperando che sia fruttifero per chi legge e – perché no? – ne nasca una discussione.

Innanzitutto, perché è così importante il livello zero di handicap? Perché qualunque golfista che diventi un po’ bravino vorrebbe arrivare a zero? Che cos’è, esattamente, questo zero? Per come la vedo io, è la rosa del Piccolo principe, è la balena bianca di Moby Dick, è l’obiettivo ultimo, il sogno di qualunque golfista, quel sogno quasi impossibile – e in quel quasi c’è tutto il suo fascino – di giocare ad un livello che in qualche maniera sia paragonabile a quello di un professionista. Che poi il fatto che il gioco di un handicap zero non sia paragonabile a quello di un professionista è un altro paio di maniche, ed è un argomento che mi propongo di sviluppare in un successivo post (farò ricerche approfondite, ma grossomodo un handicap zero degli anni Settanta, allorché il concetto di scratch fu sviluppato, corrisponde ad un +3 di oggi: che è il livello minimo di gioco per poter aspirare ad una carriera da giocatore), ma comunque potremmo considerarlo una sorta di “dilettante professionista”.

Leggendo l’articolo non è stato possibile per me evitare il paragone con me stesso, la mia strategia delle 10mila ore di pratica concentrata e tutto il resto ampiamente documentata in questi dodici anni di blog, negli articoli, nel libro eccetera; e anche se ora sono molto meno talebano nel mio praticare e giocare, di fatto non ho mai avuto un handicap così basso. (Ci sono vari motivi: il campo, il maggior numero di giri, il fatto che ora mi importi di meno e così via.) E poi l’altro paragone forte è con The Dan Plan, di cui ho dato ampiamente conto qui negli anni passati, anche se quello è un progetto differente e comunque defunto da tempo (ma c’è la possibilità che diventi film).

In ogni caso Mike Carroll (di cui si veda qui la mia recensione al suo ebook Fit For Golf, anch’esso strumento molto utile), l’autore dell’articolo citato, si era dato un anno fa l’obiettivo di arrivare a zero partendo da un handicap di 5,1. Che è, di per sé, un obiettivo molto ambizioso.

Nei primi mesi del progetto la stragrande maggioranza del tempo è stata dedicata alla pratica di driver e wedge (l’importanza del putt è venuta fuori dopo): questo perché lui è decisamente lungo col driver, e nella maggior parte dei par 4 è in grado di raggiungere il green con un wedge; copre circa 125 metri con il pitching wedge (anche se sul fatto che il pitch sia un wedge potremmo discutere: a mio modo di vedere un wedge ha un loft almeno pari a 50°, e il pitch – che è intorno ai 46° – è un ferro a tutti gli effetti. Ma questo è un parere personale). Ovviamente è stato inondato di consigli sulla pratica di putt e gioco corto, anche se lui dice che il punto non è quello, quanto piuttosto fare meno colpi orribili e prendere più green in regulation (e non si può non essere d’accordo).

Che cosa penso io (thank you for asking): una volta che il gioco è ragionevolmente a posto, ovvero diciamo con un handicap intorno al 15-25, allora la maniera più efficace e veloce per scendere è proprio il gioco corto, unito al putt. Però, una volta che l’handicap arriva ad un livello basso (per me è stato 4), allora gioco corto e putt non bastano più, ovvero non ti potranno dare risultati di grande rilievo, e diventa fondamentale il driver. In seguito, quando (e se) riesci a superare quella barriera, allora gioco corto e putt ritornano in primo piano per andare oltre. Sono sicuro che ci sono fior di dati a confermare quanto dico in maniera sperimentale, anche se non ne ho contezza.

Sempre all’interno della pratica, Mike dice di aver speso molto tempo in due aree specifiche:

  • a provare colpi al rallentatore;
  • a ricercare la sensazione.

Il primo concetto è decisamente hoganiano; e quanto al secondo, questo blog è pieno di descrizioni di sensazioni. Nel golf tout se tient. Ma soprattutto ritengo importante sottolineare il fatto che la pratica efficace non è colpire un numero infinito di palline, ma consiste nel colpirne poche e ragionare molto su di esse. Questo è.

Inoltre, dice che in quel periodo il suo chipping è migliorato tantissimo; ma non per via della pratica, quanto per averlo praticato molto nel gioco regolare e averci riflettuto a lungo. (Parentesi: negli Stati Uniti il chip, che io personalmente adoro, è fondamentale, mentre da noi pare non abbia quasi cittadinanza.)

Molto ha imparato da un giro in cui, stando a -5 dopo 13 buche, ha finito in par. Nel leggere il racconto delle ultime buche di quel giro non puoi non soffrire con lui, perché non puoi non immedesimarti in giri simili che ti sono capitati; ma il punto importante è la lezione imparata, che è quella – vecchia, ritrita e sempre validissima – di vedere il giro come una serie di colpi da affrontare uno per volta. Cosa che appare semplice ma richiede grande applicazione mentale: non pensare al colpo precedente, non pensare al colpo successivo, non pensare allo score e così via ma pensare solamente al colpo da affrontare ora, fino a che le buche non saranno finite. Grande lezione.

A un certo punto, good for him, tutti i pezzi sono andati a posto e finire un giro sotto par è diventata la sua nuova comfort zone. Il che non vuol dire che ora giri sempre sotto par: vuol dire semplicemente che non è più spaventato, che è consapevole del fatto che è una cosa normale – tant’è vero che accade.

Una sua nota finale: “I don’t have any kids”. Ecco, anche questo va tenuto a mente…
Ma in ogni caso bravo lui, che ha raggiunto la sua balena bianca.
Cosa ne pensi?

Giu 14

Ho fatto una bella gara, in questi giorni. Una tipica gara di circolo, nulla di importante, ma un 73 che mi ha dato molte soddisfazioni.
E, al di là di quello che posso avere fatto o non fatto io, che può interessare sì e no a tre persone, ho ripensato all’esperienza di sabato e cercato di trarne delle indicazioni di valenza più o meno generale.

Innanzitutto, il mio handicap è sceso al livello più basso di sempre (2,4), il che è una soddisfazione autotelica che non ha bisogno di ulteriori rinforzi o commenti. Come credo sia per quasi qualunque golfista, quel numerino è pari alla stella da sceriffo che da piccoli ci attaccavamo alla camicia a quadrettoni, o – nella versione femminile – qualcosa come il cerchietto da principessa che conteneva mondi interi.

In secondo luogo, questo handicap è venuto a fronte di un “impegno” in campo pratica molto ridotto rispetto agli anni passati (chiedo scusa, ma per me imparare a giocare a golf è sempre stato assimilabile non dico ad un lavoro, ma comunque ad un’attività con regole precise e scandite), e invece a molto più tempo dedicato – in proporzione – al campo. (Perché alla Margherita ci sono delle regole non scritte, ma non per questo meno efficaci, e rimanere in campo pratica quando i tuoi amici vanno in campo è un’offesa decisamente grave.) Con un’eccezione significativa: quello che non è eliminabile è il tempo dedicato al putt e soprattutto al gioco corto: fatto 100 il tempo dedicato alla pratica, al momento 60 è il tempo dedicato al gioco corto, 30 al putt e lo scarno resto al gioco lungo.

In terzo luogo, sabato ho di sicuro fatto un giro brillante, ma con dei punti di debolezza che sono tipici miei, il più immediatamente evidente essendo la lunghezza col drive. Il mio drive non è certamente lungo, e questo è un limite col quale mi scontro e dove non posso fare molto, ma la sicurezza che ricavo dal legno 3, dagli ibridi e dai ferri è grande, e soprattutto più mi avvicino alla buca e più mi sento in controllo della situazione. Questo per dire che anche chi non è lungo dal tee ha ancora speranza, e come!

In quarto luogo, ora sono molto meno ossessionato di un tempo da numeri e statistiche. Anzi, devo dire che non le tengo nemmeno più: ho amato il tanto tempo che per lunghi anni ho dedicato alle statistiche, ma ora mi piace pensare in termini di risultato (nel golf you are your numbers, si sa), unitamente alla cara, vecchia analisi del giro. Quella sì non mi pare eliminabile: quindi trovo fondamentale rivedere nella mente tutti i colpi, ripensare allo stato d’animo avuto durante la preparazione e l’esecuzione del colpo, col risultato di avere alla fine delle 18 buche un’idea chiara su cosa ha funzionato benissimo e su che cosa invece è da rivedere.

Feb 16


Era il 2004, io avevo cominciato a giocare da poche settimane, non avevo ancora dei bastoni miei e il primo che acquistai fu un ferro 3 [sic] al Decathlon. Il golf era un mondo quasi del tutto sconosciuto per me, riuscivo a capire pochissimo di concetti quali il loft, ma avevo intuito che un ferro con un numero basso poteva mandare la palla più lontana rispetto ad un ferro 8, 9 o anche 10 (già, all’epoca la Callaway produceva il ferro 10, ovvero l’attuale pitching wedge).

(Ricordo molto bene la faccia tra lo stupito e l’inorridito del mio maestro di allora quando mi vide con quell’arnese. Ma insomma il percorso verso la conoscenza è molto lungo, e anzi mi appare molto più lungo e intricato ora di quanto non fosse allora.)

Anche il mio primo set “serio”, i Mizuno MP-57, dei bastoni incantevoli al punto che li comprai online senza mai averli provati prima perché mi ero innamorato di quelle linee, aveva il ferro 3 (che conservo ancora). E anche se oggi amerei la sensazione cristallina e limpidissima che potrebbe darmi un ferro 3, o addirittura anche un rarissimo 2, so che copro con più efficacia le distanze intermedie tra i ferri medio-lunghi e i legni con gli ibridi.

Però il ferro 5 no, il ferro 5 è un altro discorso. Il ferro 5 è un buon test per mettere alla prova la tua abilità golfistica. Il ferro 5 lo devi saper tirare.

E io, pur usandolo da sempre, ho messo a punto da poco la mia tecnica per tirarlo. Perché questo è un bastone che devi prendere in mano con rispetto, che devi trattare bene e nella maniera corretta se vuoi che ti porti là dove desideri andare. Per fare uno yogiberrismo dirò che un ferro 5 non è un ferro 6.

Per me (non è ovviamente una ricetta universale, ma qualcosa di specifico che vedo funzionare nel mio caso) un ferro 5 dritto va tirato così:
– impugnatura da draw, ovvero che permetta di vedere la nocca dell’anulare della mano sinistra, mentre la mano destra si apre soltanto all’incirca della metà rispetto a quanto fa la sinistra);
– palla leggermente più indietro rispetto al centro dello stance (non più di un paio di centimetri);
spalla destra bassa e indietro;
K rovesciata;
– mirare a 3-4 metri a destra rispetto all’obiettivo;
– salita lenta;
– infine (ma è il punto più importante): debbo assicurarmi di non saltare dei passaggi, di farli nella giusta sequenza e soprattutto di liberare la mente dopo il pensiero e prima del colpo, in modo che sia il corpo, il mio subconscio, e non io ad eseguire il movimento.

Ripeto: questo funziona per me, che come la maggior parte dei golfisti tendo ad arrivare dall’esterno, ed è frutto di prove ed errori infiniti. Se la routine è fatta bene e se al momento opportuno riesco a mettere da parte la mente cosciente, allora il risultato è quasi una conseguenza logica. E la soddisfazione nel lasciar andare quel colpo è massima.

Dopo averlo provato innumerevoli volte in campo pratica, qualche giorno fa sono riuscito a portare in campo quel colpo. Margherita, buca 13, par 3 di 151 metri in discesa. D’estate è un ferro 6 con l’asta lunga e un 7 con l’asta corta, ma so che con temperature basse il ferro 5 è il bastone corretto per me. Ho eseguito la routine sia mentale che fisica nella maniera desiderata; quel colpo è partito dritto all’asta, esattamente come era stato visualizzato, è atterrato a meno di un metro dalla buca ed è rimasto lì. La sensazione dentro di me è stata quella di un lavoro compiuto, di una gioia limpida e cristallina; soprattutto, sono riuscito a farla percolare per intero, in maniera da poterla richiamare in futuro ogniqualvolta sarà necessario.

Ott 04

Ho fatto qualche giorno fa qualche buca in compagnia di un handicap 54, e non è stata un’esperienza positiva. Non per lo swing tutt’altro che impeccabile della persona, né per il fatto che il risultato dei colpi fosse casuale, cose perfettamente comprensibili in qualcuno che inizia; ma per la mancanza di conoscenza delle regole più elementari di etichetta. Un paio di episodi mi hanno colpito sopra tutti: il bunker non rastrellato e le linee sul green calpestate.

Una parola sul primo caso, che considero più grave in quanto costituisce mancanza di rispetto sia verso il campo che verso i compagni che verso gli altri giocatori: purtroppo capita in maniera ahimè troppo frequente. (Mi si perdoni il paragone irriverente: rastrellare un bunker, che sia di percorso, di un green o di pratica, equivale a tirare l’acqua dopo aver usato il gabinetto.)

Mi sono fatto scrupolo di far sapere alla persona che avrebbe dovuto rastrellare il bunker, anche se temo che osservazioni del genere portino a crearsi dei nemici senza offrire un reale beneficio, perché il nostro ego in questi casi è pronto ad entrare in campo senza indugi, e mi chiedo dunque che cosa capiterà la volta successiva: la persona si renderà conto che l’etichetta è qualcosa di necessario, oppure si sentirà offesa e per questo in diritto di continuare a sbagliare? Ma io voglio bene al golf e considero le regole importanti al fine di ottenere soddisfazione nel gioco stesso.

A mio avviso il problema non è non conoscere le regole: è non avere idea che questa mancata conoscenza può provocare danni al campo, che vanno evitati il più possibile per garantire a tutti un’esperienza di gioco ottimale. E qui si aprirebbe un discorso relativo ai circoli, che tramite i maestri dovrebbero essere responsabili di mandare in campo persone con un minimo di conoscenza dell’etichetta, e magari dell’umiltà necessaria per imparare ciò che non si sa. (Nei miei primi mesi di golf andavo in campo alle 7:30 di mattina perché nessuno vedesse i miei colpi orribili di army golf, e ancora oggi appena qualcuno si avvicina troppo sento un fremito di responsabilità personale nel non andare abbastanza veloce.) Discorso che però subito si allargherebbe alle difficoltà economiche dei circoli stessi… un problema di non facile soluzione, in un mondo che ha – e questo lo capisce anche un purista come me – incertezze ben più grandi di questa.

Ad ogni modo ho pensato a una possibile soluzione. L’anno scorso avevo compilato un breve vademecum per il golfista esordiente, che si trova qui. È una lista di regole di etichetta che dovrebbero apparire elementari (l’etichetta non è altro che buon senso applicato), ma che purtroppo troppo spesso non lo sono. Questo vademecum è una goccia nel mare, ma è una mia risposta a situazioni disorientanti come quella di qualche giorno fa.

Feb 26

Per la prima volta quest’anno, e comunque per la prima volta da tanto tempo, ho provato un paio di giorni fa una sensazione intensa di flow. Ero nel bunker di pratica, un cestino da 21 palline (più una raccattata in giro – non sia mai che io veda una palla di campo pratica e la lasci al suo destino) e io, e per sei volte ho tirato quelle 22 palle, per un totale di 132 colpi. La cosa interessante è che mentre tiravo quei colpi non mi rendevo esattamente conto di quello che stavo facendo, anche se mi fermavo spesso a riflettere sulle sensazioni; e comunque la stragrande maggioranza di essi terminava molto vicino alla buca. Un paio (di fila) li ho imbucati, e non mi è sembrato punto strano.

La versione breve è che ho la sensazione di essere di nuovo ritornato a essere sicuro, concentrato ed efficace nelle uscite dal bunker, come mi accadeva diversi anni fa – almeno in pratica, perché poi la gara è una bestia di fattezze del tutto differenti. E l’obiettivo adesso è diventare più bravo. (E questa è di per sé un’ottima cosa, perché nel golf se non vai avanti non puoi che retrocedere – non è possibile rimanere fermi.)
Nel mio diario di bordo la sera ho scritto:

24 febbraio, cp Ciliegi, quando intorno a te si parla solo di Coronavirus:
in bunker, uscita standard:
1. mani molto indietro, al centro;
2. spezzare subito i polsi senza portare indietro le braccia.

E ora la versione lunga, con l’idea di dare al lettore qualche spunto per affrontare un colpo che è di fatto semplicissimo, ma che può dare parecchio tremore. Ora, come dice Ernie Els,

There’s never been only one way to get the ball in the hole efficiently.
[Non c’è mai stato un solo modo per mandare la palla verso la buca in maniera efficiente.]

Quindi ci possono essere mille strade per uscire dal bunker in maniera efficace. Ma descrivo a seguire la tecnica che uso io ora con gran soddisfazione. Mi rendo conto che una descrizione a parole contiene un livello di approssimazione molto grande, perché magari non cito caratteristiche del colpo che per me sono scontate, ma che potrebbero non esserlo per il lettore; o viceversa posso enfatizzare caratteristiche che sono scontate per il lettore ma non per me. Ad ogni modo:

1. Le linee del corpo sono aperte, ma non di molto, qualcosa come 10° a sinistra dell’obiettivo;
2. La palla è appena oltre il centro dello stance;
3. La faccia del bastone è molto aperta, molto molto molto aperta, ai limiti del pensabile, del possibile e dell’immaginabile;
4. Il peso favorisce la parte sinistra del corpo, ma non in maniera eccessiva, qualcosa come 60 – 40;
5. Affondare con i piedi nella sabbia può aiutare, ma non è strettamente indispensabile;
6. Le mani devono essere molto indietro, quasi centrali o possibilmente centrali (questo è un punto fondamentale, perché permette al bounce del bastone di lavorare nella maniera migliore), e vicine al corpo;
7. Nello stacco le mani quasi non si muovono ma si spezzano subito i polsi e si porta su la testa del bastone. Quanto su dipende ovviamente dalla distanza e da altre condizioni, ma per un’uscita standard è sufficiente che il bastone arrivi parallelo al terreno o poco più;
8. La discesa deve essere decisa e avvenire con un’accelerazione progressiva, e la velocità massima si raggiunge dopo l’impatto;
9. Le mani nella discesa devono stare il più possibile attaccate al corpo.

Ott 26


Viene un tempo, ora, in cui è vero che si gioca a golf ancora quasi come se si fosse in estate, ma il cambio dell’ora, le temperature decrescenti e la luce declinante sono fattori limpidi di ciò che sta per venire. Anche le gare stanno terminando (magari lasciano il posto a qualche gara goliardica o poco più, ma il golf “serio”, quello fatto per il risultato, è alle spalle). È tempo dunque di pensare alla stagione che verrà. È questo, l’incipiente mese di novembre, il periodo migliore per pensare ai cambiamenti che desideriamo apportare al nostro gioco e per visualizzare i miglioramenti che avremo.

È presto? Forse. Più avanti penseremo al golf decembrino, ma per adesso potrebbe venirci in soccorso padre Dante (Purgatorio, III, 78):

Ché perder tempo a chi più sa più spiace.

Che cosa significa questo, in pratica? Ecco un paio di spunti, che poi ciascuno adatterà a sé come vorrà.

1. Un obiettivo davanti a sé

Ciascuno avrà le sue risposte, ma per me pensare alla stagione successiva significa da anni una cosa innanzitutto: il Trofeo Sanremo, gara che da decenni si svolge l’ultimo fine settimana di gennaio, 36 buche medal che sono una manna per i golfisti del nord che d’inverno di fatto possono giocare pochissimo. E anche se anni fa ci entravo senza problemi (e ricordo il risultato magico del 2011), mentre negli ultimi è stato sempre un patimento quello del trovarmi escluso – quest’anno ventesima riserva, per dire – , finita la stagione metto sempre quella carota davanti a me a mo’ di sprone per quel che verrà. Sentire quell’aria tepida, o la neve che può scendere leggera, o la pioggia, ma comunque la luce di quel campo, la casa di Casera, le memorie che conservo care di Marco Mascardi, il primo post di questo blog, circa mille anni fa e quell’aiutante magico che in quella stessa occasione mi portò lassù sono tutti incentivi a pensare avanti, a diventare il golfista più bravo che io possa diventare (anche adesso, coi capelli sempre più grigi, la vista che cala, gli sconvolgimenti che prendono dal di dentro la mia vita e la scuotono e la sconvolgono come tempesta). Ovvero, come disse Ben Hogan ad un giovanissimo Gary Player al termine dello US Open del 1958 in cui Player era giunto secondo:

– Bravo ragazzo, ben fatto; diventerai un grande giocatore. Esercitati tanto.
– Certo, pratico almeno quanto fa lei, Mr Hogan.
– Bene. Ora raddoppia.

Quindi: qual è il tuo prossimo obiettivo? IL sogno che da dentro ti consuma?

2. Un cambiamento tecnico preciso

Può essere una parte dello swing (anche se non facciamoci ingannare: lo swing è il primo pensiero quando si pensa al golf, ma lo swing è solo una parte, e nemmeno tanto grande, del golf), possono essere gli approcci da 40 metri, possono essere i putt da un metro (senza dubbio il colpo più difficile che ci sia). Ma potrebbe essere anche la preparazione fisica, o anche l’alimentazione, o la gestione strategica delle gare. Il concetto è: scegliamo qualcosa in cui vogliamo migliorare, facciamo un piano e diamoci una scadenza. E diamoci dentro, perdio!

Quindi: qual è il tuo prossimo cambiamento tecnico? Su che cosa lavorerai nei mesi a venire?

Insomma: a breve ci attenderanno mesi che apparentemente sono in netto contrasto con il golf, ma che di fatto sono il periodo in cui si possono sperimentare cambiamenti che daranno i loro frutti nella stagione. La pratica può procedere tranquilla, perché non necessita di risultati immediati ma è sostenuta da una visione di respiro ampio. Magari poi non si concluderà nulla, o magari sì; ma questo, in fondo, non è importante. Perché anche il golf, in sé considerato, non è importante; invece è importante, è fondamentale la tua idea di golf, il tempo e la passione che tu hai messo, metti e metterai nella pratica golfistica. Il Piccolo principe torna sempre:

C’est le temps que tu as perdu pour ta rose qui fait ta rose si importante.

Alla fine l’handicap è una stelletta che ti rende fiero ma di cui agli altri non importa nulla. E comunque avere il tempo di “scolpire” il movimento, di provare e riprovare è il bello, il vero bello, del golf fuori stagione.

Ago 25


Be’, in realtà non so se si può definire il colpo più difficile in assoluto, ma certamente è catalogabile tra i 4-5 più complessi. Sto parlando dell’approccio da 30-40 metri; anche se siamo in fairway e con bandiera scoperta, il grado di difficoltà rimane elevato perché è un colpo (o, più precisamente, un mezzo colpo) dove il controllo deve essere massimo.

Qual è un buon risultato? Prendendo come misura i 40 metri, considero che il colpo è ottimo quando l’errore non supera il 5%: ovvero quando la palla si ferma entro i 2 metri dalla bandiera. (Per definire un colpo come “buono” possiamo calcolare un margine d’errore del 10%: ma sappiamo bene che le percentuali di palle imbucate dai 4 metri rispetto ai 2 stanno in una categoria completamente differente. Insomma è un colpo salva-par, e al contempo un toccasana per l’autostima golfistica.)

Ieri sera, in un momento di intenso flow, l’ho messo a punto. (Anche se sarebbe più corretto dire che quel che ho “scoperto” ieri è frutto di tentativi ed errori che vanno molto indietro nel tempo.) Ecco come lo eseguo io:
– bastone: 60° (io adoro il lob, ma anche il sand è perfetto al caso);
– peso 65-35 (ovvero favorire l’appoggio sul piede sinistro, per un attacco più verticale);
– palla centrale (ho scoperto che non serve metterla più avanti, anzi è probabilmente deleterio);
– bastone impugnato normalmente (non serve impugnarlo più corto);
– mani molto vicine al corpo (no, di più – questo è un punto fondamentale);
– mani molto indietro, quasi centrali (in questa maniera il bounce fa pienamente e bene il suo lavoro);
– attaccare il colpo (ovvero accelerare con decisione all’impatto – il punto di massima velocità è appena dopo l’impatto, non prima);
– finire il colpo (questo permette alla palla di volare alta).

Per variare la distanza, ovvero per colpi più corti o più lunghi, basta semplicemente modificare la lunghezza del backswing, mentre tutte le altre condizioni restano invariate.

Giu 20


Uno dei concetti golfistici che ho fatto più fatica a comprendere, in questi miei quindici anni di golf, è il bounce. Confesso che per anni non ho avuto un’idea precisa di che cosa si intendesse con “bounce”.

In tempi recenti sono arrivato ad alcune conclusioni (provvisorie – ormai mi è chiaro che nel golf non c’è nulla di definitivo), ovvero delle scoperte che cerco ora di illustrare.

Partiamo dalle definizioni. In un bastone, il bounce

è l’angolo tra la tangente ortogonale alla suola e il terreno. In genere i ferri fino al 9 hanno un bounce nullo, mentre è considerevole nei wedge (4-16°), soprattutto allo scopo di permettere una miglior uscita dalla sabbia e dal terreno umido.

(Qui un articolo che spiega bene di che cosa stiamo parlando.)

Per quello che so io del gioco corto il concetto di bounce si applica soprattutto alle uscite dal bunker e al gioco intorno al green, diciamo fino ai 50 metri. (Andando oltre la musica cambia, o quanto meno quello che ho imparato di recente lo trovo applicabile soprattutto a questi tipi di colpi.)

Un mio problema, di cui sono stato consapevole solo in tempi recenti, è stato l’aver usato per i wedge fondamentalmente la medesima posizione del bastone rispetto ai ferri, con le mani tenute verso l’obiettivo (grossomodo all’altezza della tasca sinistra dei pantaloni), di fatto eliminando il bounce e dunque creandomi dei problemi (attività in cui sono maestro; ma non divaghiamo). Confusamente sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non riuscivo a capire.

Un barlume di soluzione mi è giunta da un’osservazione letta su My Golf Numbers, che mi ha dato da pensare. Dice infatti Doctor Nick, al secolo Niccolò Bisazza, che tenere le mani molto avanti con i wedge è un peccato capitale, perché rende (insieme ad altri fattori) ingestibile l’angolo d’attacco. Poi, nelle ricerche mi sono imbattuto in questo video dove Silvio Grappasonni fa una breve lezione di uscita dal bunker (e non importa che non dica nulla di che, che si senta poco e che sia pure tagliato: quel che dice Grappasonni per me è oro colato e lo ascolto sempre con attenzione estrema), e quindi in altre letture che ora non sono in grado di citare.

E dunque rispetto alla mia antica posizione ho fatto un paio di aggiustamenti:
– innanzitutto bado a tenere le mani più indietro, ovvero più lontano dall’obiettivo, verso il centro del corpo;
– poi evito il più possibile di spezzare i polsi nella salita.

Questi sono i due aggiustamenti più importanti, cui ne vanno aggiunti quattro “minori”:
1. tenere i piedi stretti;
2. tenere il peso 60 e 40, ovvero favorendo l’appoggio sul sinistro;
3. badare di attraversare bene il colpo;
4. tenere le mani alte nel finish.

Non riesco sempre a mettere insieme tutti questi punti, e del resto non tutti sono necessari e certamente non sempre. Ma tenere le mani più indietro aiuta a far lavorare veramente il bounce, e così la palla parte più alta. Insomma un wedge fa veramente il wedge.

Poi certo, in questa maniera ho scalfito appena la superficie, mentre un inizio di lavoro scientifico vorrebbe dire passare una giornata con un maestro a provare diversi bounce in superfici diverse, con condizioni di campo differenti, e poi leggere e studiare molto di più di quanto non abbia fatto fino ad ora. Senza dimenticare il fatto che siamo ai confini tra arte e scienza, e che come dicevo prima il punto fermo non lo metteremo mai. (Del resto solo i morti non hanno il mal di pancia.)

Conclusione: con questo set up sento il bounce lavorare veramente come dovrebbe. Il rumore all’impatto è differente, più pieno e rotondo; la palla parte più alta e si ferma prima. Insomma il colpo diviene più controllabile e il margine di errore si riduce.

Benedetto bounce.

Ott 18

Il golf, a volte, va interpretato. Oggi desidero proporre un’idea di allenamento differente dal solito, e valida soprattutto per gli handicap bassi.

Per farlo prendo spunto da un paio di libri.

Il primo è Tour Mentality, di quel gran signore e splendido professionista che è Nick O’Hern, e che ho recensito su “Il Mondo del Golf Today” di settembre (qui la pagina). Nick parla della Three-Club Challenge, ovvero di andare in campo con tre soli ferri, il che ti costringe a essere creativo perché non potrai coprire tutte le distanze. La situazione ti costringerà veramente a pensare fuori dagli schemi, e ti aiuterà molto quando poi il risultato conterà davvero e avrai un colpo non standard.

It’s great for your imagination. You’ll probably really struggle the first time out, but keep at it, and your results will improve. It gets you feeling like a kid again, playing for fun.

Like a kid again, non è una cosa da poco.

(Bubba ne ha tirati 81 con un bastone solo, per dire.)

Il secondo l’ho da poco terminato: An American Caddie in St. Andrews, la cui recensione uscirà in novembre. L’argomento è differente ma l’approccio è identico:

There’s something about caddying for other golfers that forces me to examine the course like I never have while playing. Stripped of the attention to golf swings, I’m free to think about the humps and the hollows. When I run fifty yards ahead of my golfer to forecaddie his approaches into the fifth and thirteenth, I see bounces and incoming shots for the first time. My golfers are playing this course once […] but for me, the shots are part of a long-running series. Patterns form; common mistakes become obvious. Every day, mini-epiphanies strike.

Patterns form. Questo è il punto. Patterns form.

Perché questo succede quando ripeti un gesto per diecimila volte, esaminandolo da ogni lato: vedi le sottigliezze, le complessità, le difficoltà. Impari come superarle, o almeno aggirarle.

Questo ho fatto questa mattina. Questa mattina sono andato al mio circolo con un’idea molto specifica: fare nove buche utilizzando solo due bastoni, il ferro 5 e il 60°. E così ho fatto. Ho fatto circa undici buche (il conteggio non è preciso perché in un paio di casi non le ho terminate, dovendo saltare gruppi regolari che ovviamente andavano a una velocità differente). Ho finito con un birdie quasi senza sforzo, in perfetto flow, alla 9 (ferro 5 a 160 metri, ferro 5 a un metro e mezzo, 60° di lama a imbucare); ma questo non ha importanza alcuna. Ha importanza, invece, e come!, il fatto che affrontare un campo con strumenti insoliti ti aiuta a pensare in modo creativo. Prova!

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