Giu 10

C’è un problema apparentemente banale, ma molto significativo da un punto di vista golfistico, che riguarda un luogo preciso della buca 18 del Merion Golf Club:

Esattamente da quel punto, giusto settant’anni fa, Ben Hogan tirò uno dei colpi di golf più famosi dell’intera storia golfistica, immortalato dalla foto di Hy Peskin, a detta di innumerevoli storici la più famosa foto mai fatta a un golfista. Chiunque si trovi a giocare le 18 buche di uno dei campi più famosi del mondo, un campo che trasuda storia a ogni cantone (il 27 settembre 1930, per ricordare un fatto soltanto, Bobby Jones completò su questo medesimo percorso il suo Grand Slam vincendo lo US Amateur Championship), si sente quasi costretto una volta giunto in quel punto del fairway della 18 a provare quel colpo: la conseguenza è che l’erba intorno a quel punto è perennemente mancante.

Quel colpo fa parte di una storia che di per sé è uno dei maggiori avvenimenti sportivi di tutta la storia del golf, ovvero il ritorno sui campi da golf di Ben Hogan dopo l’incidente avvenuto il 2 febbraio 1949, quando Hogan stava tornando con la moglie – Hogan viaggiava sempre con la moglie – e la sua auto fu colpita da un pullman guidato da un autista che nella nebbia aveva tentato un sorpasso decisamente avventato. Hogan subì talmente tanti traumi che il dubbio dominante dei medici, nei giorni successivi, era che non sarebbe più tornato a camminare – il golf a quel punto era ben al di là dell’immaginabile. Eppure la sua tenacia e la sua dedizione lo fecero tornare sui campi nel giro di un anno, e poi a vincere il torneo di maggior prestigio, quello cui teneva di più, sedici mesi dopo quel tragico giorno.

Quel giorno era la trentaseiesima buca per Hogan (all’epoca il terzo e quarto giro dello US Open si giocavano entrambi al sabato), un uomo che prima e dopo di ciascun giro di golf doveva sottoporsi a un rigido regime di sali e fasciature, per alleviare il dolore alle gambe malandate dopo l’incidente. Dopo il drive Hogan sapeva che i due leader, Lloyd Mangrum e George Fazio, avevano terminato prima di lui a 287 colpi. I calcoli erano semplici: un birdie per vincere, un par per il play off del giorno successivo (e in teoria anche un bogey per uscire dai giochi, anche se possiamo supporre con ragionevole certezza che un pensiero del genere non poteva attraversare la mente di Hogan).

Aveva ancora oltre 180 metri a inizio green. La scelta era tra un legno 4, che probabilmente nessuno al mondo sapeva tirare meglio di lui, e quel ferro 1 che aveva messo in sacca togliendo il ferro 7 perché, come disse, “non ci sono ferri 7 a Merion”. Ma il pericolo del legno 4 era che avrebbe sì agevolmente passato il bunker che proteggeva l’ingresso alla buca, ma col pericolo di finire nel rough al fondo, da dove un par sarebbe stato piuttosto complicato. Quindi la scelta era pressoché forzata.

Skee Reigel, un golfista che finì dodicesimo in quel torneo, e che si trovava in quel momento negli spogliatoi sopra il pro shop, un luogo da cui si godeva la vista del green della 18, ricorda la scena come “incredibilmente tranquilla, come se ci fossero 10mila persone sedute in chiesa”. In quel momento Hy Peskin, fotografo emergente della rivista “Life”, si era piazzato esattamente dietro a Hogan, a meno di cinque metri da lui, mentre l’uomo considerava il da farsi e, momenti dopo, immortalò quell’attimo. A quanto è dato sapere non c’erano altri fotografi, o quantomeno non ci sono giunte altre fotografie del gesto.

Questa elegante fotografia in bianco e nero, che sarebbe stata pubblicata su quella rivista nove giorni dopo e che adorna le clubhouse di mezzo mondo, mostra Hogan in equilibrio perfetto, l’eleganza nel vestire, il cappello di lino che era uno dei suoi tratti distintivi, e tutto il pubblico voltato a osservare la palla, quasi “dimenticandosi” della storia che stava dipanandosi proprio in quegli istanti.

La palla atterrò con sicurezza in green, e due putt consentirono a Hogan l’accesso al play off del giorno dopo (che vinse). Il secondo putt, di poco più di un metro – ovvero il colpo in assoluto più difficile nel golf – entrò dal bordo destro della buca, ma era tutt’altro che scontato e avrebbe anche potuto uscire, come si vede qui al minuto 0:39. Se così fosse stato, la storia che racconteremmo oggi sarebbe molto più simile a quella del Masters del 1946, dove in green alla 18 dell’ultimo giro fece tre putt da 4,6 metri per mancare il play off per un colpo. Ma a volte le stelle si allineano tutte insieme in vista di un risultato.

E anche quel ferro 1 ha una storia da raccontare. Fu rubato quel giorno stesso, insieme alle scarpe di Hogan, e ritrovato solo nel 1983: fu presentato a Hogan, che lo esaminò con grande cura e poi disse: “It’s good to see my old friend back”. Si trova ora nel museo della USGA. Nel libro Hogan parla di ferro 2, ma in seguito ammise di essersi sbagliato e confermò che si trattava di un ferro 1.

10 giugno 1950: il giorno di una magia senza tempo.

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Apr 03


Coronavirus, tempo di fare altro. Oggi vorrei commentare una foto che da anni ho sotto gli occhi, e che rappresenta al meglio il mio dolce mito e – si parva licet – quello che io vorrei essere nel golf negli anni a venire.

Ce l’ho sotto gli occhi perché è raffigurata nella copertina della miglior biografia a mio avviso esistente su Ben Hogan (ne avevo parlato qui).

La foto è stata scattata da Jules Alexander (fotografo la cui storia meriterebbe un post tutto suo) a Winged Foot mercoledì 10 giugno 1959, il giorno precedente l’inizio dello US Open. Hogan, che all’epoca aveva già dato – golfisticamente parlando – il meglio di sé, stava giocando il suo giro di prova con Claude Harmon, che era il pro di casa.

Sul green della 15 Hogan, dopo una breve pausa nella casa di Freddie Corcoran – l’autore della foto pensa per fare pipì –, si accese una sigaretta e si appoggiò in maniera molto rilassata e tranquilla al putter, rimanendovi per un certo tempo; sempre Alexander pensa che fu per dare al fotografo una possibilità in più di fare il suo lavoro.

(Curiosa nota laterale: la foto mostra i pantaloni abbottonati in maniera imperfetta, e Alexander pensa che Harmon gliel’abbia fatto notare di lì a poco, visto che sul tee della 16 erano a posto.)

Ebbene, in questa foto c’è tanto Hogan: c’è la quiete dell’uomo, la pace di chi ha raggiunto quel che voleva; e poi l’uomo nel suo ambiente naturale, e l’eleganza tranquilla di chi non ha bisogno di fare rumore per far sapere che c’è.

Ed è anche una sorta di augurio: il golf che vorrei per me e il golf come vorrei che fosse in futuro.

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Set 30

Arnold Palmer, US Open 1960, Cherry Hills

Arnold Palmer, US Open 1960, Cherry Hills


Domenica notte vai a dormire con gli occhi pieni delle immagini dell’atto finale della FedEx Cup, e lunedì ti svegli con una notizia che era di certo attesa e scontata, ma che a sentirla ti colpisce.

Ha detto Tim Finchem:

There would be no modern day PGA TOUR without Arnold Palmer. There would be no PGA TOUR Champions without Arnold Palmer. There would be no Golf Channel without Arnold Palmer. No one has had a greater impact on those who play our great sport or who are touched by it. It has been said many times over in so many ways, but beyond his immense talent, Arnold transcended our sport with an extraordinarily appealing personality and genuineness that connected with millions, truly making him a champion of the people.

E non c’è molto aggiungere. La sua vita golfistica è stata straordinaria, e allo stesso tempo la persona Arnold Palmer è stata – è – assolutamente eccezionale, lui così umile e gentile e riconoscente e nello stesso tempo intelligente e pratico.

A me colpisce tantissimo, quando penso a lui, lo scorrere del tempo: a guardare le immagini degli anni Cinquanta e Sessanta sembrava invincibile, immortale, e aver visto la sua fragilità all’ultimo Masters commuove, emoziona, scuote, appassiona e tocca nel profondo.

È facile diventare mielosi nel tentativo di descrivere l’indescrivibile, ma insomma è pacifico che un Re è per sempre.

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Ago 05

Five Lessons
(La traduzione italiana della lunga citazione che inserisco a seguire si trova qui, grazie ad Andrea Gandolfi. Il grassetto è mio. Del secondo putt che Ben Hogan tirò in quell’occasione ho parlato qui.)

Twenty-five years ago, when I was 19, I became a professional golfer. I suppose that if I fed the right pieces of data to one of our modern “electronic brain” machines it would perform a few gyrations and shortly afterwards inform me as to how many hundreds of thousands of shots I have hit on practice fairways, how many thousands of shots I have struck in competition, how many times I have taken three putts when there was absolutely no reason for doing so, and all the rest of it. Like most professional golfers, I have a tendency to remember my poor shots a shade more vividly than the good ones – the one or two per round, seldom more, which come off exactly as I intend they should.

However, having worked hard on my golf with all the mentality and all the physical resources available to me, I have managed to play some very good shots at very important stages of major tournaments. To cite one example which many of my friends remember with particular fondness — and I, too, for that matter — in 1950 at Merion, I needed a 4 on the 72nd to tie for first in the Open. To get that 4 I needed to hit an elusive, well-trapped, slightly plateaued green from about 200 yards out. There are easier shots in golf. I went with a two-iron and played what was in my honest judgment one of the best shots of my last round, perhaps one of the best I played during the tournament. The ball took off on a line for the left-center of the green, held its line firmly, bounced on the front edge of the green, and finished some 40 feet from the cup. It was all I could have asked for. I then got down in two putts for my 4, and this enabled me to enter the playoff for the title which I was thankful to win the following day.

I bring up this incident not for the pleasure of retasting the sweetness of a “big moment” but, rather, because I have discovered in many conversations that the view I take of this shot (and others like it) is markedly different from the view most spectators seem to have formed. They are inclined to glamorize the actual shot since it was hit in a pressureful situation. They tend to think of it as something unique in itself, something almost inspired, you might say, since the shot was just what the occasion called for. I don’t see it that way at all. I didn’t hit that shot then — that late afternoon at Merion. I’d been practicing that shot since I was 12 years old.

Ben Hogan’s Five Lessons: The Modern Fundamentals of Golf, 1993 [la prima edizione è dell’ottobre 1957], 128 pp.

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Giu 03

Dan
Tramite questo articolo ho avuto in questi giorni la conferma che il Dan Plan è giunto al capolinea, e non con l’esito sperato. Dato che in questi anni ho considerato Dan McLaughlin come la mia “controparte” americana, e dato che ho preso tanti spunti da lui e dal suo progetto (ne ho parlato, per esempio qui, qui e qui), è questo il momento per proporre alcune mie considerazioni finali.

Per prima cosa, il massimo rispetto va a questa persona e al suo progetto. Certo, sarebbe facile dire adesso – il Cigno nero ce lo ricorda – che l’obiettivo era troppo al di sopra della sua portata, ma il fatto di averlo pensato, sognato, visualizzato e poi cercato è un grande merito di Dan.

Del resto anch’io qualche anno fa avevo l’idea di diventare un professionista (all’epoca ciò era consentito, poi il limite è stato riportato a quarant’anni di età: cosa che se da un punto di vista sportivo trovo corretta, non posso certamente dire lo stesso da un punto di vista per così dire costituzionale, ovvero di eguaglianza, ovvero di pari opportunità). Quando mi è stato chiaro, circa tre anni fa, che ciò non sarebbe stato possibile ho elaborato il mio piano B, che è quello di arrivare nei dintorni dello 0 entro i miei 55 anni di età. (Poi qui ovviamente si inseriscono considerazioni relative all’invecchiamento e alle motivazioni di cui ho parlato tante volte e che non ribadirò ora.)

Del resto la teoria delle 10mila ore – a proposito: sto leggendo proprio in questi giorni l’ultimo libro di Anders Ericsson, di cui dirò senz’altro nelle prossime settimane (ed è tra l’altro ironico che proprio questo libro ricordi in maniera ampia la storia di Dan) – dice “semplicemente” che con tale numero di ore di deliberate practice puoi raggiungere un livello professionale, ovvero di esperto, in qualunque disciplina umana (semplifico, perché la teoria è più complicata di così; e comunque si tratta di qualcosa oggetto di dibattito nella comunità scientifica, non certo di assiomi). Però da “esperto” a “giocatore del tour maggiore” ci sono almeno un paio di salti di categoria. E comunque non esistono allo stato prove che sia possibile partire da zero a trent’anni e arrivare a competere con i migliori. Perché in effetti è vero quel che dice Silvio Grappasonni quando Ernie Els esce dalla sabbia: che si vede che quel movimento l’ha praticato all’infinito sin da bambino, e dunque per lui è del tutto naturale. Al contrario le mie uscite dal bunker, come immagino quelle di Dan, per quanto praticate e raffinate col tempo saranno sempre “costruite”, avranno sempre e comunque un che di posticcio, di appiccicato che le rende di una categoria inferiore.

Sarebbe certamente interessante che Dan facesse un’analisi di questi anni, una sorta di bilancio di questa esperienza che è assolutamente eccellente. (È molto facile per noi, “della razza / di chi rimane a terra”, guardare che cosa fanno gli altri e criticare; ma essere nell’occhio del ciclone, ovvero buttare il cuore al di là dell’ostacolo è un atto che merita la massima considerazione e il massimo rispetto.) Questo sarebbe utile a noi golfisti “normali”, per cercare di capire qualcosa di più dell’apprendimento.

Lo dice anche l’autore dell’articolo succitato:

But if Dan leaves his “Plan” like it is now, we’ve gained nothing. We don’t know anything more about the ten-thousand-hour theory than we did before. I doubt Dan will do any kind of post-mortem as it really isn’t his style. He will say that he wants to focus on the positive and to keep looking forward. But, in failing, I believe that Dan has brought one of the major problems facing golf to the forefront. How people learn to play the game is broken and it needs to be fixed.

In ogni caso il punto centrale non cambia: è solo la pratica concentrata e focalizzata che ti farà diventare il golfista migliore che tu possa diventare. E questo Dan l’aveva capito da tempo. Non sei arrivato in fondo ma te la sei giocata bene, hai il mio massimo rispetto per questi anni che hai dedicato a questa avventura. Well played, dear Dan.

Apr 08

Honorary Starters (L-R) Masters champion Jack Nicklaus, Masters champion Arnold Palmer and Masters champion Gary Player of South Africa pose for a photo on the No. 1 tee during Round 1 at Augusta National Golf Club on Thursday April 7, 2016.

Honorary Starters (L-R) Masters champion Jack Nicklaus, Masters champion Arnold Palmer and Masters champion Gary Player of South Africa pose for a photo on the No. 1 tee during Round 1 at Augusta National Golf Club on Thursday April 7, 2016.


Il Masters è una gara a sé, questo lo sappiamo – l’atmosfera è unica, non c’è molto da aggiungere.

La storia del primo giorno per me è una sola: la presenza di Arnold Palmer sul primo tee, alle 8.05 ieri mattina, ora di Augusta, a guardare, seduto, gli altri due honorary starter, altre due leggende al pari suo, aprire ufficialmente la competizione.

La sua compostezza, il suo sguardo. I suoi pensieri.

Cinque anni fa lasciò scadere, senza rinnovarla, la sua licenza da pilota. Accettare la vita che passa, il tempo che scorre.

Questo video dice molte cose.

Not driving this year, but forever a part of the Masters tradition, please join me in a welcome, a salute and a heartfelt thank you to our four-time Master champion, Mr Arnold Palmer.

I suoi occhi lucidi. Suona come una specie di addio, ma un Re è per sempre.

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Nov 20

Edoardo Molinari
Be’, io ho provato un’emozione, ieri.

Quel che ha fatto Edoardo Molinari – prendere l’ultimissimo posto dell’ultimo treno per l’European Tour – dice tanto del carattere del giocatore. È una bella storia da raccontare e da ricordare. Ieri aveva segnato un doppio bogey alla sua quinta buca, il che lo poneva di cinque colpi fuori dal taglio. Cinque colpi da recuperare in tredici buche… non bruscolini. Ma ha subito reagito con un birdie alla buca successiva, e poi con altri quattro nelle sue seconde nove per entrare nel taglio col numero massimo di colpi necessari.

Su Twitter ha chiosato:

Call it destiny, guts, hard work, desire or simply luck…but this 32 on the back nine is second only to my back nine in Gleneagles in 2010!

E il commento più bello a mio avviso è stato quello di Gonzalo Fernández Castaño:

As I told you a few weeks ago: form is temporary, class is permanent. #bravo

Un giorno un amico mi disse di averlo incontrato al supermercato, e ovviamente avergli fatto i complimenti per il gioco. Ecco, con un personaggio così mi piacerebbe passare del tempo, sentirlo raccontare di golf ma non solo. Perché ieri ha fatto molto di più di un giro di golf: ha segnato una strada, ha dato l’esempio per tutti noi, ha fatto vedere che il lavoro duro paga.

E poi mi è anche venuto in mente quel giorno di sei anni fa, un’altra bella pagina di golf. Ma del resto la sua carriera è lunga e contiene tanti episodi significativi. Alti e bassi, ma sempre con emozione e partecipazione.

Edoardo Molinari, grande talento e soprattutto grande lavoratore. Call it a day.

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Apr 10

Sì, il post di oggi è abbastanza “telefonato”. Però quando arriva la settimana del Masters è come se il golf salisse di un gradino, perché tutto in quell’ambito è assolutamente perfetto. Questa competizione, poi, si inquadra in un contesto generale di splendidi tornei del PGA Tour: ho ancora davanti agli occhi, per dire, il putt alla 72ma di Padraig Harrington per andare al play-off all’Honda Classic, così come il fantastico play-off al Valspar e la vittoria di J.B. Holmes allo Shell Houston Open di domenica scorsa.

Ma il Masters, il Masters è un’altra cosa. E allora oggi rammenterò alcuni episodi della prima giornata che ho apprezzato particolarmente.
AP
Il tee shot alla 1 dell’honorary starter Arnold Palmer.
Lui che dice: “I just don’t want to fan it”.

I tweet del sempreverde Dan Jenkins. Come questo:

65-year-old Tom Watson is one under through 11. What’s he trying to do, kill golf?

Chiedersi perché i mostri sacri debbano giocare se non riescono a stare sotto i 90. Forse la presenza di Olazabal e Couples è sensata, ma perché Ben Crenshaw – leggenda vivente del gioco del golf – deve “sporcare” il suo mito tirando novantuno colpi [sic] qui?

Ernie Els e Jordan Spieth, che potrebbero essere comodamente padre e figlio, appaiati in testa per una mezzoretta.

Le tribolazioni di Tiger, che finisce in acqua dal tee con un ferro 8. (Il che è anche un bel messaggio di speranza per tutti noi “normali”.)

La magia del Masters.

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Mar 06

Sam Little
Oggi raccontiamo la storia di Sam Little, prendendo spunto da questo articolo apparso sul numero di gennaio/febbraio di “Golf Today”.

Little è un professionista che ha giocato sullo European Tour dal 2005 al 2010. Il suo risultato migliore è un secondo posto al Mallorca Classic del 2007, ultimo torneo della stagione che lo fece passare da sicuro escluso (era oltre il 170° posto prima del torneo) al mantenere la carta per la stagione successiva.

En passant mi viene da pensare: magari se quel torneo l’avesse vinto, anziché arrivare secondo, la sua storia oggi potrebbe assomigliare di più a quella di Oliver Wilson.

Ma il golf in questo è magnifico come crudele, in quanto fagocita i miti stessi che crea. E Little è soltanto uno tra i tanti: il golf professionistico è pieno di ragazzi dal grande talento, il cui handicap quando sono passati professionisti era abbondantemente positivo, che poi vivacchiano sull’Alps Tour. Anche queste sono storie da raccontare.

L’anno scorso ha vinto 18.700 dollari, mentre una stagione sul Challenge non costa meno di 50mila euro. Alla fine la prosa ha vinto sulla poesia, e da poco Little (pur essendo ancora tra i primi 1200 giocatori al mondo) ha iniziato una nuova carriera presso un’agenzia che gestisce talenti sportivi. Si occupa della parte relativa al golf, e in questo – direi – appare fortunato: perché anche se è passato dall’altra parte rimane comunque nell’ambito che ha sempre costituito la sua vita professionale.

Le cose paiono essersi rimesse su binari giusti. E auguri per la tua nuova vita, Sam.

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Nov 14

Oliver Wilson dopo la vittoria all'Alfred Dunhill Links Championship

Oliver Wilson dopo la vittoria all’Alfred Dunhill Links Championship


A volte ritornano.

Oliver Wilson ha fatto il suo ingresso nello European Tour nel 2005, a 24 anni. Da lì sono seguiti anni brillanti, sia pure con qualche ombra: tra il 2006 e il 2009 è finito per nove volte secondo in tornei del tour. (Una sorta di maledizione, un emulo di Snead o Mickelson allo US Open?)

Nel 2008 arrivò fino al 45° posto della classifica mondiale, e si qualificò anche per la Ryder.

Poi il declino, inesorabile e nemmeno tanto lento. Alla fine del 2011 perse la carta. E da lì sono stati quasi tre anni di calvario, soprattutto sul Challenge dove ha ottenuto pochi risultati.

A che cosa pensa un giocatore professionista quando la palla non va più dove vuole lui, e nemmeno scendere nella serie minore funziona?

Come ha detto in un’intervista, in Kazakistan ha messo in discussione tutto (da solo in un’anonima camera d’albergo, suppongo). Che cosa passa per la testa di un giocatore professionista appena dopo i trent’anni, quando dovrebbe essere al suo teorico massimo e invece non riesce più a prenderla?

Ha mandato due video del suo swing a Robert Rock. Lui gli ha detto dove sbagliava, e quello è stato – per sua ammissione – il turning point.

All’Alfred Dunhill Links Championship di quest’anno è entrato grazie a un invito di uno sponsor. La domenica, quando Fleetwood ha sbagliato il putt che l’avrebbe mandato al playoff, la sua faccia ha detto tutto: calvario gioia sofferenza lunghi anni incerti sollievo.

Da numero 792 del mondo a numero 39 del tour in una settimana solamente, e carta assicurata fino alla fine del 2016. There is hope for us all.

Well done, Oliver.

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