The Dan Plan is over

Dan
Tramite questo articolo ho avuto in questi giorni la conferma che il Dan Plan è giunto al capolinea, e non con l’esito sperato. Dato che in questi anni ho considerato Dan McLaughlin come la mia “controparte” americana, e dato che ho preso tanti spunti da lui e dal suo progetto (ne ho parlato, per esempio qui, qui e qui), è questo il momento per proporre alcune mie considerazioni finali.

Per prima cosa, il massimo rispetto va a questa persona e al suo progetto. Certo, sarebbe facile dire adesso – il Cigno nero ce lo ricorda – che l’obiettivo era troppo al di sopra della sua portata, ma il fatto di averlo pensato, sognato, visualizzato e poi cercato è un grande merito di Dan.

Del resto anch’io qualche anno fa avevo l’idea di diventare un professionista (all’epoca ciò era consentito, poi il limite è stato riportato a quarant’anni di età: cosa che se da un punto di vista sportivo trovo corretta, non posso certamente dire lo stesso da un punto di vista per così dire costituzionale, ovvero di eguaglianza, ovvero di pari opportunità). Quando mi è stato chiaro, circa tre anni fa, che ciò non sarebbe stato possibile ho elaborato il mio piano B, che è quello di arrivare nei dintorni dello 0 entro i miei 55 anni di età. (Poi qui ovviamente si inseriscono considerazioni relative all’invecchiamento e alle motivazioni di cui ho parlato tante volte e che non ribadirò ora.)

Del resto la teoria delle 10mila ore – a proposito: sto leggendo proprio in questi giorni l’ultimo libro di Anders Ericsson, di cui dirò senz’altro nelle prossime settimane (ed è tra l’altro ironico che proprio questo libro ricordi in maniera ampia la storia di Dan) – dice “semplicemente” che con tale numero di ore di deliberate practice puoi raggiungere un livello professionale, ovvero di esperto, in qualunque disciplina umana (semplifico, perché la teoria è più complicata di così; e comunque si tratta di qualcosa oggetto di dibattito nella comunità scientifica, non certo di assiomi). Però da “esperto” a “giocatore del tour maggiore” ci sono almeno un paio di salti di categoria. E comunque non esistono allo stato prove che sia possibile partire da zero a trent’anni e arrivare a competere con i migliori. Perché in effetti è vero quel che dice Silvio Grappasonni quando Ernie Els esce dalla sabbia: che si vede che quel movimento l’ha praticato all’infinito sin da bambino, e dunque per lui è del tutto naturale. Al contrario le mie uscite dal bunker, come immagino quelle di Dan, per quanto praticate e raffinate col tempo saranno sempre “costruite”, avranno sempre e comunque un che di posticcio, di appiccicato che le rende di una categoria inferiore.

Sarebbe certamente interessante che Dan facesse un’analisi di questi anni, una sorta di bilancio di questa esperienza che è assolutamente eccellente. (È molto facile per noi, “della razza / di chi rimane a terra”, guardare che cosa fanno gli altri e criticare; ma essere nell’occhio del ciclone, ovvero buttare il cuore al di là dell’ostacolo è un atto che merita la massima considerazione e il massimo rispetto.) Questo sarebbe utile a noi golfisti “normali”, per cercare di capire qualcosa di più dell’apprendimento.

Lo dice anche l’autore dell’articolo succitato:

But if Dan leaves his “Plan” like it is now, we’ve gained nothing. We don’t know anything more about the ten-thousand-hour theory than we did before. I doubt Dan will do any kind of post-mortem as it really isn’t his style. He will say that he wants to focus on the positive and to keep looking forward. But, in failing, I believe that Dan has brought one of the major problems facing golf to the forefront. How people learn to play the game is broken and it needs to be fixed.

In ogni caso il punto centrale non cambia: è solo la pratica concentrata e focalizzata che ti farà diventare il golfista migliore che tu possa diventare. E questo Dan l’aveva capito da tempo. Non sei arrivato in fondo ma te la sei giocata bene, hai il mio massimo rispetto per questi anni che hai dedicato a questa avventura. Well played, dear Dan.

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