Torno oggi da un evento, tenutosi a Roma, della durata di un paio di giorni di presentazione prodotti destinati al golf, di cui scriverò su “Il Mondo del Golf Today” di giugno. Ho parlato (poco), ho soprattutto ascoltato e osservato. E mi sono fatto qualche idea in più sullo stato del golf nostrano.
I presenti, una cinquantina, erano tutte persone molto competenti all’interno del mondo del golf, provenienti da numerosi paesi (pochissimi dall’Italia, e già questo è indicativo).
A tavola, tra i vari discorsi è stato inevitabile parlare di numeri. E non che non ne fossi consapevole, ma a sentire il numero di golfisti praticanti nei vari paesi c’è comunque da restare basiti. Non siamo nemmeno nei primi dieci paesi europei.
Perché noi siamo tanto indietro?
Perché da noi il golf continua ad avere quest’aura di esclusività, quando i costi – non sempre, ma in diversi casi – possono essere paragonabili a quelli di una palestra?
Un collega mi diceva che un teorico massimo, calcolato come percentuale dei golfisti sugli abitanti di un paese, è del 5% – il che per l’Italia significherebbe 3 milioni di persone, una cifra lontana anni luce dai novantamila golfisti tesserati attuali (di cui praticanti effettivi? Forse non molti più della metà).
Anche l’aria che si respirava mi ha colpito tanto, ho percepito la differenza che sovente c’è tra l’approccio nostrano al golf e quello di un professionista dal respiro europeo. C’è del lavoro da fare. Le cose si fanno ma non possono essere improvvisate. Per fare marketing golfistico, per vendere golf ci vogliono preparazione e studi.
E poi c’è il Marco Simone, sede della Ryder del 2022, in cui ho avuto la fortuna di giocare ieri. Il campo è assolutamente magnifico, ma come la mettiamo con l’ospitalità, con le infrastrutture? La mia paura – che vedevo condivisa da molti – è che quest’occasione grandissima che abbiamo possa andare sprecata, e che a seguire non possa passare un altro treno così carico di opportunità.
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